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 Home page - Una chiesa al mese - Arcidiocesi di Taranto, chiesa concattedrale Gran Madre di Dio - Scheda completa 

Gran Madre di Dio

Taranto,Viale Magna Grecia
07/06/2012
Pochi mesi prima dell'apertura del Concilio Vaticano II, l'11 febbraio 1962 mons. Guglielmo Motolese (1910-2005) viene nominato arcivescovo di Taranto, dove resterà fino al suo ritiro nel 1987, rivestendo anche la carica di vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana dal 1975 al 1981. Fin dai primi mesi del suo episcopato, Motolese si rende conto che lo sviluppo industriale e la conseguente urbanizzazione hanno spostato il baricentro della vita sociale e religiosa della città, allontanando fisicamente i fedeli dalla centralità della chiesa cattedrale storica, San Cataldo, nel Borgo Antico. L'idea e la costruzione di una nuova concattedrale possono diventare l'emblema del rilancio della città, ma soprattutto dell'aggiornamento della Chiesa tarantina rispetto alle sfide della modernità.
Per individuare un progettista all'altezza del compito – una cattedrale per il Ventesimo secolo e per il Concilio – Motolese contatta l'Istituto Internazionale di Arte Liturgica (IIAL), istituzione nata a metà degli anni Cinquanta sotto l'egida vaticana, che propone l'incarico prima a Pier Luigi Nervi (che nei mesi successivi progetterà l'Aula delle udienze pontificie e la Cattedrale di San Francisco) e poi – dopo la sua rinuncia – a Gio Ponti (1891-1979). L'architetto, già impegnato per la costruzione di alcune chiese e notoriamente interessato al rapporto tra religiosità e progetto fin dagli anni Trenta, stabilisce con il vescovo un'immediata sintonia di intenti, che si svilupperà grazie a una fittissima corrispondenza durante la progettazione, il cantiere e ancora negli anni successivi, fino alla sua morte. Il cantiere sarà finanziato dal Ministero Lavori Pubblici (370 milioni di lire) e dal contributo dei fedeli.
07/06/2012

La storia dell'urbanistica tarantina subisce una svolta in conseguenza allo sviluppo del centro siderurgico nei primi anni Sessanta. La città, per assorbire la pressione insediativa, avvia un processo di urbanizzazione di difficile controllo e gestione; una delle direttrici di sviluppo si orienta verso sud-est, nell'istmo tra mare Piccolo e mare Grande, secondo una maglia viaria relativamente regolare innervata sulla trama della città ottocentesca.

L'area idonea viene individuata all'estremo margine orientale dell'area urbanizzata. La facciata avrebbe costituito il fondale monumentale di via Dante, uno dei rettifili che portano al cuore della città storica, stabilendo un rapporto bipolare tra la cattedrale e la nuova con cattedrale. Il terreno necessario (6000 mq) è donato alla mensa arcivescovile dalla contessa d'Acquino.

La progettazione della concattedrale si inserisce in un più ampio ridisegno della rete parrocchiale, basata sui nuovi rapporti tra centro, periferia e campagne. Dal punto di vista ecclesiastico, la concattedrale doveva essere in grado di reggere il confronto con la cattedrale storica, per capienza e valore, ma era anche parrocchia del nuovo quartiere orientale: la monumentalità doveva quindi declinarsi con la sobrietà e con una funzionalità quotidiana, e quindi implicare costi sostenibili per la vita diocesana e parrocchiale. Forte, infatti, era l'attenzione pastorale verso i ceti operai, culminata con il noto evento messa di Mezzanotte del Natale 1968, celebrata dal papa Paolo VI nel centro siderurgico.
 
