«L’eredità viva dei martiri dona oggi a noi pace e unità. Essi ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace» (Francesco, Omelia, 22 aprile 2017). Papa Francesco, incontrando la Comunità di Sant’Egidio, ha ricordato i “nuovi martiri” del XX e XXI secolo. E di martiri si occupa il film “Silence” di Martin Scorsese, 16a proposta cinematografica per il ciclo sulla “buona notizia” curato dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali e dalla Commissione Nazionale Valutazione Film CEI.
“Silence”, tra “caduta” e misericordia
Il film “Silence” è stato presentato in anteprima nella Filmoteca Vaticana della Santa Sede, il 30 novembre 2016, alla presenza del Prefetto della Segreteria per la Comunicazione mons. Dario Edoardo Viganò, che ha accompagnato anche il regista Martin Scorsese a incontrare papa Francesco. Era dal 1988 che Martin Scorsese pensava di portare sullo schermo “Silence”, il romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō (Corbaccio), che ricorda il dramma dei sacerdoti gesuiti e dei cristiani vittime di torture in Giappone nel ‘600. «“Silence” – dichiara il regista Scorsese – è la storia di un uomo che impara ”molto dolorosamente” che l’amore di Dio è più misterioso di quanto lui pensi, che Lui lascia più spazio agli uomini di quanto crediamo e che è sempre presente… anche nel suo silenzio. Ho preso in mano questo libro per la prima volta circa 20 anni fa. Da allora l’ho letto e riletto infinite volte… E mi ha dato quel tipo di nutrimento che ho trovato in poche altre opere d’arte».
Giappone 1643. Due giovani padri gesuiti europei, Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver), giungono di nascosto in Giappone, per trovare notizie sul confratello padre Christovao Ferreira (Liam Neeson) e per proseguire nell’annuncio del Vangelo sull’esempio di Francesco Saverio. È l’epoca Edo, segnata da forti repressioni nei confronti dei cristiani e dei sacerdoti; i villaggi sono perquisiti e non viene risparmiata alcuna forma di tortura, sino alla crocifissione. I due missionari affrontano il pericolo, muovendosi nel cuore della notte e con l’appoggio dei fedeli locali, che non smettono di cercare il conforto della Parola. La vicenda ha un drammatico punto di svolta quando il protagonista padre Sebastian viene rapito e imprigionato. È così messo dinanzi alla scelta dell’abiura, una passo sollecitato da pressioni psico-fisiche, ma anche dall’assistere alle torture dei fedeli.
Con “Silence” Martin Scorsese conferma ancora una volta di essere un grande autore, capace di affrontare generi cinematografici diversi e tematiche complesse, sempre con vigore espressivo e padronanza stilistica. “Silence” è una storia spinosa e sofferta, il racconto di testimoni di fede uccisi per non rinunciare a Cristo, ma anche il racconto di sacerdoti “caduti”, che hanno abbandonato la fede – i cosiddetti lapsi, termine che si riferisce ai cristiani apostati nelle persecuzioni ai tempi dell’Impero romano –, perché incapaci di sopportare il peso della violenza, la barbarie dell’intimidazione. A dare volto al protagonista in modo intenso e convincente è l’attore americano Andrew Garfield, che ha saputo calarsi nel ruolo di padre Sebastian mostrando la forza e l’entusiasmo della sua fede, ma anche la fragilità umana dinanzi all’angoscia; una narrazione del tormento interiore, oscillante tra sofferenza e ricerca della voce di Dio. Una voce di Dio che si fa silenzio, che si propaga nel silenzio. Sebastian, imprigionato, prega, si aggrappa alla croce, per sfuggire alla crudeltà. Spinto e percosso sino alle soglie dell’abiura, il gesuita non smette di chiedere un segno, una parola di conforto da Dio. E una voce sembra risuonare nel silenzio, proprio nel momento della “caduta”. Che sia l’abbraccio misericordioso di Dio dinanzi al grido di un figlio, proprio come avvenne per quel Figlio morto in croce? Padre Sebastian scivola nell’apostasia, accetta di salvare i fedeli torturati e la sua vita allontanandosi dalla croce, così come era avvenuto poco tempo prima a padre Christovao Ferreira – figura realmente esistita –, apostata, sposato con una giapponese e disposto ad abbracciare la religione buddista.
Martin Scorsese, riflettendo sulla figura di padre Sebastian Rodrigues, richiama l’immagine del sacerdote umile descritto da Georges Bernanos nel libro “Il diario di un curato di campagna” (1936), portato al cinema nel 1951 da Robert Bresson. Il regista è attento a entrare nelle pieghe del tema, focalizzando l’attenzione sugli accadimenti, ma soprattutto sulla dimensione interiore del protagonista, padre Sebastian, sul dramma che divampa nel cuore del gesuita, combattuto tra la propria fede e la rinuncia, il disconoscere la propria identità. Scorsese con un’inquadratura ci invita a superare le apparenze, le letture immediate. Affonda la macchina da presa nell’animo di un uomo, di uomo di fede.
Valutazione pastorale della Commissione Film CEI
Il punto di partenza resta il romanzo di Endō, uno dei non molti scrittori a mettere in campo un punto di vista cristiano, nato a Tokyo nel 1923, battezzato all'età di 11 anni, scrittore dal 1958 con storie quasi tutte legate a temi religiosi e cristiani. Nel ricostruire queste drammatiche pagine di storia, Scorsese mette in scena tutto il proprio sguardo fatto di vigore, solennità espressiva, pietà. Dentro di sé, il regista ha lo slancio di un'eredità costruita attraverso titoli quali “Taxi Driver”, “Toro scatenato”, “The Departed” (Oscar 2007), tutti meccanismi nei quali il contrasto tra bene e male si fa lancinante dissidio di sofferenza. Ora lo scontro tra religioni arriva a una elaborazione più profonda, quasi che il passare degli anni e l'esperienza abbiano permesso a Scorsese di entrare nelle pieghe di un'analisi più lucida e fredda. Di fatto il nodo centrale è il momento dell'abiura. La ricostruzione della vicenda nel Giappone del 1640 ha una plasticità espressiva fortemente sofferta e sempre incisiva. La fotografia, livida di angoscia e di colori respingenti, la scenografia, precisa, di Dante Ferretti, la colonna sonora di Kim Allen Kluge sono tutti tasselli rivolti a comporre un affresco d'epoca tanto tempestoso quanto incalzante. L'immagine restituisce il senso della precarietà e della difficoltà del periodo. Un momento di autentica sofferenza, dentro una cornice di rinunce e di dolore atroci e insopportabili. Scorsese ha il merito di comporre questo dramma senza cadere in azioni prevedibili o toni didascalici. Anzi nel seguire le tragiche vicende dei due gesuiti, la regia riesce ad 'allargare' i confini del tempo affrontato. Al punto che, alla conclusione, l'impressione è che, mentre racconta il Giappone del 1600, Scorsese abbia voluto dire qualcosa all'uomo di oggi. Come uno stringente e doveroso omaggio ai cristiani ancora perseguitati nel mondo del Terzo Millennio. Per questi motivi, il film è da valutare come complesso, problematico e da affidare a dibattiti.
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