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 Home page - Una chiesa al mese - Diocesi di Reggio Emilia, chiesa del Buon Pastore - Scheda completa 

Buon Pastore

Reggio Emilia, Via Guido Rossa 1, angolo viale Umberto I

05/06/2014
L’espansione della città di Reggio Emilia oltre lo storico perimetro esagonale delle mura medievali pone, durante gli anni del boom economico, la questione della riorganizzazione della trama ecclesiastica e dell’assistenza pastorale delle periferie. Nel 1968 viene discussa l’istituzione di una nuova parrocchia nella zona a sud della città, tra il fiume Crostolo e l’area dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, realizzato su progetto di Enea Manfredini tra il 1945 e il 1965. L’attività del Comitato Promotore viene coordinata da don Amedeo Vacondio. Nel 1968 la diocesi acquisisce un terreno rurale dall’Istituto Buon Pastore lungo il viale Umberto I; il 6 aprile 1969 il vescovo mons. Gilberto Baroni istituisce la nuova parrocchia , stralciandone il territorio dalla preesistenti parrocchie di San Pellegrino e di Sant’Agostino. Partito per le missioni brasiliane il primo parroco, nell’ottobre del 1969 fa il suo ingresso don Emilio Perin, che guiderà la comunità per 37 anni, diventando anche il regista delle scelte sulla sede della parrocchia.
La prima chiesa è allestita fin dall’aprile 1969 al piano terreno della casa colonica già delle suore: per sette anni l’aula resterà allestita sotto il voltone del passo carraio centrale, con spazi liturgici sussidiari nell’ex cantina e nell’ex stalla. Si rende tuttavia evidente la necessità di spazi più adeguati, che in un primo tempo la comunità immagina ancora come provvisori, in attesa di una migliore definizione delle dinamiche demografiche e urbanistiche dell’area: è l’iniziativa del vescovo che sblocca la situazione, affidando ad Enea Manfredini la progettazione prima della canonica e dei locali di ministero (finanziati con contributo del 1973), poi anche della nuova chiesa (1974).
Nel Natale 1975 la comunità lancia la campagna “Gesù cerca casa. Offri quello che puoi”, e nella primavera del 1976 inizia la demolizione della casa colonica per far spazio al nuovo complesso parrocchiale. Una seconda cappella temporanea (la “chiesa dell’esilio”) è ospitata nell’ex collegio delle suore del Buon Pastore, mentre il cantiere cresce celermente.
La prima messa viene celebrata nella notte di Natale del 1977: è completato solo il rustico della chiesa, che viene allestita con arredi di fortuna, seggiole e banchi vecchi prestati dalle suore del vicino Istituto, un ping pong come altare provvisorio, le lampadine appese all’impianto di cantiere. Nel novembre successivo avverrà l’inaugurazione, ma il completamento dell’allestimento degli spazi liturgici e del programma iconografico si svilupperà ancora lungo gli anni Ottanta, arrivando alla dedicazione della chiesa dieci anni dopo, nel 1988, per mano del vescovo suo promotore, Gilberto Baroni.
 
