“B@tticuore” è il titolo di un format televisivo che nel 2001 occupava il preserale di Rai Due e prevedeva di far incontrare dal vivo alcune persone che si erano conosciute solamente tramite chat testuale. Eravamo agli albori delle reti sociali, Facebook non esisteva e, tanto per citare un riferimento storico qual è la vignetta pubblicata nel ‘93 da Peter Steiner su The New Yorker, in quegli anni, nella comunicazione digitale, sarebbe stato difficoltoso scoprire se dall’altra parte dello schermo ci fosse stato un cane o una persona. L’anonimato era un’opzione possibile e il travisamento dell’identità dietro lo schermo un gioco appetitoso. Il programma non ebbe vita lunghissima e si rese presto evidente che spesso alla vivacità digitale corrispondeva una presenza scialba e, nel momento in cui le persone si incontravano in studio, regnava sovrano un imbarazzo raggelante che trapassava in modo ancor più evidente il tubo catodico. Da quel periodo sono trascorse ere geologiche, secondo il calendario del cyberspazio, e la comunicazione mediata dall’elettronica ha richiesto sempre più autenticità per meritare il nostro tempo e le nostre energie. Nonostante questo la parola digitale nella nostra epoca sembra non avere bisogno solo di credibilità, il che rappresenta già una buona soglia di contatto con le relazioni in presenza, ma anche di radicamento nella prassi così da restituire spessore al linguaggio. È anche di questo che parla il messaggio predisposto da papa Francesco per la 50ª Giornata mondiale della comunicazioni sociali, che cade l’8 maggio. La parola dovrebbe diventare ponte e non iato, in quel processo di concretizzazione che le restituisce affidabilità e consistenza dopo la smaterializzazione provocata dal transito nella comunicazione digitale. Il riferimento del messaggio è chiaro e punta non tanto al verbo generico ma a quel linguaggio medicinale in grado di sanare le ferite della psiche e dell’anima e di restituire armonia ad un percorso immaginato a cerchi concentrici: famiglia, gruppi sociali, popoli. È la misericordia stessa a generare un nuovo stile di dialogo, da instaurare con coraggio e amore per la verità. Il papa, per rafforzare il suo pensiero, cita un’espressione estrapolata dall’atto IV del Mercante di Venezia di Shakespeare: «La misericordia non è un obbligo. Scende dal cielo come il refrigerio della pioggia sulla terra. È una doppia benedizione: benedice chi la dà e chi la riceve». Non uno sforzo ascetico, dunque, ma un dono distribuito tra gli attori del contendere che mitiga «le avversità della vita e può offrire calore a quanti hanno conosciuto solo la freddezza del giudizio», come sottolinea il testo del messaggio. Nelle pratiche di “web listening”, l’ascolto della Rete a scopo soprattutto commerciale, è necessario applicare un filtro per non disperdere inutilmente energie. Nel messaggio del papa l’ascolto diventa elemento fondamentale per condividere domande e prospettive, secondo il filtro della prossimità, ovvero quella capacità di cura che ci porta a farci carico del cuore dell’altro come è indicato, in radice, dal connubio tra i termini latini “misèreo” e “cor”. Come Mosè si toglie i sandali e prende contatto con la terra dell’incontro con Dio così per noi si rivela importante un contatto con il suolo dell’amore e dell’accoglienza, per poter varcare la soglia del perdono dato e ricevuto. Stare scalzi a contatto con l’”humus” rischia di renderci più umili, toccare nudi la terra ci aiuta a comunicare con il Cielo.
Don Marco Sanavio
Direttore Ucs Padova
Anticipazione da "La Difesa del Popolo" del 5 maggio 2016