Il dialogo tra arte e fede è antico e ha valore di una vera e propria alleanza: il che è una caratteristica propria del cristianesimo, chiamato a testimoniare nella storia l'opera di Cristo, uomo tra gli uomini. Ma nel cammino storico avviene una divaricazione tra l'arte e la fede, che dal XVIII secolo diviene solco tanto più profondo quando negli sconvolgimenti del Novecento sembra avverarsi il proclama della “morte di Dio”. Al contempo la crescente attenzione alle strutture materiali che compongono l'essere umano, studiati dalla psicanalisi freudiana, favorisce l'autoreferenzialità del gesto creativo.
Si pone quindi il problema: dopo che la Chiesa si è sentita spodestata dalla sua posizione preminente occupata nei secoli in campo culturale e simbolico, si può tornare oggi a un'interrelazione proficua con l'arte? Oggi, quando la società è scristianizzata e la Chiesa ha dovuto rinunciare alla veste “gloriosa” conosciuta col barocco? E, ancora, in tale contesto ha senso parlare di arte cristiana? Persino le opere di arte sacra del passato oggi infatti sono intese come arte in sé e per sé: slegate dal contesto liturgico e simbolico delle origini...
Nelle
icone bizantine, come nelle opere medievali, quali
La Maestà di Duccio di Buoninsegna, il
fondo oro ha un senso preciso: «
L'icona è epifania, manifestazione del divino. Il fondo è omogeneo. È il colore dell'oro, simbolo della presenza di Dio che avvolge e trasforma la realtà umana».
Del resto, com'è noto l'icona è “trascrizione” che ripresenta la vicenda della salvezza voluta dal Padre; inoltre nella prospettiva rovesciata si evidenzia come è Dio che si rivolge all'uomo, non viceversa.
La trasformazione avvenuta col
Rinascimento e l'elaborazione della
prospettiva a partire dall'occhio dell'osservatore opera il capovolgimento: da allora è l'essere umano che guarda e studia il mondo, non il soprannaturale che si china sull'uomo. Come nella
Pala di Montefeltro di Piero della Francesca, dove la luce è bensì simbolo di Dio che si rivela, ma anche «
elemento fisico che va studiato nelle sue componenti scientifiche».
Comincia così il processo di secolarizzazione che avrà il suo trionfo col “cogito ergo sum” cartesiano, che pone il pensiero, la ragione umana, al centro dell'esistenza.
La luce dei fondi oro medievali è astratta, atemporale, priva di ombre. Dopo la
rivoluzione giottesca gli eventi avvengono sempre più nel contesto storico ed è anzitutto l'uomo che si rivolge a Dio. Un fatto che si riscontra per esempio anche nella barocca
chiesa del Gesù a Roma, dove il nome di Gesù, iscritto nel trionfo luminoso della volta, si pone come magnete che attira a sé ogni cosa: «
Dio si rivela come un principio di tensione che evita la dispersione... agisce come un principio fisico». Il soprannaturale è interpretato con gli occhi della ragione.
Il processo di allontanamento dalla concezione
teocentrica dell'universo si muove ancora oltre per esempio nelle opere di
Caravaggio, dove, come si vede per esempio nella
Vocazione di San Matteo, «
una luce improvvisa illumina la scena per poi scomparire... La luce di Dio si ritira per lasciare la realtà umana alla sola luce naturale. Dal punto di vista teologico, se il mondo è lasciato a se stesso, tutto si risolve nei limiti del mondo osservabile e misurabile».
Per arrivare poi alla luce degli Impressionisti, analizzata interamente nella sua natura fisica e nelle sue componenti cromatiche. Qui il distacco dal divino è compiuto. L'uomo si sente smarrito, comincia l'epoca in cui il nichilismo si afferma come assenza di valori supremi, e «la vita dell'uomo sembra configurarsi come un lungo viaggio rivolto alla ricerca di un senso non più dato». Allora la domanda sul senso del vivere si esprime attraverso vari cammini: ricerca dell'invisibile, spiritualità, misticismo.