 
05/06/2014
L’esperienza della nuova parrocchia del Buon Pastore richiama, nello spirito e nel metodo, alcuni temi chiave del ‘laboratorio bolognese’ di architettura sacra, promosso dal cardinale Giacomo Lercaro tra la metà degli anni Cinquanta e il 1968. Si può anzi ritenere che le vicende reggiane, qui delineatesi a partire dal 1969, si pongano proprio come prima ideale continuazione di quel laboratorio, a pochi mesi dal suo non sereno epilogo.
Mons. Gilberto Baroni era stato vescovo ausiliare di Bologna con il card. Lercaro dal 1954 al 1963, e quindi proprio nel periodo del primo Congresso italiano di architettura sacra (1955), della fondazione del Centro di studio e informazione per l’architettura sacra e della rivista “Chiesa e Quartiere”. Nel 1965 Baroni era poi giunto a Reggio Emilia: a testimoniare la sua sensibilità orientata al superamento della visione gerarchica della Chiesa, il suo intervento al Concilio Vaticano II, il 15 novembre 1963, aveva proposto una critica puntuale allo schema preparatorio De Episcopis, secondo lui eccessivamente concentrato sugli aspetti giuridici e individuali, facendo astrazione del rapporto tra la comunità e il suo pastore.
Già tra il 1969 e il 1970 Baroni affronta il tema dell’adeguamento liturgico della cattedrale, affidato ad Enea Manfredini e Osvaldo Piacentini, due progettisti che partecipano vivacemente al dibattito ecclesiale; l’adeguamento viene poi realizzato nel 1978 da Manfredini, proprio nella fase conclusiva del cantiere del Buon Pastore.
La decisione di costruire per la parrocchia del Buon Pastore una chiesa ‘definitiva’, e di scegliere un architetto noto per la sua adesione al linguaggio della Modernità architettonica, è quindi forse ascrivibile al legame che, fin dai tempi dell’attività pastorale nella diocesi bolognese, Baroni aveva intrattenuto con gli architetti della cerchia di Giorgio Trebbi, Glauco e Giuliano Gresleri e del centro studi diocesano. Manfredini, in realtà, è di qualche anno di più anziano sia di Trebbi (1926-2002) sia di Glauco Gresleri (1930): si è laureato a Milano nel 1940, si è formato nel clima del razionalismo milanese con Franco Albini e Franca Helg, e al momento delle vicende bolognesi del 1955 ha già raggiunto un proprio autonomo profilo professionale, testimoniato anche dalla sua coraggiosa mozione al congresso in favore di una selezione critica dei progetti da pubblicare in catalogo, selezione da attuarsi sulla base della qualità della ricerca formale (Gresleri 2004, pp. 65 e Documenti pp. 295-296). È anche di grande interesse la posizione personale di Manfredini, riportata dal verbale con cui il gruppo bolognese e i suoi primi ‘corrispondenti’ (tra cui Ludovico Quaroni, Enzo Zacchiroli e Raffaele Contigiani), raccolti attorno a Lercaro il 1° maggio 1956, discutono le modalità di lavoro; in conclusione della seduta, Manfredini non esita a dire: “sappiate di avere in me uno che ha voglia di lavorare” (Ibid., p. 301).
Il primo fondamentale rapporto con la chiesa reggiana è stabilito nel 1946, quando si aggiudica il concorso per la costruzione del Seminario Vescovile, realizzato negli anni successivi. Per quanto riguarda i progetti idi chiese, dopo alcune ipotesi progettuali senza esito, le prime opere di Manfredini sono realizzate in contesti rurali (chiesa della Vecchia a Vezzano sul Crostolo, 1953-1957, e chiesa di Aiola a Montecchio Emilia, 1960-63), applicando un linguaggio che declina l’essenzialità razionalista con la cura – quasi neorealistica – verso i contesti e le culture locali. Il contatto permanente con il ‘laboratorio bolognese’ consente – tramite anche l’impegno per le riviste “Chiesa e Quartiere” (1955-1968) e “Parametro” (dal 1970) – di inserire la sua riflessione sull’architettura sacra in un contesto internazionale, che traspare dai progetti per le due chiese parrocchiali nel capoluogo (San Paolo, 1965-1969, e il Buon Pastore, 1973-1978) e per la cappella dell’Arcispedale (1962-1970).
 
L’attività di Manfredini nell’ambito dell’architettura liturgica, dunque, precede i contatti bolognesi, ma si alimenta e si rinnova grazie al contributo di Lercaro, e sa perseguire successivamente una propria linea di ricerca e aggiornamento. Se decisive sono le radici culturali del progettista e il suo coinvolgimento ecclesiale, il contatto con le comunità determina di volta in volta temi e sensibilità diversi. Nel nostro caso le richieste della nuova comunità parrocchiale riguardano la centralità dell’altare e la buona visibilità del fonte battesimale, per consentire una buona partecipazione dell’assemblea, la posizione della cappella dell’eucaristia separata dall’aula principale, la presenza di uno spazio penitenziale e di un luogo di pre-catechesi per i bambini più piccoli, che consenta la partecipazione dei genitori alla messa domenicale comunitaria.
 
