Scompare ogni decorazione, nei progetti di Van der Laan, evidenzia Ferlenga nel saggio introduttivo, ma resta evidente l'aspetto simbolico dei suoi edifici. E questo deriva dalla composizione dei volumi invece che dagli effetti di superficie. Seguendo la lezione di s. Benedetto gli edifici sono intessuti di percorsi precisi e dominati da una geometrica relazione tra i diversi ambienti che costituiscono in tal modo un'armonia generale. La bellezza deriva da questa armonia complessiva che Van der Laan intuisce e cerca di sistematizzare nel concetto di “numero plastico”. Un concetto, appunto, non tanto un sistema numerico: volto a superare l'eccesso di astrazione raziocinante contenuto nell'uso di serie numeriche e di misure standardizzate. Come spiega Dom Xavier Botte, studioso del pensiero di Van der Laan: “Mettere in rapporto lo spazio con il numero esige un sistema di misurazione non arbitrario, come quelli di cui ci serviamo abitualmente, ma che costituisca una risposta organica alla natura della quantità continua in quanto tale. Dal confronto fra la grandezza della casa e l'estensione spaziale della natura scaturisce l'elaborazione di un numero che esprima questa grandezza e, attraverso questa, tutte le forme e gli spazi architettonici. Questo numero è chiamato plastico perché ha che fare a un tempo con la grandezza continua propria degli spazi e delle masse e con la grandezza discontinua del numero astratto che solo permette alla nostra intelligenza di contare. Grazie a questo numero particolare la casa diventa per colui che l'abita un bene non solamente materiale, ma anche spirituale” (dall'introduzione a L'espace architectonique, edizione francese dell'opera di Van der Laan De architectonische ruimte, Leiden 1969).
Ferlenga spiega come Van der Laan operi con
oggetti comuni, che si riferiscono, sia alle parti architettoniche, sia ai veri e propri oggetti che corredano le architetture, ma sono sottratti alla loro semplice funzionalità quotidiana per elevarli al rango di espressioni dell'idea stessa di oggetto legato alla finalità sua propria e allo stesso tempo capace di trascenderla nella valenza simbolica che gli si addice nel contesto monastico. Così, spiega Ferlenga, secondo Van der Laan ogni architettura si muove dalla
casa, “
intesa come elemento di mediazione tra l'uomo e il mondo naturale, e dai principali elementi che la compongono: il pilastro, il muro, la cellula, la corte... partendo da queste premesse i suoi progetti non sono altro che case; case che sorgono in luoghi diversi, case dilatate, case per i religiosi, case per gli uomini o per Dio”.
Storia ed emozione sono da Ven der Laan intese non come finalità evidenti, bensì come silenti memorie che emergono con qualità poetica dove l'ordine che l'architettura pone diviene cornice capace di ospitare lo scorrere della vita e l'agire dell'essere umano: i suoi riti, il suo pregare e il suo operare. Per spiegare l'approccio progettuale del monaco, Ferlenga richiama anche l'architettura Zen e il rapporto tra esterno e interno che dia un senso alla diversità degli ambienti senza con questo strapparli al paesaggio in cui si inseriscono e di cui fanno parte.
Nel suo percorso formativo Van der Laan si immerge nello studio di diversi esempi fondanti per l'architettura e in particolare per l'architettura con finalità cultuale. Così indaga le basiliche di
San Pietro e di
Santa Sofia, ma anche il complesso monumentale neolitico di
Stonhenge in cui ritrova da un lato l'essenzialità delle forme geometriche che di per sé dicono di come l'architettura pone ordine non contro né al di sopra della natura, bensì nel contesto della natura, e di come riesce a farlo senza ricorrere a espressioni stravolgenti o clamorose, bensì di assoluta essenzialità. Purtuttavia ricca di significato proprio nelle relazioni geometriche delle forme e delle disposizioni. Secondo i principi di
euritmia che riguardano l'insieme dell'edificato e di
simmetria che riguardano i rapporti metrici intrinseci agli elementi che questo compongono.
Segue un'autobiografia di Van der Laan, dal titolo “Il quadro liturgico dell'abbazia di Vaals”. Perché questa abbazia è la sua opera maggiore, ed è quella dove egli visse la sua vocazione monacale. Così l'autobiografia serve per condurre a una comprensione di come l'architetto monaco ha elaborato la sua opera maggiore.