Le scelte progettuali di Ponti, discusse con il committente, fin da subito sono orientate a una maestosità di impianto realizzata con linee semplici e materiali tradizionali. Già nel primo progetto, presentato alla Pontificia Commissione Centrale per l'Arte Sacra in Italia (PCCASI) nel marzo 1963, si leggono sotto traccia i volumi del romanico pugliese e i caratteri costruttivi tradizionali di Ostuni, Martinafranca o Locorotondo.
Ponti, giunto all'età dei "grandi saggi" (come dirà Luigi Moretti recensendo la cattedrale al suo completamento), sa che l'opera potrà essere il coronamento della sua carriera, da sempre profondamente attraversata dal tema religioso. Scriverà la figlia, Lisa: "Gli arcivescovi, i parroci, le suore che gli chiesero di costruire per loro ebbero, quando l'ebbero, il genio cattolico di lasciarlo fare. Ne nacquero chiese, cattedrali, conventi pieni di letizia. La 'chiesa' ha per Gio Ponti un grado di felicità in più della 'casa'." (Ponti 2002, p. 9).
Per Ponti, fin dagli anni della Ricostruzione, "costruire una chiesa è un po' come ricostruire la religione, restituirla alla sua essenza" (Ponti 1957, p. 266) e ancora, a proposito della cattedrale: "L'architettura religiosa è un fatto di religione, prima che di architettura: l'ho pensato da sempre" (Ponti 1971, p. 12). Se quindi l'architetto deve seguire fedelmente le istanze poste dal committente e dalla Chiesa, nondimeno è chiamato a un ruolo attivo e originale, ossia a partecipare al "moto intimo di penetrare l'espressione religiosa sino a comprenderla e a manifestarla nella sua essenzialità e purezza", rendendo le opere architettoniche "un atto di coscienza della religione" (Ponti 1960, p. 43). È interessante la sottolineatura del parallelismo tra tali posizioni e l'invito di Giovanni XXIII – nel discorso di apertura del Concilio, l'11 dicembre 1962 – a preservare il Deposito della Fede rinnovandone le modalità di annuncio (Irace 2010, p. 432).
Se dunque la critica è unanime nel sottolineare la religiosità e la personale adesione di Ponti al tema, emergono accenti diversi. Per Irace (2009, p. 21) l'elemento religioso diventa "espressione diretta di un ottimismo del fare che non era l'ingenuità accomodante di cui l'avevano accusato i suoi critici negli anni Trenta, ma la fiducia nell'operosità e nella perfezione tecnica della realizzazione", secondo "la tradizione del cattolicesimo lombardo di ispirazione sociale". Altre letture enfatizzano invece una lettura più sacrale, quasi teista, della sua opera, in particolare della nota "vela", che sovrasta e segna la concattedrale, espressione di una "religiosità non-liturgica" (Ponti 1990, p. 250).
La dimensione non solo intimista o individualista della religiosità è la cifra del progetto per la concattedrale (a differenza di quanto proposto alcuni anni prima, ad esempio in Ponti 1952, p. 4); che presenta un afflato comunitario, se non universale: ogni persona, che entrerà nella cattedrale in cerca di "rifugio e difesa degli animi e degli intimi pensieri e delle verità della vita" dovrà ricevere omaggio, o rassegnazione, conforto, ausilio di virtù, serenità, nel sentirsi con tutti i viventi nel comune destino, e nel potersi anche sentire solo con Dio, in un luogo sacro" (prima relazione di progetto, 26 marzo 1964, in Torricella 2004, p. 6).
07/06/2012
 L'assetto liturgico viene definito tra marzo e novembre 1964, ossia durante le prime fasi di dibattito sulla ricezione della costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (4 dicembre 1963), attentamente seguite da Ponti nel loro sviluppo.