05/06/2014
Con queste parole la rivista “Parametro”, nel numero monografico dedicato a Manfredini, commenta la chiesa del Buon Pastore: “Qui l’architettura è nata dall’interno, dal di dentro. L’architettura è unitaria, non permette all’occhio di fermarsi su singoli elementi espressivi, e costringe a percorrerli tutti, costituendo un invito e una guida all’interno che solo può spiegarli e giustificarli. Il discorso si conclude così là dove è cominciato, vale a dire nello spazio liturgico”. (Chiesa del Buon Pastore 1981, p. 54).
L’aula liturgica ha pianta rettangolare, con assetto longitudinale orientato verso un’ampia piattaforma presbiteriale , che si articola lungo l’intera parete di fondo. La realizzazione materiale dei luoghi liturgici è successiva di alcuni anni rispetto al progetto architettonico e, pur non seguendo le indicazioni del progettista per quanto attiene i singoli manufatti , rispetta il progetto di insieme, con alcune eccezioni che segnaleremo.
Il ruolo dell’altare è evidentemente centrale nel disegno complessivo, come richiesto dalla comunità: lo spazio della mensa è sottolineato dalla discesa diagonale della copertura ed è potentemente illuminata dalla vetrata in controfacciata. L’ambone si affaccia verso l’assemblea, sullo spigolo del presbiterio; il primo leggio – innestato su una pietra scolpita con un versetto della scrittura sulla Parola (At 13, 26) – è stato sostituito da un manufatto più consistente, nonostante la conformazione resti relativamente esile. Ai piedi del presbiterio, su un livello ribassato e circoscritto, si trova il fonte battesimale , presso al quale, incassato nella parete, è posto il tabernacolo per gli oli . Il disegno di Manfredini ha coordinato il disegno del fonte con quello delle acquasantiere  poste all’ingresso.
Il progetto iniziale prevedeva la sede del presidente alla destra dell’altare, in un proprio spazio, sottolineato da un’articolazione della pedana presbiteriale per ospitare il punto del contatto tra presidenza e assemblea; tale indicazione, tuttavia, è stata disattesa, e la sede è da sempre posta in asse all’altare e inappropriatamente a ridosso dello stesso, risultando così totalmente invisibile – soprattutto a riposo – se non grazie all’incombente dossale ligneo sproporzionatamente verticalizzato (manufatto ligneo di Giancarlo Magistro, su indicazione del parroco).
Il recente intervento di ampliamento della pedana, mediante un’addizione lignea complanare al presbiterio, appiattisce ulteriormente l’articolazione dei luoghi liturgici, rendendo di fatto meno riconoscibile l’ambone , costipando lo spazio battesimale e annullando la specificità del luogo previsto per la presidenza, trasformando così il presbiterio in una sorta di palco teatrale , estraneo al senso profondo dell’architettura liturgica di Manfredini.
 
Il progetto iniziale prevedeva l’organizzazione dell’assemblea a ventaglio, su panche; la realizzazione ha invece optato per una disposizione retta, con banchi tradizionali.
La parete di testata del presbiterio è scandita da una sequenza di varchi a spalle rette e architrave piatta: una sorta di portico che, chiuso con ante lignee mobili, può essere aperto per consentire l’espansione dello spazio dell’assemblea anche alle spalle del presbiterio, nei casi di celebrazioni particolarmente affollate.
Sulla parete laterale nord si apre il taglio netto che conduce alla sacrestia, ricavata in un vano seminterrato e collegato mediante una rampa di scale .
 
A sinistra dell’ingresso della chiesa è stato pensato fin dal progetto iniziale uno spazio, chiuso da una vetrata fissa, per le famiglie con bambini piccoli, in modo da consentire ai genitori di seguire la messa e di organizzare attività pre-catechistiche per i bambini più piccoli.
 
A destra dello spazio di ingresso, troviamo un’interessante articolazione del legame tra aula liturgica, spazio penitenziale e cappella eucaristica. Dal fondo dell’aula, a destra dell’atrio, si può raggiungere un corridoio ribassato di alcuni gradini, che dà accesso alla cappella penitenziale, articolata in uno spazio per i confessionali tradizionali e uno spazio per il raccoglimento, in connessione visiva  con la cappella eucaristica: il penitente si trova quindi in un’area ribassata rispetto al piano della chiesa, riservata, ma con la possibilità di un contatto diretto con il tabernacolo, per associare revisione di vita e adorazione eucaristica.
La cappella eucaristica serve anche come aula feriale: è separata dal vano principale da una sequenza serrata di varchi, che fa sì che lo spazio laterale non costituisca elemento di distrazione durante le celebrazioni nell’ aula liturgica principale . Il tabernacolo è posto in asse con le scale di accesso dalla penitenzieria , l’altare è in posizione centrale nel piccolo presbiterio, mentre a sinistra è collocata la statua mariana, la cui devozione è vivamente sentita nella popolazione della parrocchia, come testimoniano i numerosi ex voto.
 