Così Cezanne desidera tradurre in pittura il mistero che si trova «alla sorgente impalpabile delle sensazioni». E Paul Klee afferma che l'arte rende visibile l'invisibile. Mentre per Kandinsky lo Spirito si oggettiva «nell'armonia delle forme e dei colori».
Ma in questa ricerca di senso mancano linguaggi condivisi, e così ogni artista «
chiede di partecipare a un processo di creazione di senso che risulta per lo spettatore sempre provvisorio e contingente». E in tale contesto l'arte sacra è tanto più smarrita, poiché invece di
rappresentare o simboleggiare qualcosa essa sente di dover
creare ex novo una realtà che peraltro ritiene le appartenga
in toto. E in un mondo come quello del Novecento, pieno di lacerazioni, contraddizioni, tragedie, mostruosità, ecco nascere tra l'altro l'
estetica del brutto.
A fronte di tutto questo la Chiesa si trova smarrita e al suo interno alcuni decidono di ancorarsi in una rigidità volta a riproporre ostinatamente il passato dando luogo al fenomeno del kitsch religioso «che invaderà le nostre chiese con una veemenza che farà rimpiangere lo stile sulpicien di fine Ottocento».
Tuttavia v'è chi cerca con autentica ansia un rinnovamento: così Giovanni Battista Montini, che nel 1931 riprenderà la tradizione tomista del rapporto tra bene e bellezza, scrivendo che «il bello è bene che si offre come spettacolo per far amare l'essere». Mentre in Francia p. Marie Alain Couturier e p. Pie Raymond Régamey con la rivista L'art sacré si rivolgono ai grandi dell'arte contemporanea, a prescindere dalla loro appartenenza alla Chiesa, per recuperare la loro ricerca creativa all'espressione del messaggio cristiano. Dando luogo a capolavori quali la cappella di Vence di Matisse, o la cappella di Ronchamp di Le Corbusier.
Il
Concilio Vaticano II fa propria questa linea di dialogo con l'arte contemporanea, e questo consente la realizzazione di tante opere significative. Tra queste si cita la pellicola “
Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini. Il cui caso «
mostra come il compito della Chiesa sia quello di aiutare le persone a divenire consapevoli della presenza di Dio nella propria vita, come debba cercare di adoperarsi per rendere le persone capaci di evangelizzare a loro volta...».
Ma dopo il Concilio segue un'epoca di smarrimento e, malgrado i diversi tentativi di dialogo fecondo già esperiti, la massificazione urbana porta alla realizzazione approssimativa di tante nuove chiese di qualità incerta; non solo, una malintesa ansia di rinnovamento porta a «un vero e proprio rimaneggiamento delle chiese antiche, in nome di un pur necessario adeguamento liturgico». E così molti altari barocchi scompaiono, numerose sagrestie sono vendute nel mercato antiquario mentre le chiese sono riempite di «opere per lo più caratterizzate da un devozionismo pietistico e superficiale o da una adozione di linguaggi contemporanei del tutto esteriori e insignificanti».
Mentre d'altro canto vi sono alcuni casi significativi di opere importanti: quali la nota chiesa sull'Autostrada di Giovanni Michelucci, la chiesa di Riola di Vergato (BO) progettata da Alvar Aalto e più recentemente le opere di Richard Meier a Roma (la chiesa Dives in Misericordia) o di Renzo Piano (il santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo).
Si segnalano anche alcuni interventi di artisti contemporanei in contesti ecclesiali, quali le opere di Valentino Vago in diverse chiese del Milanese o l'intervento di Dan Flavin in Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano.
Mentre desta perplessità un intervento quale quello di Marko Rupnik nella cappella Redemptoris Mater del Vaticano: «Possiamo chiederci...se l'intento di riproporre una sorta di neo-bizantinismo non sia un segno di una incertezza da parte della Chiesa nell'accettare le modalità con cui la modernità comprende se stessa...».
Tuttavia, a parte poche eccezioni, di solito nelle nuove architetture di chiese, che sono il luogo al quale l'arte cristiana contemporanea dovrebbe essere chiamata a contribuire, manca il senso «del rapporto tra l'edificio e le immagini destinate al culto. Troppe volte è assente una strategia unitaria sul piano della progettazione, che tenga conto di tutti i vari interlocutori, dagli esperti in liturgia ai teologi.... Tutto appare sotto il segno di una frammentazione da cui appare difficile smarcarsi».
