Il messaggio per la Giornata Mondiale delle comunicazioni (2017) sembra che riproponga, ai lettori del mondo intero, le stesse coordinate e chiavi di lettura contenute nel primo messaggio per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali (1967). Sono ormai passati cinquant’anni e i “mezzi di comunicazione” da mass-media (1967) sono diventati social-media (2017), sono così integrati nella quotidianità delle persone che è diventato quasi impossibile distinguere una comunicazione offline da una comunicazione mediata dalla tecnologia digitale (cfr. R. Eugeni, condizione postmediale). Forse è arrivato il momento in cui bisogna ripartire da capo, cominciare a convincerci che la comunicazione, che sia mediata o face to face, fondamentalmente è una questione umana. È il prodotto più bello dell’umanità, la tecnologia più preziosa che ogni uomo e donna possiede e con cui può costruire un mondo migliore, un’umanità sempre più umana e divina. Il messaggio per il 2017, pertanto, viviamolo come occasione per riformulare una riflessione che, a partire dagli “oggetti” comunicativi (“i mezzi di comunicazione”), diffonda una comunicazione “per l’uomo”, “con l’uomo” e “nell’uomo”.
Come ha ben sottolineato Massimiliano Padula, presidente dell’AIART, «la comunicazione siamo noi, siamo noi che proiettiamo nelle nostre azioni e nelle nostre comunicazioni bontà, bellezza, sofferenze e fallimenti». Dunque, quando tentiamo di dire qualcosa sulla comunicazione non dimentichiamoci che stiamo parlando di noi. I media, anzi i social media, ci riguardano perché sono “parte” di noi. Papa Francesco pur non facendone chiaro riferimento, pur limitandosi a definirli alla stessa maniera del messaggio del 1967, sa benissimo che parlare di comunicazione e riflettere sui media vuol dire parlare dell’uomo, dei suoi desideri, dei sui bisogni, delle sue intenzioni.
Il contesto di oggi è ben diverso a quello di cinquant’anni fa. I “mezzi di comunicazione” ci permettono «di condividere istantaneamente le notizie e diffonderle in modo capillare». Abbiamo prodotto dispositivi così tecnologici (i nostri smartphone) che il tempo e lo spazio sembrano quasi che si sono macinati creando una nuova percezione della realtà. La comunicazione di una notizia ci arriva senza una chiarezza di tempo e di spazio, viene trasmessa macinata, e chi la riceve spesso non riesce a distinguere chiaramente il contenuto che contiene. Ecco il dramma che Papa Francesco vuole quasi denunciare con questo suo messaggio: siccome «la mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve» occorre scegliere «quale materiale fornire», che tipo di contenuti e di linguaggi dare alla comunicazione. Bisogna cominciare a rendersi conto che comunicare con i media non è la stessa cosa che farlo faccia a faccia. Gli smartphone ci obbligano ad assumere una responsabilità quando stiamo comunicando qualcosa. I social media non sono bacheche dove possiamo appendere di tutto, attaccapanni su cui lasciare ogni cosa che ci passa per la testa ma sono delle “macine” di pensieri, di desideri, di intenzioni umane che se impastate bene possono produrre “pani fragranti e buoni” per alimentare una buona comunicazione.
Ecco che questo messaggio, oggi pubblicato, diventa un incoraggiamento a tutti coloro che ogni giorno hanno a che fare con i media, non solo chi ci lavora professionalmente perché ogni persona ormai è in certo senso mediale, lo smartphone che possediamo permette a tutti di avere a che fare concretamente con la comunicazione, di produrre notizie per gli altri. Tutti, allora, siamo chiamati a produrre «una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia».
Per fare tutto questo Papa Francesco invita tutti a riflettere su 5 cose:
1) Occorre «spezzare l’abitudine a fissare l’attenzione sulle cattive notizie. Non si tratta d’ignorare il dramma della sofferenza, né di scadere in un ottimismo ingenuo ma cominciare a cercare di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra». Come Chiesa bisogna evitare di imitare quei sistemi pubblicitari e giornalistici che cercano sempre e solo le notizie negative perché permettono di ricevere più like e visualizzazioni.
2) Perciò, bisogna assumere «uno stile comunicativo aperto e creativo» che riesca a mettere al centro la persona e non il fatto negativo, che riesca a comunicare «le soluzioni possibili, ispirando un approccio propositivo e responsabile» in chi ascolta o legge la notizia. Raccontare i fatti attraverso «la scelta di una chiave interpretativa che permetta di selezionare e raccogliere i dati più importanti». È una sfida culturale più che strumentale, necessità di avviare una riflessione anche teologico-pastorale, è una fatica che non possiamo evitare se veramente vogliamo fare della comunicazione un evento di annuncio del Vangelo e di comunione.
3) Non esiste comunicazione che non sia mediata da un qualcosa, «la realtà, in se stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene volta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardala: cambiando le lenti anche la realtà appare diversa». Oggi le lenti più utilizzate dalla società sono gli schermi dei media digitali. Ivan Maffeis, direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni della CEI, sottolinea che «piattaforme e dispositivi digitali ampliano a dismisura la possibilità di ascolto, di parola e di condivisione». E con loro «ogni nuovo dramma diventa scenario possibile di una possibile nuova notizia». Alla comunicazione della Chiesa serve un occhiale, una lente, che permetta di decifrare la realtà come occasione per la Buona Notizia. Questa lente è il Vangelo, ovvero Gesù stesso. Non è possibile che la comunicazione delle notizie avvenga senza riferimenti al Vangelo di Cristo, non è accettabile che le diocesi e le parrocchie continuino a trasmettere notizie alla stessa maniera delle trasmissioni giornalistiche. Se lo scenario è uguale, ed è quello dei media digitali, per la comunità ecclesiale l’occhiale (il modello comunicativo) è Cristo.
4) Oggi non funzionano più i fiumi di parole, la macina “spazio-tempo” dei media digitali ha le sue logiche che bisogna conoscere se si vuole comunicare efficacemente. Viviamo nell’era dell’immagine, il linguaggio iconico è il più efficace per trasmettere significati a tutti. «Ricorrere a immagini e metafore per comunicare la potenza umile del Regno lascia all’ascoltare lo “spazio” di libertà per accoglierla e riferirla anche a se stesso». Lasciamo – dice il Papa – che «siano le immagini più che i concetti a comunicare la paradossale bellezza della vita nuova in Cristo».
5) Lo Spirito Santo è il vero protagonista della comunicazione del Vangelo e della Chiesa, l’unico che può dare novità alla nostra comunicazione. Ciò che deve contraddistingue la comunicazione del Vangelo e della Chiesa è la presenza dello Spirito. «Attraverso la forza dello spirito Santo possiamo essere testimoni e comunicatori di un’umanità nuova, redenta, fino ai confini della terra». Se vogliamo che la comunicazione trasformi la realtà dobbiamo permettere che sia lo Spirito a donare suono e significato alle parole. Lo stesso Spirito, se lo facciamo entrare nei nostri media digitali – se permettiamo allo Spirito di riflettersi anche nei nostri profili social – ecco che diventeranno concreti «canali viventi» per diffondere speranza e fiducia in questa storia drammatica che ci riguarda personalmente.