05/06/2014
La forza iconica dell’aula è affidata alla potenza del materiale da costruzione (calcestruzzo a vista con casserature in legno) e all’essenzialità del disegno. L’elemento iconografico dominante è la “scala di Giacobbe” (Gn 28, 12), tema assai raro (forse unico?) nei programmi iconografici di chiese contemporanee, rievocato dal profilo monumentalmente gradonato dell’intradosso del solaio (Dasso 1988).
La figurazione è inizialmente esclusa: nella pedana lapidea del presbiterio è ‘incastrata’ una croce in ferro nero , aniconica: “la croce di ferro conferisce qui un preciso significato cristiano a uno spazio architettonico totalmente e volutamente privo di ornamenti” (Dasso 1988, p. 269).
La croce è stata successivamente spostata nella parte destra del presbiterio – ossia nel luogo in cui non è stato allestito il previsto spazio per la sede – e le è stato sovrapposto un crocifisso in garza e scagliola di fine Seicento, donato da una famiglia nel 1978, restaurato nel 1988 e installato sulla croce di ferro iniziale.
L’altare e la sede, unitamente a una revisione complessiva dei poli liturgici principali, sono stati realizzati nel 1988, per la dedicazione, su disegno di Giancarlo Magistro.
I manufatti della cappella feriale sono stati intagliati da Gian Carlo Panciroli: la statua della Vergine è del 1983, mentre è del 1988 la portella del tabernacolo , in cui Cristo risorto, presente nel pane eucaristico, è raffigurato tra la cattedrale di Reggio e la chiesa del Buon Pastore. L’altare è una memoria delle origini della parrocchia: si tratta dell’altare utilizzato nella prima cappella provvisoria, la cui base siccome è ricavata da un melo che si trovava nel podere delle suore su cui si è insediata la nuova parrocchia. La cappella feriale ospita anche le stazioni della Via crucis, identificate solo dal richiamo numerico.
Tra il 1988 e il 1989 i vetri originali, bianchi opacizzati, sono stati sostituiti da vetrate figurate, sia nelle aperture della cappella feriale (temi simbolici e cromie aniconiche), sia nell’ampia presa di luce al di sopra dell’area di ingresso, che illumina l’aula liturgica. In tale vetrata assume posizione centrale il Buon Pastore (cui è dedicata la chiesa), a destra del quale si dispone la storia della Salvezza narrata nell’Antico Testamento (Abramo, Mosè, Davide), a sinistra gli evangelizzatori (da san Pietro al patrono reggiano san Prospero, fino al papa Giovanni Paolo II, sotto il cui pontificato è stata dedicata la chiesa). Un’ulteriore vetrata del Buon Pastore, che ricorda sempre la dedicazione della chiesa, è collocata nella parete di fondo della cappella feriale, nel vano aperto verso l’accesso alla sacrestia. Le opere sono state realizzate da Ada de Molinari di Novara.
Completano la definizione iconografica dell’edificio due arazzi, collocati nelle pareti trapezoidali laterali dell’aula: si tratta della raffigurazione del Buon Pastore e di Maria che protegge il figlio , ideati da Marika Magnanini e realizzati da alcune signore della parrocchia, con lane di recupero e tela per sacchi di caffè, tra il 1985 e il 1987.
 
06/06/2014
L’elemento chiave dell’architettura è il rapporto tra ritmo strutturale e luce radente che scandisce la copertura dell’aula, che “vuol essere una reinterpretazione della biblica ‘scala di Giacobbe’, scandita vigorosamente dalle travi portanti della copertura. È come un invito a salire per ridiscendere, dalla terra alla luce e dalla luce alla terra” (Dasso 1988, p. 269). La vibrazione della luce è amplificata dalle pareti in calcestruzzo a vista, che presentano un’accurata trama di impronte di casserature che anima le superfici, cui fa riscontro il pavimento grezzo in pietra naturale.
La pioggia di luce – colorata dal 1989 – che scende sull’altare e sul presbiterio definisce uno spazio cultuale essenziale, rigoroso, concentrato, ma ricco di sfumature luministiche, mutevoli durante l’arco della giornata. La potente luce orientale è sufficiente per evidenziare i poli liturgici – inglobati così in un progetto spaziale unitario, pur se articolato – e per scaldare visivamente l’aula principale, mentre altre aperture di dettaglio aiutano l’accentuazione di altri spazi sussidiari, come l’area penitenziale e la cappella feriale.
Per consentire anche un’illuminazione più funzionale (utile per la lettura da parte dei fedeli) si è tuttavia reso necessario potenziale l’illuminazione artificiale.
 