Il presbiterio è il punto focale della bassa navata, ma può essere al tempo stesso circondato dall'assemblea: se nell'aula trovano posto quasi ottocento fedeli seduti, più di duecento possono essere collocati nello spazio oltre l'altare, su cui si affacciano anche il coro e quattro logge laterali. I seggi absidali si prestano anche all'utilizzo per le grandi concelebrazioni . La pedana presbiteriale è sopraelevata di alcuni gradini, per favorire la visibilità dell'altare dalla navata, disposta in leggera pendenza.
L'altare è collocato nella zona più luminosa della chiesa, grazie al pozzo di luce del tiburio. È realizzato in calcestruzzo ed è rivestito frontalmente da una lamina di rame; la rastrematura della base sottolinea la monumentalità della mensa.
Verso l'assemblea si protendono due amboni: le prime interpretazioni postconciliari non avevano infatti ancora focalizzato l'unicità dal luogo della Parola, pur prevedendo già un’idonea posizione di raccordo tra presbiterio e navata. L’ambiguità dell’ambone duplice è stata risolta con la sottolineatura decorativa di uno dei due manufatti.
Un'animata discussione tra Ponti, l'IIAL e la PCCASI ha riguardato la posizione della cattedra episcopale: il progettista preferiva la collocazione laterale, in cui il vescovo può stabilire una relazione diretta sia con l'assemblea sia con l'altare, mentre in una prima ipotesi le istituzioni si erano espresse per la posizione assiale (ora sconsigliata), che avrebbe tuttavia comportato la necessità di una forte sopraelevazione della cattedra e una decisa separazione dall'assemblea (Torricella 2004, pp. 15 e 70). La cattedra è stata infine realizzata a sinistra dell'altare, affiancata da quattro seggi; sul lato opposto trovano spazio gli stalli per i canonici della cattedrale. Al fondo, la sede per il presidente non vescovo, affiancata da solo due seggi. Diversamente dalle sedi realizzate nelle chiese milanesi, Ponti non utilizza il tubolare metallico (Zanzottera 2005, p. 91), ma semplici pannelli in truciolato verniciato, con schienali piani cuspidati.
Lo spazio per il battesimo è nella cappella laterale destra, a fianco dell'ingresso laterale e in relazione con l'assemblea. Le cappelle per l'adorazione del Santissimo e per la devozione mariana sono invece a stretto contatto con il presbiterio, quasi a formare un transetto. Gli spazi per il sacramento della penitenza sono allestiti nelle navate laterali, nella parte più prossima all'area di ingresso. L’area di accesso è protetta da una bussola vetrata, su cui è disponibile una tribuna  per il coro e per l’accesso alla loggia in facciata.
In estrema sintesi, Ponti propone una forma chiusa e compatta per l'assemblea, come nelle altre sue chiese, in cui le altre funzioni liturgiche e devozionali sono ospitate in corpi esterni (Spinelli 2005, p. 75), e in cui la distribuzione è risolta con le basse navate laterali. Ponti è consapevole che il suo impianto liturgico, per quanto aggiornato ai temi del concilio, trova la sua forza non nella pianta, ma nel complesso spaziale: "è la mia stessa pianta, la mia pianta di sempre, che si alza si sveglia alzati e cammina non essere più una bara" (lettera a Motolese 25 settembre 1964, in Torricella 2004, p. 22).
La cripta, allestita sotto la parte presbiteriale e absidale della chiesa, è collegata alle navate laterali  ma è dotata anche di accessi esterni autonomi, assolvendo la funzione sia di cappella feriale, sia di vera e propria chiesa parrocchiale . Per tale ragione sono duplicati alcuni luoghi liturgici, come i confessionali (anche in questo caso integrati nell'architettura) e il battistero. A tale proposito è interessante il dibattito sulla posizione del fonte (in una prima ipotesi semovente, poi – correttamente – fisso) e sull'assetto processionale del rito battesimale (in Torricella 2004, pp. 96-98 e 115). Nella cripta è sepolto l’arcivescovo promotore, mons. Motulese.
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07/06/2012

