Nella sua Prefazione, mons.
Giancarlo Santi osserva che la ricerca della
Zito si inserisce entro un dovuto ripensamento sul
Concilio Vaticano II (1962-65): a cinquant'anni dall'evento c'è la possibilità di tentare un'analisi che in questo volume si appunta su quanto avvenuto nella diocesi di Torino soprattutto per quel che attiene all'architettura religiosa «
considerata nel contesto della città e del suo sviluppo».
La prima parte del volume è dedicata all'ambientazione nel
contesto storico entro il quale si manifesta quanto avviene nella capitale piemontese: la ricostruzione postbellica, il diverso «
modello di convivenza tra il civile e il sacro» che vede la chiesa
non più come momento centrale delle espansioni urbane, l'influsso di quanto il
movimento liturgico aveva già elaborato e che già trovava riscontro soprattutto in alcune chiese edificate in area germanica,
l'abbandono di modelli tipologici preferiti dalla Chiesa, il grande impulso innovatore del Concilio, le sperimentazioni, i dibattiti, le nuove sensibilità che si esercitavano soprattutto nella
Bologna di
Lercaro e nella
Milano di
Montini a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Gli effetti della seconda guerra mondiale resero necessaria la ricostruzione di
circa milleduencento chiese, al che si sommò l'impetuoso sviluppo urbano: «
Sono questi gli anni in cui l'ideologia del quartiere catalizza l'attenzione degli urbanisti e a partire dal 1949, con l'istituzione del piano Fanfani, si procede alla costruzione di nuovi quartieri operai, posti cerniera tra città e campagna» scrive la Zito.
In quegli anni la
Pontificia Commissione Centrale per l'Arte Sacra (PCCAS), che operò dal 1924 al 1989 cercava le vie del dialogo col mondo delle arti, nel contesto in cui la storica consuetudine si vedeva superata dai rapidi cambiamenti che avvenivano in tutti gli ambiti della cultura: quale potesse essere il volto della chiesa edificio del XX secolo era un problema aperto.
A Torino il compito di dotare di edifici di culto le periferie che stanno sorgendo è attribuita all'
Opera Diocesana Preservazione della Fede (ODPF), al cui interno sorse l'Opera Nuove Chiese, nota come Torino-Chiese, il tutto sotto la direzione di mons.
Michele Enriore.
E l'ODPF nel 1960, essendo arcivescovo il cardinal Maurilio Fossati, presenta il suo primo piano per le nuove chiese nella pubblicazione “
I cantieri dell'Arcivescovo”: esso prevedeva l'acquisto di 53 terreni e l'apertura di 54 cantieri. Questo piano fu aggiornato negli anni successivi.
Quando al card.
Fossati nel 1965 successe il card.
Michele Pellegrino, questi si impegnò al fine di far vivere entro la diocesi le indicazioni emerse nel Concilio, alla cui fase finale aveva partecipato. «
L'impegno principale dell'episcopato di Pellegrino – scrive la Zito –
è stato nel far incontrare cristianesimo e cultura laica, riconoscendo in questa mediazione una nuova via evangelizzatrice».
Nel contesto della città operaia, meta di forte immigrazione, la scelta del vescovo va verso il linguaggio
della povertà e della semplicità e questo necessariamente deve trovare riscontro nei nuovi edifici di culto. Come scrisse il card. Pellegrino nel 1966: “
Nella costruzione e nell'arredamento delle chiese e dei locali richiesti dallo svolgimento delle attività pastorali è necessario evitare le spese non richieste dalle esigenze funzionali e da un decoro rettamente inteso, che nulla ha a che fare con la ricchezza e lo sfarzo” (da:
Camminare insieme. Linee programmatiche per una pastorale della chiesa torinese).