06/06/2014
Il complesso parrocchiale è presto diventato non solo un riferimento architettonico – grazie al sapiente equilibrio tra rigore razionalista e calore locale –, ma anche un esempio di spirito ecclesiale tradotto in edificio: “è presente quell’evocazione del cristianesimo delle origini che trae le proprie matrici dalla domus ecclesiae dell’antichità cristiana: una casa per l’assemblea liturgica e pastorale della comunità cristiana” (Dasso 1988, p. 269). Il tema della casa-chiesa, diffuso nell’Europa centrale e scandinava dagli anni conciliari, è qui espresso con una declinazione sensibile sia alla scala domestica, sia alla questione della monumentalità intrinseca dell’edificio cristiano, che sa farsi sia casa della comunità, sia “casa di Gesù”, come recitava lo slogan della campagna di finanziamento del 1975.
Il proporzionamento del sagrato introduce pacatamente al clima raccolto del complesso parrocchiale: un basso parapetto indica la soglia rispetto al contesto esterno, ma senza erigere barriere; un limite netto ma oltrepassabile, segnato dalla ‘stele campanaria aggiunta nel 2003.
L’area di ingresso è uno spazio protetto ma aperto, ombroso ma non tenebroso, completamente trasparente per consentire una comunicazione tre lo spazio interno e lo spazio urbano. L’aula è chiaramente focalizzata sui poli celebrativi, ma consente anche livelli di partecipazione più sfumati: lo spazio di ingresso resta in penombra, consentendo al fedele di cercare e trovare con calma una propria collocazione senza essere ‘gettato’ suo malgrado nel cuore dell’assemblea; i banchi al fondo a destra sono in una posizione molto protetta, dimessa, e connessi in modo discreto, quasi con un percorso riservato, alla cappella penitenziale. Anche la ‘navata’ della cappella feriale  offre una pluralità di punti di vista frazionati, di luci e di rimandi, di grande intensità.
La vita della parrocchia, poi, prosegue ‘oltre’ la chiesa e ‘sopra’ la chiesa.
I locali per il ministero pastorale non sono direttamente connessi con l’aula liturgica (ossia non esistono, correttamente, problemi di interferenza di percorsi), ma ne sono in stretta adiacenza, e ‘discendono’ quasi da essa. Alle spalle del presbiterio è collocato il salone polifunzionale  (che, come abbiamo detto, può fungere anche da spazio per l’assemblea in caso di funzioni affollate), collegato da un corridoio  alle sale per la catechesi e alla casa del parroco, organizzate in bassi fabbricati, aperti verso il verde circostante e illuminati da vetrate e chiostrini . Una pensilina esterna  dà accesso ai locali di ministero pastorale, mentre un portico più chiuso e domestico introduce alla casa del parroco (ora utilizzata da un custode dopo la riunione con la parrocchia di San Pellegrino nel 2011).
Sul fianco nord della chiesa si dispiega invece un percorso che ‘avvolge’ il volume dell’aula liturgica, che porta a salire sull’estradosso della copertura, dove è allestita una gradonata per spettacoli o funzioni all’aperto, affacciata sul sagrato e sul viale Umberto I.
Attorno al complesso restano aree verdi semipubbliche, in parte utilizzate come zone gioco e campi sportivi.
 
