Un altro contributo sulla riflessione promossa dal Copercom per la 51esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Sul Messaggio di Papa Francesco interviene Fabio Zavattaro, già vaticanista del Tg1, che pone alcuni interrogativi sul mestiere del giornalista. In precedenza avevano scritto Domenico Delle Foglie, Carlo Marroni, Tonino Cantelmi, Piero Chinellato, Vania De Luca e Massimiliano Padula.
Speranza e fiducia. Sono le due parole che Francesco sceglie per dire che dobbiamo toglierci di dosso i lacci che ci legano a un tipo di comunicazione fatta di lacrime e di violenza. E l’immagine della macina da mulino e del mugnaio si iscrivono molto bene nel processo elaborativo del comunicare, e nel ruolo del comunicatore; perché se è vero, come scrive Papa Francesco, che la macina mossa dall’acqua non si ferma, ecco che diventa importante, anzi decisiva, la mano di chi svolge questo affascinante e complesso mestiere del comunicare. Lo chiamo mestiere, e non professione, perché come per l’artigiano che plasma la materia e da un qualcosa di informe produce un oggetto, un lavoro, così comunicare è plasmare, con la mente e con il cuore, un messaggio che arriverà a moltissime persone. Ecco che, per tornare all’immagine del mulino, in quella macina possiamo mettere grano o zizzania.
Qui è il punto dolente del nostro mestiere: fino a che punto è giusto insistere su una notizia, ad esempio, di cronaca nera, seguire le vicende di una persona che ha commesso un crimine, raccontare i retroscena di un atto di violenza? Interrogativi che da tempo trovano cittadinanza nelle riflessioni in seno alle categorie professionali, o più frequentemente nelle redazioni delle testate giornalistiche. Certo non si possono ignorare questi fatti e non solo per quel diritto di cronaca che alimenta la ricerca e riempie le pagine dei nostri giornali, ma soprattutto per il rispetto che si deve alle vittime di questi avvenimenti, alle famiglie lacerate da episodi che, forse, non si potevano nemmeno immaginare. Proprio per il rispetto che è dovuto alle persone entrano in gioco le parole che Papa Francesco ha rivolto ai giornalisti pochi giorni dopo la sua elezione a 266° successore di Pietro: “il vostro lavoro – diceva il Papa – necessita di studio, di sensibilità, di esperienza, come tante altre professioni, ma comporta una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza”. E aggiungeva Francesco, la necessità di “spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura, frutto dell’abitudine a fissare l’attenzione sulle ‘cattive notizie’ (guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di fallimento nelle vicende umane)”.
Nessuna disinformazione o censura, né “ottimismo ingenuo che non si lascia toccare dal male”. Ed eccoci di nuovo al tema cruciale del comunicare, perché la vita dell’uomo, è sempre Francesco a ricordarcelo, “non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia, che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti”.
La questione di fondo, allora, non è cosa comunicare, ma come. Mi vengono in mente le parole della canzone vincitrice del festival di Sanremo: Occidentali’s karma. Francesco Gabbani canta: “essere o dover essere, il dubbio amletico”. E ancora: “l’intelligenza è demodé. Risposte facili, dilemmi inutili. AAA cercasi (cerca sì) storie dal gran finale”. Duro atto d’accusa alla società, che il sociologo polacco Zygmunt Bauman definisce liquida, ma, se vogliamo, anche al nostro modo di raccontare, a volte, i fatti dimenticando che dietro ad ogni storia c’è un uomo, una donna che meritano tutto il nostro rispetto. Ce lo ricordava l’8 dicembre del 2009 Papa Benedetto XVI parlando davanti l’immagine della Madonna a piazza di Spagna: “nella città vivono – o sopravvivono – persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. È un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”.
La buona notizia per definizione non appartiene al nostro lessico, ma è parola che troviamo nella Bibbia, nei Vangeli; ma c’è una buona notizia, come dire, laica, che invece ci appartiene e che si muove attorno a quelle cinque W, cardini del giornalismo anglosassone: Who, What, When, Where, Why, ovvero chi, cosa, quando, dove, perché. Rispondere a queste cinque domande, entrare in punta di piedi nella storia, evitando inutili aggettivi e falsi moralismi, è il primo grande passo per nutrire la buona notizia, e dare speranza e fiducia, come ci chiede Francesco nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali di quest’anno.