Allo scopo di favorire l'attuarsi della riforma liturgica, nel 1966 Pellegrino istituì l'Ufficio Liturgico Diocesano, al cui interno sorse la
Sezione arte Sacra (SAS), che si valse subito dell'opera di valenti progettisti e studiosi quali
Mario Federico Roggero,
Giuseppe Varaldo,
Roberto Gabetti, e quindi anche del teologo
Giacomo Grasso, dell'urbanista
Franco Corsico e del filosofo
Diego Marconi, i quali tutti diedero vita per diversi anni a una
Commissione Tipologica volta a studiare l'architettura dei luoghi di culto, dell'assetto liturgico, degli oggetti per il culto, allo scopo di fornire indicazioni valide per la progettazione e per la valutazione dei progetti presentati nell'ambito della diocesi.
Nacque così la dinamica dialogica tra Torino-Chiese e la SAS; quello, indirizzato a rispondere ai bisogni dei nuovi quartieri, con pochi denari e con l'obbligo morale di far nascere centri pastorali, luoghi di ritrovo parrocchiale, chiese, che potessero essere recepiti quali
case tra le case, ovvero privi della monumentalità che caratterizzava le chiese storiche; questa, indirizzato a difendere la qualità del progetto, a prescindere dai problemi economici, proprio perché il buon gusto non comporta lo sfarzo. Torino-Chiese mosso dall'urgenza, la SAS ispirata a una più attenta riflessione.
In questa dinamica ha finito per prevalere la tendenza a rispondere alle urgenze nel modo che appariva più semplice. Come riferisce la Zito: «
Monsignor Michele Enriore è l'anima di un processo che si è realizzato in sessant'anni, quelli del suo sacerdozio (1943-1995), lasciando come eredità circa centosettanta chiese costruite nella diocesi di Torino: un'ingente operazione di costruzione valutata nel suo complesso molto negativamente». Alla quantità di edificazione corrispose insomma una scarsa qualità.
Non che manchino esempi di pregio: nel volume si citano per esempio le chiese di
Gesù Redentore a Mirafiori (inaugurata nel 1957), progettata da
Nicola e
Leonardo Mosso, e la chiesa di
Santa Teresa di Gesù Bambino, il cui progetto fu elaborato negli anni 1957-1961 da
Gianfranco Fasana,
Maria Carla Lenti,
Giuseppe Varaldo,
Gian Pio Zuccotti e
Giovanna Zuccotti.
Negli anni successivi la rapida crescita della popolazione urbana e la straripante espansione delle periferie (dal '65 al '70 il numero di parrocchie in Torino passa da 81 a 93, nelle periferie ne sorgono altre 6), insieme con la secolarizzazione in corso (nel 1968 la quota di praticanti in città scende sotto il 26 per cento) impone una forte pressione su chi si deve occupare di dotare le periferie dei centri religiosi. Nel suo intervento per la
Giornata delle nuove chiese del 1969 il vescovo annunciava la necessità di far sorgere altri 25 nuovi centri di culto “
in un immediato futuro”. Le aree disponibili erano scarse, spesso sacrificate, di risulta e tuttavia i centri parrocchiali erano tanto più necessari quanto meno esistenti erano i servizi sociali. In pratica, la Chiesa si trovava a svolgere una funzione suppletoria rispetto alle Autorità pubbliche, a fronte della necessità di fornire le periferie di luoghi di aggregazione.
In questa situazione, nel 1967 la diocesi bandisce un importante
concorso per la realizzazione di tre centri parrocchiali, organizzato congiuntamente da Torino-Chiese e dalla SAS: un importante tentativo per compaginare urgenza e qualità attraverso il confronto e la scelta tra diversi progetti. Il bando prevedeva di proclamare un vincitore, un secondo e un terzo: al vincitore sarebbe stato affidata la costruzione della chiesa per l'area denominata E11. Tra gli altri partecipanti sarebbero stati scelti i progetti per le altre due aree.
Vinse il gruppo composto da
Domenico Bagliani,
Andrea Bersano-Bergey,
Virgilio Corsico (capogruppo),
Sisto Giriodi,
Erinna Alessandra Roncarolo con don
Franco Delpiano consulente liturgico, con
un progetto che prevedeva un centro parrocchiale raccolto come un “anello aperto”, unito da una continuità di coperture che si elevavano con particolare evidenza sopra la chiesa.