Di qui la necessità di un profondo ripensamento intorno ai linguaggi della contemporaneità e intorno al significato dell'immagine.
A partire dalla constatazione di come le esperienze tragiche del Novecento abbiano segnato profondamente l'arte, che ha cercato di esprimere il dolore delle vittime delle guerre, delle torture, dei campi di concentramento, recuperando nelle immagini di Cristo sofferente un momento di denuncia delle violenze, ma anche le ragioni di chi «
senza speranza, custodisce la speranza», come avviene per esempio col ciclo
Miserere di Georges Rouault.
Qualcosa di simile avviene con la Crocifissione bianca di Marc Chagall, dove si ravvisa per via simbolica la tragedia del mondo, in forma di guerre, persecuzioni, caos generalizzato ma, in tutto questo caos «il Cristo sulla croce accende una speranza, una riconciliazione, una vita nuova».
Ora, se queste figurazioni del
Cristus Patiens sono particolarmente vicine alla sensibilità di artisti che hanno vissuto l'epoca delle grandi tragedie, v'è anche l'esperienza di altri che hanno cercato l'esperienza del trascendente, per esempio nell'esplorazione del monocromo, ovvero dell'astrattismo che nella sua essenza più pura si fa aspirazione d'infinito. Questo accade nei monocromi dell'americano
David Simpson che «...
si presentano come modelli straordinari di specchi... in grado di assorbire la luce, per poi diffonderla...». Le pennellate cambiano continuamente di direzione e cambia continuamente l'angolo di incidenza del pennello sulla tela, così che la superficie dipinta sembra contenere
tutte le immagini e diviene pura vibrazione. L'infinito si raccoglie così nel finito: «
una pittura sempre uguale e al tempo stesso sempre differente» che può ricordare anche l'astrattismo dei
fondi oro medievali.
Nel contesto del variegato panorama dell'arte contemporanea, il problema è come il committente possa orientarsi, e che tipo di spiritualità comunichino le immagini spesso presenti nelle chiese, e che legame abbiano con la cultura contemporanea? Infatti nella ricerca di un'arte dal valore didascalico il committente tende spesso a ricercare quelle che appaiono come opere di facile interpretazione: ma purtroppo «il limite di molta arte cosiddetta sacra consiste... nella ripresa tanto semplificata e superficiale quanto artificiosamente naif della grande tradizione figurativa come veicolo di messaggi spirituali». E questa è un'arte che sembra invitare ad allontanarsi dai problemi reali perseguendo immagini vuote, caratterizzate «da freddo estetismo e da un insignificante formalismo teologico», anziché assumere i problemi reali per trasfigurarli indicando un cammino di fede: cosa che può avvenire solo confrontandosi con la realtà e con la ricerca culturale attuale.
«Occorre parlare con il linguaggio del proprio tempo, per comprendere come il vangelo può ispirare e rinnovare dall'interno il significato dell'immagine. Riproporre i temi della tradizione cristiana con un semplice riaggiornamento, significa fondamentalmente avere sfiducia nella capacità del vangelo di trasformare e rinnovare dall'interno le culture e di poterle fecondare».
Oggi l'arte sarà ancora religiosa se saprà trasmettere «quell'emozione estetica che scaturisce da quel soffio dello spirito che è in noi ma che non viene da noi. … Se l'arte è veramente religiosa, saprà comunicare contenuti e messaggi di fede che emergono naturalmente dall'adesione a valori profondi, dalla ricerca dell'artista di porsi in ascolto di una presenza che già abita la sua vita... L'arte sarà liturgica nel momento in cui sarà in grado di trasmettere quella potenza affettiva che nasce dall'incontro con quel “soffio vitale” che l'uomo saprà riconoscere nella propria esperienza di vita e che opera attraverso il lavoro delle mani dell'artista, come traspare dalle ricerche di un Beato Angelico, di un Gian Lorenzo Bernini o ancora di un Georges Rouault, in cui la ricerca spirituale si fa uno con la dimensione estetica».