06/06/2014
Quando la comunità e l’architetto hanno discusso e immaginato il complesso parrocchiale, l’espansione a sud di Reggio cominciava a delinearsi secondo un paesaggio caratterizzato dal contrasto tra la mole dell’Arcispedale, progettato da Manfredini stesso, e i tessuti urbani radi, con ampi spazi verdi pubblici e privati. La città viveva una stagione di interessante dibattito culturale e architettonico (Leoni 2011), in cui Manfredini giocava un ruolo rilevante, grazie al suo impegno professionale e civile.
Il progetto di complesso parrocchiale si distende su una porzione del podere dell’Istituto religioso Buon Pastore , quella meno appetibile per operazioni immobiliari, sul lato nord della proprietà. Il lotto si confronta con edilizia a media densità, intercalata a giardini, e prospetta sul viale Umberto I, una sorta di ‘parco lineare’ che innerva i sobborghi residenziali e ospedalieri a sud della città. Il sagrato si offre quindi discretamente ma significativamente a chi transita sul viale, e il volume della chiesa, pur assumendo un tono ‘domestico’, si distingue per nitore dai circostanti edifici abitativi, linearità e rigore. Il taglio diagonale della falda monolitica , rivestita in rame, si integra nel paesaggio urbano, ma al tempo stesso se ne differenzia per forza del segno e dei materiali. L’edificio stesso è ‘segnato’ dalla possente falda, che riversa l’acqua piovana in imponenti pluviali, modellati nel volume di calcestruzzo delle pareti laterali.
Gli spazi a verde adiacenti il complesso sono facilmente accessibili dal sagrato, ma le opere parrocchiali hanno un proprio specifico ingresso  – distinto da quello dell’aula liturgica – alle spalle del complesso, di fronte ai campi da gioco.
A completare l’inserimento urbanistico del complesso è stata posta una ‘stele campanaria, ossia una torre di modesto sviluppo in altezza ma di chiara consistenza volumetrica, su cui sono state poste nel 2003 quattro campane. Il manufatto è collocato nell’angolo sud-orientale del sagrato, all’incrocio del viale con la via che conduce all’Istituto Buon Pastore, incidendo in modo discreto ma riconoscibile sul paesaggio urbano.
 
06/06/2014
La nitida impostazione razionalista dell’edificio ha indotto la critica a postulare – con un certo dogmatismo modernista – la non modificabilità dell’edificio, la cui perfezione avrebbe richiesto l’assoluto rispetto di proporzioni e superfici: Dasso (1988, p. 269), ad esempio, esprime la convinzione “che una chiesa, una volta concepita e costruita, debba restare immune da ogni successiva alterazione”, assumendo tale assioma come “uno dei principi più autentici della conservazione dell’opera d’arte e dell’architettura sacra di ogni periodo storico”.
In realtà, la critica più attenta al tema ecclesiale, ha invece rimarcato come l’elemento fondante l’architettura non sia la ricerca formale, ma la liturgia (Chiesa del Buon Pastore 1981, p. 54, sopra citato), e che quindi l’edificio sia intrinsecamente ‘dinamico’ nel suo farsi e trasformarsi, in sintonia con la liturgia e con la vita ecclesiale.
La storia della comunità racconta proprio le vicende di tale dinamismo, orientato per quasi quattro decenni dal parroco don Emilio Perin: dopo aver ‘preso possesso’ della chiesa incompiuta la notte di Natale del 1977 (a un anno e mezzo dalla posa della prima pietra), il cantiere è proseguito negli anni successivi con l’illuminazione (1981), la cappella delle confessioni (1983), il fonte battesimale (1984), gli arazzi parietali (1985-1987) e le vetrate (1988-1989), con il momento culminante dell’allestimento definitivo dei restanti poli liturgici nel 1988, cui ha fatto seguito la dedicazione della chiesa. Nonostante Manfredini sia rimasto una presenza significativa nel contesto professionale ed ecclesiale reggiano, la comunità non sempre ha ritenuto necessario seguirne le indicazioni, soprattutto per quanto attiene l’allestimento liturgico che – pur essendo stato fin dall’inizio progettato – è stato realizzato in forme diverse, il cui linguaggio è evidentemente autonomo rispetto al contesto, e la cui disposizione è stata ripensata rispetto all’assetto architettonico (abbiamo già fatto riferimento al problema della sede, attualmente in asse con la mensa, priva di un proprio spazio, o alla recente modifica della pedana presbiteriale, rimodellata a palcoscenico).
Il ruolo dell’architetto è tornato invece decisivo nel risolvere il tema della ‘stele campanaria’, ultima opera di Enea Manfredini, progettata con i figli Alberto e Giovanni e realizzata nel 2003.
Le prospettive del complesso parrocchiale sono mutate nel 2011, anno in cui è stata costituita l’unità pastorale con la parrocchia di San Pellegrino, da cui il Buon Pastore si era distaccato nel 1969: l’articolazione della comunità sulle due sedi comporterà, probabilmente, un ulteriore ripensamento degli spazi pastorali, la cui versatilità sarà messa alla prova dal nuovo assetto canonico.
 
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