Ma non fu realizzato, né si realizzò
il successivo progetto commissionato allo stesso gruppo: prima per motivi economici poi per problemi burocratici, cui si aggiunse il desiderio della comunità parrocchiale di continuare a usare l'aula provvisoria seminterrata di cui già disponeva, in attesa che fossero completati i servizi sociali del quartiere.
Dal 1978 la comunità si impegnò in un'opera di autocostruzione, completata nel 1982. Insomma, un progetto di notevole qualità non poté essere compiuto. Neppure il
secondo classificato (il gruppo composto da
Domenico Mattia, Ugo Mesturino – capogruppo –
Giorgio Rovero e
Giulio Pizzetti) ha visto
il proprio progetto realizzato. È stato invece realizzato in parte
il progetto del terzo classificato (gruppo composto da
Luciano Re,
Aldo Vacca Arleri – capogruppo – ed
Elena Tamagno), per la
chiesa Maria Madre della Misericordia. Furono inoltre segnalati altri quattro progetti: quelli di
Carlo Graffi e
Carlo Mollino; di
Franco della Role e
Pierpaolo Jorio; di
Maria Carla Lenti,
Paolo Maggi,
Gian Paolo Zuccotti e
Giovanna Zuccotti; di
Roberto Cerrato,
Luca Deabate e
Pompeo Trisciuoglio.
Quel concorso resta tuttavia come importante
esempio di un sistema procedurale volto a ottenere nuovi centri parrocchiali di qualità (tra l'altro i progetti erano presentati in
forma anonima) e i suoi risultati sono comunque entrati nella
cultura dell'architettura ecclesiastica contemporanea.
Che a Torino la scelta “pauperista” non dovesse comportare edifici ecclesiali privi di qualità formali o simboliche, è dimostrato dal centro religioso dei
Santi Apostoli di Piossasco, realizzato in prefabbricazione nel 1968 da
Roberto Gabetti,
Aimaro Isola e
Luciano Re.
Scrive la Zito: «
A Torino negli anni di Pellegrino la polifunzionalità della costruzione cultuale è intesa come flessibilità edilizia che risponde fedelmente all'esigenza della funzionalità, nei termini di precarietà, provvisorietà e antimonumentalità. Nasce così un'architettura come opera temporanea, realizzata per mezzo di elementi prefabbricati, di uso comune per i capannoni industriali, espressione della Chiesa cristiana secolarizzata».
La chiesa di Piossasco risponde a queste caratteristiche pur manifestando un grado di dignità marcatamente diverso da quello che ottiene la maggioranza degli altri progetti di centri parrocchiali. Molti di questi furono realizzati come
aule polivalenti e restarono poi come chiese.
In appendice al volume sono presentati
22 esempi di chiese nuove torinesi costruite perlopiù nel corso degli anni Settanta.
Tre esempi di chiese realizzate con elementi prefabbricati (
1,
2,
3).
Tre esempi di chiese, nel contesto dei palazzi di periferia (
1,
2,
3).
La
conclusione è tratta nella Postfazione: «
Le chiese postconciliari a Torino sono povere – scrive
Sergio Pace –
non tanto perché non vi abbondino decorazioni raffinate o materiali pregiati. Sono povere, e ancor più lo sembrano, perché concedono pochissimo alla dimensione simbolica, quasi ultraterrena che, da secoli, è associata all'edificio sacro.... Quelle chiese, quei saloni polifunzionali trasformati in improbabili luoghi di preghiera e spiritualità, a distanza di anni appaiono strani, sgradevoli, letteralmente deformi poiché non conformi a un'idea riconoscibile di spazio sacro».
Oggi quella Torino «
probabilmente è scomparsa e quegli edifici parlano ormai di un mondo che non esiste più. Dimenticarlo, tuttavia, equivarrebbe a cancellare una parte importante della memoria novecentesca».