Van der Laan descrive la sua vita come divisa in due, cronologicamente, dalla seconda guerra mondiale. Con questa scomparvero i suoi docenti e i suoi genitori e si ritrovò adulto. Reso capace di affrontare la vita grazie al suo precedente percorso, che vede a sua volta diviso in tre fasi.
Da bambino, l'esplorazione del mondo: entrare nei cortili di Leida e quindi, per curarsi la tubercolosi, riposare osservando la natura con un binocolo.
La seconda fase, dopo la terapia anti tubercolosi, fu dedicata al “fare”: costruire mobili, apprezzare l'artigianato, sviluppare un'avversità per il taylorismo (conosciuto anche come fordismo: la catena di montaggio quale principale strumento produttivo) di cui gli aveva parlato un amico ingegnere. E quindi cominciare a lavorare nello studio di architettura del padre, dedicandosi al disegno mentre comincia gli studi di architettura a Delft.
La terza fase riguarda l'ingresso nel monastero di Oosterhout: “dopo la natura e la società, ecco la conoscenza della liturgia; non più la vita del fare, ma il pregare”. E anche il primo incarico, ricevuto nel 1938: per costruire un alloggio per gli ospiti accanto all'entrata nel convento. E dopo questa, la richiesta di procedere anche al progetto di una nuova chiesa per il monastero: progetto per il quale prese ad annotare quanto andava discutendo con i monaci e con altri architetti.
E dopo la guerra, la necessità di ricostruire le chiese danneggiate, impegno per il quale fu incaricato tra gli altri anche suo fratello Nico van der Laan. Ma soprattutto l'occasione di prendere parte a un processo di discussione con tanti altri coinvolti in queste opere.
E infine l'incarico nel 1956 di completare l'abbazia di Vaals, costruita a partire dal 1923, ma lasciata incompiuta. Ora per quest'opera, che sarà completata nel 1986, può raccogliere tutta l'esperienza e le conoscenze acquisite. Tra queste un'azienda tessile capace di seguire le sue indicazioni nel disegno e nella coloritura delle stoffe per gli arredi liturgici; un orafo capace di eseguire il vasellame secondo il principio della “nobile semplicità”; un ebanista che lavorava con l'ing. Fokker (noto per gli aeroplani) cui affida la realizzazione dei modelli architettonici e dei mobili.
E infine la sua partecipazione a un corso di architettura per la liturgia tenuto da suo fratello Nico a Den Boch. In tale contesto prende forma il problema del numero plastico: “Il vero problema della definizione quantitativa, della grandezza delle cose che facciamo, sta nel fatto che essa è non aritmetica ma geometrica; non discreta, come il nostro numero astratto, ma continua, come la grandezza concreta...:”. Si tratta di comporre la necessità del contare inteso come attività intellettuale astratta, e il fare artistico, inteso come attività creativa.
Il numero plastico si configura come la
ricerca dell'armonia interna tra le parti di un edificio complesso in cui si individuano gli elementi più piccoli i quali a loro volta si rapportano con quelli maggiori e col volume generale. A tale numero plastico si assoggettano non solo gli edifici, ma gli arredi, il vasellame, gli abiti, i mobili. Il tutto alla ricerca della “nobile semplicità”, espressione “
che va attribuita personalmente a papa Paolo VI e dev'essere la parola d'ordine per tutto ciò che sarà realizzato” quanto ad architettura e arredi.
La parte centrale del volume presenta in ordine cronologico i progetti – realizzati e non – di Van der Laan.
Costruzione a pianta ottagonale voltata all'interno. Con nicchie ad arco esterne e archi inseriti nella muratura anche a mo' di decoro plastico.
Il progetto originario era stato affidato a
Dominikus Böhm nel 1922. Ma i lavori furono interrotti per carenza di fondi e poi per l'insorgere della guerra, dopo la quale l'edificio fu usato come caserma e come ostello per le famiglie rimpatriate. Nel 1947 l'edificio fu affidato all'abbazia di Oosterhout che nel 1956 incaricò van der Laan per
completare le parti mancanti: la chiesa, la biblioteca, la sagrestia, un nuovo chiostro con galleria aperta circostante.
“All'arrivo di Van der Laan l'abbazia è costituita da un edificio a corte chiuso, reso austero delle forme storicizzanti e dal mattone a vista. All'interno, attorno al cortile centrale, trovano posto l'alloggio dell'abate, il chiostro, il refettorio e le celle su tre livelli”.
