Il volume contiene articoli firmati da p. Couturier in
L’Art Sacré, e in altre pubblicazioni,
dal 1950 al 1954. Questi rappresentano un impegno a esprimere il
messaggio cristiano attraverso l’arte, accogliendo
l’estetica come dimensione sostanziale dell’essere umano. «
Bisogna tenere duro – scriveva nel 1950 –
continuare a ripetere che nell’arte non è l’intelletto a giudicare e a discernere, ma i sensi. Più precisamente l’intuizione sensibile e non il ragionamento. In materia d’arte non si giudica a seconda di ciò che si pensa, ma a seconda di come si sente. A seconda, cioè, di quello che si è». Un tema, questo, che percorre tutti i testi dell’A.: questi, prima che critico, è artista desideroso di condurre attraverso
il linguaggio dell’arte la sua missione di sacerdote. E vive con lacerante intensità
l’aspirazione alla purezza nel raccontare l’assoluto, che le espressioni artistiche possono ottenere con poetico vigore, pur a fronte di tanti ostacoli.
Couturier pone il tema dell’autenticità come primario e fondante. Per questo si scaglia in più occasioni contro “l’accademia” che con i suoi manierismi e col conformismo omologante tende a soffocarla. Vi contrappone una certa spontaneità: «Mentre una volta i nostri bisnonni realizzavano, senza nemmeno rendersene conto, porte e finestre, maioliche e ceramiche, tavoli e sedie, immagini e tappezzerie di gusto squisito, oggi i loro discendenti, anch’essi senza rendersene conto, realizzano faticosamente.... oggetti la cui forma e i cui colori dovrebbero farci provare disgusto... ». I primi operavano quali artigiani, i secondi operano nel mondo del conformismo che Couturier chiama accademico, e che ha molto a che vedere con quel che oggi si intende per “essere di moda”.
Couturier si scaglia contro chi evita di scavare nell’animo, proprio e del tempo, per rivolgersi alla decorazione di carattere superficialmente consolatorio o comunque privo di originalità e quindi estraneo all’autentica ispirazione. Lamenta come, a partire dal XIX secolo, i grandi artisti non siano chiamati a realizzare opere per la Chiesa, mentre sono preferiti talenti “secondari”, mediocri, se non addirittura “fabbricanti e mercanti”. E stigmatizza il facile manierismo di architetture di basiliche importanti quali quelle di Lourdes, Fourvière, Lisieux oltre alle tante (centoventi nei primi anni ‘50) chiese nuove costruite nelle espansioni urbane di Parigi «senza che uno solo dei grandi architetti francesi ovunque stimati sia stato minimamente consultato».
Ne individua la ragione nella mancanza di cultura dei committenti ecclesiastici, che consegue «sia ai compiti sempre più estenuanti legati all’apostolato, sia alle crescenti specializzazioni delle attività culturali moderne». Oltre che alla diffusa scristianizzazione della cultura contemporanea, e all’influenza sulle gerarchie ecclesiastiche degli ambienti accademici che mirano ad assicurare commissioni ai loro protetti, e infine alla impetuosa evoluzione «delle forme artistiche dei maestri a partire dal 1850».
La soluzione, secondo Couturier, consiste anzitutto nel
rifuggire dalla “accademia” per rivolgersi invece ai grandi maestri: a esempio porta le realizzazioni di
Plateau d’Assy e di
Vence, dove tra l’altro gli artisti chiamati sono stati disponibili a prestare la loro opera senza grandi pretese economiche, proprio perché avvertivano la “eminente dignità” dell’opera.
Si rivolge quindi alle obiezioni che sente mosse da parte del clero riguardo agli artisti: “Non fanno quel che vogliamo”... “Non hanno fede...”. E risponde: la personalità creativa dev’essere lasciata libera di creare e ricorda che tra l’ispirazione mistica e quella dei grandi artisti v’è una marcata analogia.