Scrive Ponti all'arcivescovo nel marzo 1966: "Io ho lavorato proprio sull'intendimento che Le enuncio: un'architettura semplice, che abbia un fascino intrinseco, e tutta questa mia architettura è ispirata a questa espressione a dire il vero può fare senza opere d'arte, e se essa poi mi riuscirà una vera opera d'arte (preghiamo Iddio!) potrà anche fare senza per sempre" (in Torricella 2004, p. 54). Il ruolo di regia del progetto iconografico sarebbe spettato allo IIAL, con cui Ponti tuttavia intrattiene un rapporto dialettico, preferendo discutere le diverse soluzioni direttamente con l'arcivescovo.

Oltre all'approccio aniconico sopra esposto, troviamo momenti in cui si propende per l'utilizzo della Parola scritta o, all'opposto, per un'abbondante arte figurativa popolare. Sulla parete di fondo si arriva a prevedere una galleria di santi, in particolare i santi patroni delle diocesi pugliesi, ma è l'arcivescovo stesso che blocca l'ipotesi, che avrebbe avuto implicazioni "giurisdizionali" nei confronti delle altre Chiese locali della regione. Ponti scarta invece l'ipotesi di una teoria di angeli, troppo lontana dalla concreta realtà dei fedeli.
Ponti avrebbe acconsentito all'inserimento o di opere di grandi artisti, o di artigiani radicati nella devozione popolare, preferendo un'arte "religiosa" a un'arte "sacra" (Ponti 1951; Campiglio 2004, pp. 64-65): "La cattedrale sarà già un'opera d'arte di per sé, tutta, e potrà avere la sua consacrazione figurativa solo attraverso poche opere d'arte degne di essa e per vero valore d'artista e per sincero calore in umiltà di figuratori" (lettera a Motolese, in Torricella 2004, p. 27). Alla fine, per le irrisolte tensioni e per l'accelerazione della chiusura dell'opera, è però Ponti stesso che dipinge la Vergine annunziata e l'angelo, collocati nella parete absidale, modulata solo dalle aperture della cantoria e da campiture colorate, secondo tonalità stabilite direttamente in opera. Sotto l'Annunciazione, è collocata la croce in legno, inizialmente prevista nuda per sottolineare la crudezza dello strumento di supplizio.
Il tema mariano è ripreso dalla Madonna del Mantello (Campiglio 2004, pp. 61, 66), scultura bronzea di Ettore Calvelli su disegno di Ponti, nata nel 1944 come preghiera collettiva rivolta al futuro, con l’affidamento a Dio della storia umana (raffigurata nel mantello); l’opera è donata da Ponti.
Due manufatti singolari segnano, come esili quinte, lo spazio dell'altare, quasi a rievocare un ciborio di luce o una linea di demarcazione sacrale: due colonne in calcestruzzo affiancano la mensa e si protendono nel tiburio, sormontate da "ancore-croci", simbolo del sacrificio e dell'approdo alla salvezza.
Gli arredi liturgici, le suppellettili e i corpi illuminanti del presbiterio sono realizzati dalla scuola d'arte sacra "Beato Angelico" di Milano, con cui Ponti aveva già precedentemente stabilito un sodalizio stabile. Il fonte battesimale ha forma sferica ed è inserito in un esile ciborio metallico, affiancato dal porta-cero pasquale.
In posizione speculare alla cappella battesimale è collocata la cappella dedicata alla memoria dei marinai caduti durante la II Guerra Mondiale. Il gruppo scultoreo di croce, ancora e timone è realizzato dalle officine dei cantieri dell'Arsenale militare.
07/06/2012

La ricerca sulla luce attraversa tutte le fasi progettuali: "la luminosità diffusa è congruente a un'idea di religiosità come serena partecipazione al mistero del sacro e alla sua presenza nella vita dell'uomo" (Irace 2009, p. 27).