Van der Laan inserisce nuovi spazi tra quelli esistenti, elimina la scala-torre cilindrica nel chiostro, aggiunge
bassi portici sul lato nord e aperture sul lato sud.
Le nuove costruzioni sono la cripta, seminterrata nella pendenza del colle (1961).
La
chiesa (1967), composta da un ingresso con portineria in un corpo basso e allungato da dove si accede a un atrio aperto su due livelli “
simile al peristilio di una casa romana”. Da una scala contenuta nello spazio di un portico
si sale quindi alla chiesa. “...
L'atrio, in relazione diretta con il cielo e simile a una sala scoperchiata, è uno dei luoghi più suggestivi... Riveste il ruolo di soglia tra la zona pubblica e la zona di clausura e la sua architettura è permeata da una classicità spoglia di ogni enfasi”. All'interno la chiesa si compone di una navata centrale percorsa su tre lati da una galleria. Finestre rettangolari nella fascia superiore fanno filtrare la luce dall'alto.
L'altare è culmine della
navata centrale affiancato dai banchi dei monaci; di fronte all'altare altri banchi a schiera sono destinati ai fedeli esterni al monastero. Tutti gli arredi sono disegnati da Van der Laan,
Il campanile è una piccola torre a base rettangolare e poggia a un lato del peristilio d'ingresso.
La biblioteca e la sacrestia (1986) si trovano in un corpo di fabbrica autonomo coperto con tetto a falde. La biblioteca, a pianta rettangolare, occupa uno spazio a doppia altezza ed è divisa da una pilastratura in due ambiti non simmetrici: di passaggio e per le scaffalature.
Il chiostro superiore e la galleria aperta. Un lato è preesistente e Van der Laan completa il perimetro del chiostro con una galleria aperta che funge da filtro tra monastero e natura circostante.
“
Non sfugge al controllo dell'architetto, neppure lo spazio esterno, la cui costruzione non è dissimile da quella dell'edificio.... Van der Laan accenna a una sorta di simulazione urbana, dove gli alberi richiamano gli allineamenti degli edifici e le radure le piazze”. In una di questa stanno
le sepolture dei monaci, tra i quali lo stesso Van der Laan.
Tra gli altri progetti, è interessante considerare quello del Convento per le suore francescane a
Waasmunster-Roosenberg in Belgio (1972-75), insieme con
Nico van der Laan e con
P.E. Vloed. Composto da una parte dedicata alla clausura e una parte aperta. L'elemento più caratteristico è la
chiesa, a base quadrata sulla quale si eleva un volume ottagonale con finestre nella fascia superiore.
Il
monastero è stato inaugurato nel '91, anno della morte di Van der Laan e la
chiesa è stata completata nel '95.
Sono previsti due chiostri, uno solo dei quali era costruito al momento dell'uscita del libro.
Ogni corpo di fabbrica, per quanto parte del tutto unitario dell'abbazia, si profila come autonomo grazie al fatto che il suo volume fuoriesce dall'allineamento con il corpo contiguo.
L'opera dedicata a Van der Laan è completata da una parte
incentrata sugli arredi, i mobili e i paramenti da lui disegnati. La filosofia di Van der Laan al proposito è riassunta da quanto da lui scritto in
Liturgie en Architectur (Gent, 1978): “
Abitazioni, vesti, vasellame, libri e quadri della vita quotidiana sono rappresentati da un'unica 'aula', una sala che propone la forma elementare dell'abitazione in tutta la sua purezza; da una gamma ristretta di tonache, nel cui taglio si danno a vedere le forme primitive dell'abbigliamento umano; da oggetti che sono i tipi di quelli da noi utilizzati per l'alimentazione, cibo o bevanda; dal libro per eccellenza, la Sacra Scrittura; e dalle effigi, infine, del Salvatore e della Madre”.
Infine un florilegio di scritti di Van der Laan, da cui risulta evidente la sua ricerca della “nobile semplicità” negli oggetti di uso comune trasfigurati per fini liturgici e la sua attenta e minuziosa analisi di un luogo quale Sonehenge, che egli considerava un prototipo di essenzialità geometrica significativa dell'ordine cosmico ed essenziale che ambiva realizzare nelle proprie architetture.