Comunque il committente deve saper scegliere, individuando quale sia l’artista più indicato per una certa opera... «Per quel lavoro Rouault sarà più indicato di Matisse.... E non chiederemo a un Perret quello che ci si può aspettare da un Le Corbusier». Senza contare che infine al sacerdote spetta un preciso dovere di ispirare l’opera, fornendo idee e temi: «I più grandi maestri vogliono assolutamente programmi definiti e non temono affatto le rigorose esigenze delle norme liturgiche».
La creazione artistica è come un parto «il nostro compito è di proteggerne la libertà, la purezza, la delicatezza sempre vulnerabili, di far questo a suon di amicizia, di rispetto e di preghiera».
Un altro dei temi su cui Couturier insiste è quello della “misura”: la poesia non ha bisogno di magniloquenza e la chiesa non è una reggia, ma un luogo che dev’essere sentito da tutti come proprio. Non la grandiosità, ma la purezza è in grado di esprimere il luogo ove ci si raccoglie per l’incontro col Signore: la povertà è da intendersi quindi come vera ricchezza.
E quando l’arte contemporanea si rivolge a forme astratte o a campiture di colore puro, e le superfici architettoniche sono lasciate spoglie come fanno Perret o Le Corbusier, si ottengono risultati di grande significato: «quest’arte moderna accusata di materialismo sarà riconosciuta, non nei temi, ma nei principi e nell’essenza, una delle più spirituali che la storia abbia conosciuto».
La ricerca di autenticità è rivolta anche all’arte che diremmo
etnica: Couturier vagheggia la spontaneità delle opere pre-coloniali e nota come il semplice influsso culturale della civiltà occidentale, a volte persino dei missionari, abbia avuto l’effetto di snaturarle. Ma, così facendo, ovvero togliendo all’arte etnica la sua radice prima, la si strappa alla sua
intrinseca religiosità, derivante dal fatto che per sua natura essa è
espressione di “sacro mistero”. Un’eccezione a questo stato di cose è l’isola indonesiana di
Bali, dove la cultura popolare si è mantenuta, e così tutti continuano a essere coscienti dei
significati simbolici collegati ai segni impressi sui tessuti o incisi sui gioielli o manifestati nella danza. E ogni espressione artistica è sacra: «
non esiste in effetti arte profana» anche laddove tratti soggetti legati alla vita quotidiana. «
L’arte indigena qui è viva perché è sacra». E d’altro canto Couturier mostra come nell’autenticità e nell’interiorità dell’essere umano l’arte vera sia intrinsecamente sacra,
perché espressione di quanto di più grande e bello risieda nell’animo umano.
A questo mondo autentico, che Couturier ravvisa anche nell’
Europa dell’epoca medievale, si contrappone l’epoca
materialista contemporanea che di per sé snatura non semplicemente l’arte, ma in generale il vivere cristiano. Nella cultura individualista sembrano impossibili le «
forme rigorosamente comuni di sensibilità e immaginazione» che erano invece proprie di epoche più favorevoli alla
vita di comunità: e senza quel comune sentire è arduo che si sviluppi un’arte propriamente sacra, poiché questa richiede
condivisione.
Mancando il necessario ambiente culturale comunitario, ecco che solo a pochi eletti sembra restare la possibilità di attingere a espressioni sublimi, degne della religione.
Ma se le condizioni attuali ispirano piuttosto il pessimismo, il fatto stesso che
la vera arte sia così intimamente legata alla religione lascia aperta la porta alla speranza: il
miracolo dell’opera poetica è sempre possibile, come è sempre possibile l’autenticità della vocazione religiosa.
«...il popolo cristiano ha più che mai bisogno di capolavori, perché ne è stato crudelmente privato a lungo. Quando diciamo “capolavori” intendiamo veri capolavori, non quelli presi per tali nei nostri piccoli circoli ecclesiastici di mutua ammirazione verso cui, del resto, nessuno esterno a essi ha mai mostrato il minimo interesse».