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 Home page - Un libro al mese - RECUPERARE I PERCORSI INIZIATICI 

Recuperare i percorsi iniziatici
 

Intervista al prof. Stefano Biancu*
a proposito del libro “Il simbolismo del tempio cristiano di Jean Hani  (2014)
 
*Dottore di ricerca in filosofia e in teologia, è professore associato di filosofia morale all’Università di Roma-LUMSA. È inoltre professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano e professore invitato presso l’Università Gregoriana di Roma. È direttore responsabile di Munera. Rivista europea di cultura. Tra i suoi scritti: “La poesia e le cose. Su Leopardi” (Milano 2006), “Saggio sull’autorità” (Milano 2012), “Il simbolo. Una sfida per la filosofia e per la teologia” (con Andrea Grillo, Cinisello B. 2013), “Presente. Una piccola etica del tempo” (Cinisello B. 2014, tr.fr. Paris 2015).
 

Gli argomenti trattati nella rubrica “Un libro al mese” sono ridiscussi in interviste con diversi esperti. Ne nasce un colloquio volto ad approfondire gli argomenti esposti nei volumi. Le opinioni presentate sono qualificate ma personali, non necessariamente condivise da chi promuove la rubrica.
20/12/2017

Credo sia importante partire da un dato di fatto: siamo animali simbolici, che ne si sia consapevoli o meno. Il nostro rapporto con la realtà – di noi stessi, degli altri, delle cose, del fondamento – è sempre simbolicamente mediato. Questo è inaggirabile: tutte le nostre relazioni sono mediate da simboli. La pubblicità si serve strumentalmente di questa dimensione simbolica che è propria dell’essere umano: identifica simbolicamente prodotti e valori e si serve di questi ultimi per vendere i primi. La pubblicità è tanto più efficace in quanto viene meno una iniziazione a simboli forti e autorevoli: oggi la trasmissione si risolve spesso in una iniziazione di tipo intellettuale, affidata alla scuola, e viene meno una iniziazione di tipo simbolico. La famiglia, ridottasi in gran parte a famiglia affettiva, ha perso questa che è sempre stata una delle sue funzioni principali.
 












 
20/12/2017
Come si concilia la rilevanza soggettiva del simbolo con tale intensità di convinzione emotiva? La domanda si pone in questi anni in cui il fanatismo terroristico di stampo islamico divampa....

Il simbolo è sempre personale, ma non è mai soggettivo. È personale, in quanto è sempre iscritto in una durata personale e/o collettiva, ma non è soggettivo o semplicemente privato: i simboli non sono mai “di” qualcuno, ma sono sempre “tra” qualcuno e qualcun altro. Istituiscono delle relazioni, sono a monte del soggetto e a esso indisponibili: sono irriducibili a meri strumenti a disposizione di qualcuno. Il simbolo richiede e attiva sempre l’esercizio di una certa “fede”, è per sua natura “affidabile”, consente di riconoscersi in quanto “io” e in quanto “noi”. Un uso distorto dei simboli – come è quello proprio del fanatismo e del terrorismo – non lo si combatte a colpi di mera critica razionale, ma offrendo altri simboli – più affidabili e autorevoli – nei quali riconoscersi come singoli e come comunità.
 

 
20/12/2017

Credo che la grande sfida stia nel riuscire a valorizzare la dimensione simbolica dei luoghi di culto senza scadere nella pura allegoria. Si fa allegoria nel momento in cui – progettando un edificio di culto – ci si propone di dire qualche cosa: allora si usa il colore celeste per indicare la Vergine Maria, si dà una certa forma all’edificio per indicare la barca di Pietro, si strutturano gli spazi in modo tale da indicare l’abbraccio di Dio… Una volta decodificate queste allegorie, esse non hanno più niente da dire. Il simbolo è tutt’altro: esso ha una funzione non informativa, ma formativa. L’edificio chiesa è la chiesa: forma la chiesa, istruisce il nostro essere chiesa. Non si tratta dunque di inventare nuovi simboli per trasmettere dei significati, ma di trovare le modalità simboliche adeguate perché – celebrando la fede in un edificio-chiesa – la chiesa-popolo impari sempre di più ad essere se stessa, si riappropri di se stessa. Questo è il ruolo del simbolo: non di trasmettere concetti, ma di formare identità e relazioni.

 
20/12/2017
 
La tradizione orientale ha mantenuto qualcosa che in occidente è andato in gran parte perduto: l’icona come simbolo, ovvero come presenza reale. Il secondo concilio di Nicea ha ammesso la venerazione delle immagini sul presupposto che in esse continua nel tempo l’incarnazione di Cristo. In occidente abbiamo depotenziato l’immagine a pura rappresentazione, a rimando di una realtà altra da sé. In oriente si è mantenuta la consapevolezza del funzionamento simbolico dell’icona: l’immagine è appunto presenza reale, incarnazione, del santo. In realtà anche in occidente la devozione popolare ha mantenuto la coscienza di questa presenza reale: i fedeli avvertono spesso il bisogno di toccare l’immagine del santo, perché ne avvertono in qualche modo la presenza. Quell’immagine è percepita come “abitata”.




 
20/12/2017

Credo che la categoria chiave sia quella di vivibilità: tanto un simbolo quanto uno spazio devono essere vivibili e abitabili, ovvero umanizzanti. Le due dimensioni dello spazio – quella simbolica e quella funzionale – devono necessariamente andare insieme. Il rischio sempre presente, evidentemente, è quello del riduzionismo: ovvero che si consideri un solo aspetto dell’abitare umano. Si tratta di un rischio reale perché l’abitare umano è un fenomeno complesso, al punto che si potrebbe definire l’essere umano non solo come l’animale razionale dotato di una lingua e di un volto, ma anche come l’animale che abita. Nell’abitare umano c’è la dimensione del cercare rifugio, ma c’è anche la dimensione del raccoglimento (di sé) e dell’ospitalità (dell’altro). La sfida dell’architettura – anche in riferimento ai luoghi di culto – è di organizzare gli spazi in maniera tale da rendere possibile questo abitare nella sua interezza.
 
 
20/12/2017
Che importanza ritiene abbia il senso dell'iniziazione trasmessa anche attraverso gli edifici in cui si definiscono le soglie che scandiscono i percorsi di avvicinamento, ove questi sono intesi anche come percorsi di crescita, di “santificazione”?
 
Come dicevo, oggi viviamo un problema piuttosto serio con la categoria e con l’esperienza dell’iniziazione, ridotta quasi esclusivamente a un’iniziazione di tipo scolastico. Ma senza una vera iniziazione che metta ordine simbolico non ci può essere vera esperienza: non basta aprire gli occhi per vedere. In questo, credo che il diffondersi nelle nostre comunità cristiane della pratica del RICA (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti), propiziata dal numero crescente di richieste di battesimo in età adulta, possa aiutarci a recuperare il senso e il valore di un serio percorso di iniziazione, irriducibile al solo momento di trasmissione di informazioni e concetti tipico del catechismo. Anche gli spazi liturgici possono e devono favorire questa iniziazione, la quale è un’esperienza corporea a 360 gradi, nella quale anche un movimento nello spazio liturgico può istruire il progredire nella vita di fede.
 
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