La luce consente di gerarchizzare lo spazio liturgico (Zanzottera 2005, p. 87), grazie al contrasto tra il pozzo di luce sopra l'altare e l’illuminazione discreta sulle pareti laterali, una sorta di cleristorio traforato tra i portali in cemento armato. La vela inizialmente era stata pensata come "cupola rettangolare" aperta sul presbiterio, ma fin dal 1965 viene separata dallo spazio interno, che riceve invece illuminazione dalla parete vetrata del tiburio su cui si fonda la struttura reticolare della vela. Questa è realizzata mediante due pareti in cemento armato parallele, traforate da una trama di aperture poligonali, rese solidali dalle due torri campanarie laterali.
Se il volume esterno è rivestito di intonaco bianco, all'interno è il colore verde che conferisce unitarietà allo spazio, con diversi materiali, declinazioni e textures. La scelta del verde avrebbe dovuto segnare un elemento di legame con l'ambiente esterno, in cui la vegetazione era destinata ad avvolgere la massa bianca della chiesa.
07/06/2012

Il complesso della concattedrale avrebbe dovuto essere il centro di un vero e proprio 'quartiere episcopale' , con gli uffici sia della parrocchia, sia della diocesi, ma anche servizi sociali, abitazioni e molto verde pubblico: il "centro religioso" della nuova Taranto. Fin dagli anni della Ricostruzione, infatti, secondo Ponti la Chiesa avrebbe dovuto diventare il motore etico ed estetico del rinnovamento sociale italiano. Nel 1964 Ponti propone un assetto urbanistico complessivo al Comune, che solo tardivamente recepisce le indicazioni dell'architetto, senza poi renderle mai operative. Mancando regole e vincoli sugli spazi adiacenti la concattedrale, lo sviluppo si è realizzato con volumi e densità ad alto impatto, prive di coordinate formali coerenti con la chiesa . Il complesso stesso della curia non viene completato: alle spalle della vela trovano sede solo la casa canonica e una residenza per una comunità religiosa.

Alcuni aspetti progettuali a scala urbana restano tuttavia almeno parzialmente leggibili:
- il rapporto tra la prospettiva di via Dante, la facciata della chiesa e la sua "vela", considerata da Ponti stesso come la facciata "maggiore" (Ponti 1971, p. 12). Il concetto del ruolo iconico della facciata della cattedrale, nei mesi in cui realizza la vela di Taranto, è ribadito da Ponti nelle sue idee per la cattedrale di Los Angeles;
- il potenziale ruolo del bacino antistante la facciata per amplificarne la percezione; le tre vasche sono l’esito di una costruzione affrettata (insistono su un terreno che non è nella disponibilità della curia ed occupato da preesistenze) e di un rapido deterioramento, tuttora irrisolto nonostante i lavori di ripristino effettuati nel 1989 in occasione della visita del papa.
È però la carenza dell'elemento verde che allontana maggiormente la nostra percezione dell'edificio da quanto immaginato da Ponti: un vero e proprio giardino dell'Eden, un angolo di natura rigogliosa, con vegetazione che avrebbe dovuto sommergere l'edificio: "La architettura della cattedrale sarà compiuta – perché è stata progettata in questa versione – quando sarà aggredita dal verde dei rampicanti, assediata e difesa, selvaticamente, da ulivi, eucalipti, oleandri e piante a cespuglio della terra tarantina: e sarà bosco, fiorirà in primavera, perderà foglie in inverno. Quando sarà 'espropriata' dalla Natura, appropriata da Dio, e navigherà nel cielo, suo territorio, abitata da uccelli, che i nostri occhi guarderanno, adorando." (Ponti 1971, p. 12).
Intuendo la difficoltà di dar corpo alla sua visione, Ponti rivolge un appello direttamente ai cittadini di Taranto, in particolare alle donne, per invitarli a portare vasi da piantare ai piedi dell'edificio: "e il giorno dopo la gente di Taranto venne alla cattedrale portando con sé vasi e piante da piantare, perché l'architetto sognava che il verde rampicante coprisse le pareti bianche della sua costruzione" (Ponti 1990, p. 250).
 
07/06/2012
"Un tempio non è mai finito: questo tempio comincia ora a vivere nella spiritualità del suo popolo" (lettera di Ponti a Motolese, 12.12.1970, in Torricella 2004, p. 156). La dedicazione e la prima concelebrazione l’8 dicembre 1970 avviano l’appropriazione dell’edificio da parte della comunità: commenta la didascalia delle foto di “Domus” (di cui Ponti era direttore): “Una architettura la si disegna disabitata, pur immaginandola abitata: la consacrazione è data dai fedeli”.
Se lo spazio liturgico della concattedrale era destinato a diventare la risposta viva della Chiesa tarantina alle sfide della modernità, è però soprattutto l'immagine esterna che diventa presto l'icona di un rilancio dell'architettura 'sacra', con una ritrovata monumentalità, lontana sia dalle interpretazioni meramente funzionaliste del Movimento Moderno, sia dalle possibili derive funzionaliste del Movimento Liturgico stesso. La recensione di Luigi Moretti su "Domus" 'consacra' a sua volta laicamente il ruolo della concattedrale nella cultura architettonica italiana e internazionale. Come ricorda Irace (2010, p. 429), il tema dell'edificio sacro era centrale per Moretti e Ponti, la cui consonanza ideale era fondata anche sulla comune fede. La critica di Moretti determina tuttavia una chiave di lettura, poi affermatasi quasi univocamente nella letteratura, "interamente centrata nell'alto e grande fastigio che sovrasta tutto, nella grande 'vela' che s'alza al cielo […] A me sembra che questa quasi immateriale struttura sia essa ed essa sola la chiesa. Il resto, lo spazio assembleare e presbiteriale, le annesse costruzioni sono accessori necessari agli uomini nella loro vita e religiosità quotidiana e usurata" (Moretti 1971, p. 11). Ponti stesso è consapevole del ruolo identitario fortissimo della vela, "che non ha precedenti e non può avere conseguenti che non siano plagi" (intervista in Beretta 1979, p. 133).
Il ruolo iconico della “vela” ha dovuto però misurarsi con la consistenza materiale del manufatto, che paga l’eccessiva fiducia nelle prestazioni dell’acciaio (condizionata ovviamente dal ruolo della siderurgia tarantina) e alcune debolezze realizzative. I pannelli con i trafori a losanghe erano stati prefabbricati a pié d’opera, per essere poi montati su un telaio in profilati metallici  e telai in cemento armato: la complessità del manufatto e l’esiguità di alcuni sezioni hanno determinato una situazione in cui il degrado si è diffuso con un’intensità e un’estensione preoccupanti, tali da richiedere un complesso intervento di diagnostica e di ripristino negli anni 2004-2005 (progetto e direzione lavori ing. Domenico Mancini).
Come accuratamente documentato da Torricella (2004), certamente la fatica e la letizia del progetto di Ponti non si esauriscono nell'invenzione della vela, ma si perpetuano nel rapporto dialettico tra questa e lo spazio liturgico interno, tra la 'gratuità' del suo dispiegarsi e l'impegno della Chiesa nel lasciarsi coinvolgere dalla vita dalla città. Ciononostante, la "vela" ha assunto un valore simbolico anche nella vita pastorale, come colto anche da Giovanni Paolo II nell'incontro con la cittadinanza di Taranto, il 28 ottobre 1989: "Questo monumento di arte e di fede vi ricordi il desiderio e il dovere di inserirvi da credenti nel cuore dello sviluppo, non solo urbanistico, della nuova Taranto e di offrire una 'vela', un luogo di sicura fraternità e speranza, a tutti coloro che faticano sul 'mare' della vita. […] La 'vela' è anche un segno di una Chiesa che va incontro alla città e, valorizzando il legame storico-spirituale tra San Cataldo e la Concattedrale, tra la città vecchia e i nuovi quartieri, si impegna a costruire un ponte ideale verso il futuro, capace di assicurare prospettive di serena e costruttiva convivenza per tutti" (citazione in Semeraro 1990, p. 89).
 
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