Nella tradizione patristica la liturgia è composta di due livelli: L’uno è oggetto degli occhi del corpo e l’altro è oggetto degli occhi della fede. Posto questo, il metodo della catechesi mistagogica consisterà nel passare dal primo livello al secondo: e ciò avviene sempre attraverso la citazione di un particolare testo biblico; è per questo che la catechesi mistagogica non può non essere biblica.
L’inventore delle catechesi mistagogiche è stato Cirillo di Gerusalemme che ha dedicato una intera catechesi al commento dell’Eucaristia attraverso la preghiera eucaristica. A rigore, la catechesi mistagogica è destinata a coloro che sono appena stati battezzati ma già Cirillo ammetteva a questa catechesi anche chi era stato battezzato negli anni precedenti. Penso che questo sia un autorevole precedente affinché anche noi intraprendiamo una catechesi mistagogica rivolta a tutti indipendentemente dall’iniziazione cristiana e dall’epoca in cui uno è stato battezzato.
La catechesi mistagogica, dunque, obbedisce a un antico modo di fare teologia, che si è estinto nel quinto secolo per motivi particolari ma che ora è stato recuperato dal Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti secondo il quale costituisce il quarto tempo dell’iniziazione (cfr. anche Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 64).
1. Qual è il metodo della teologia mistagogica
La prima caratteristica di questo metodo teologico sta nell’uso della Bibbia: il commento avviene non in base alle nostre sintesi teologiche, ma in base ai testi biblici che parlano della salvezza portata da Cristo. La seconda caratteristica sta nella soppressione del divario dello spazio e del tempo: l’opera di Cristo è avvenuta in un altro paese, la terra di Israele, e in un altro tempo ossia 2000 anni or sono. L’opera di Cristo quindi, da questo punto di vista, appartiene al passato. Con la mistagogia, invece, si afferma che l’opera di Cristo appartiene al presente e avviene qui e adesso per noi. Se leggiamo un testo biblico che parla di Cristo, certamente parla di un passato ma di un passato che avviene qui e adesso: il testo biblico ci parla dell’oggi. Non perché c’è una teologia sacramentale che spiega come portare nell’oggi gli eventi antichi di salvezza, bensì perché Dio è eternamente presente: egli è l’oggi senza tramonto. E con lui anche le sue opere di salvezza sono in un eterno presente.
Prima di commentare la celebrazione eucaristica alla quale avevano partecipato i fedeli di Gerusalemme, Cirillo spiega che cosa fece Gesù nell’ultima cena; lo fa brevemente perché non c’è bisogno di molte parole: Gesù prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli dicendo che lo prendessero e ne mangiassero perché quello era il suo corpo; e altrettanto fece per il calice che diede loro da bere dicendo che quello era il calice dell’alleanza, nel suo sangue. Cirillo aggiunge subito che nessuno può dubitare della parola del Signore e che, quindi, quel pane e quel calice erano veramente il corpo e il sangue di Cristo. E se lo erano all’ultima cena, lo sono anche oggi sui nostri altari.
Gesù, alla fine dell’ultima cena, ha aggiunto: Fate questo in memoria di me. Egli vuole che noi ripetiamo il suo gesto e, facendolo, non rifaremo proprio quell’ultima cena che egli stesso ha fatto. L’ultima cena non resta confinata nel passato ma coincide con ogni nostra celebrazione eucaristica: ogni volta che noi ripetiamo quei gesti noi facciamo l’ultima cena di Gesù. Ma no, qui dobbiamo correggerci: non siamo noi che rifacciamo l’ultima cena ma è Gesù stesso che la fa ancora, con noi e per noi, nella nostra chiesa sul nostro altare. Se noi obbediamo alla sua parola, non siamo più noi che facciamo questa celebrazione ma è lui stesso che ancora una volta fa l’ultima cena con noi. È questa l’arcaica teologia della messa: noi facciamo i gesti di Gesù alla cena, ma non siamo più noi che li facciamo bensì lui stesso.
2. È Gesù che agisce
E allora succede questo: con gli occhi del corpo vediamo il sacerdote che presiede l’Eucaristia ma con gli occhi della fede vediamo Gesù nel cenacolo; con gli occhi del corpo vediamo il pane e il vino ma con quelli della fede vediamo il pane e vino che Gesù teneva in mano nell’ultima cena e che era il suo corpo e il suo sangue; con gli occhi del corpo vediamo l’assemblea riunita, e noi in mezzo alla comunità, ma con la fede vediamo gli apostoli riuniti attorno a Gesù nel cenacolo. E quegli apostoli siamo noi. Dovremmo, quindi, uscire di chiesa come apostoli ed evangelizzare il mondo come fecero i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo nella camera alta dove erano riuniti.
La partecipazione attiva alla liturgia, voluta dal Vaticano II, consiste proprio in questo: passare continuamente da ciò che vedono gli occhi del corpo a ciò che vede l’occhio della fede.
Un esercizio difficile che richiede una grande attività interiore, ma denso di frutti e di grandi promesse.
3. Ma noi non siamo Gesù
Se i gesti che noi compiamo sono i gesti di Gesù, allora anche la preghiera che noi compiamo è la preghiera che Gesù fece nell’ultima cena; il rendimento di grazie che noi facciamo, ossia la preghiera eucaristica, non è altro che il rendimento di grazie che Gesù fece nell’ultima cena. È lui che prega con la nostra bocca e con le nostre parole ed è alla sua preghiera che noi diciamo Amen, non alla nostra. Ma noi sappiamo bene che la preghiera che noi recitiamo non è quella che recitò Gesù nell’ultima cena, e lo dimostra la storia delle varie preghiere eucaristiche che hanno degli autori ben determinati. Perché non usiamo le parole di preghiera che Gesù disse nell’ultima cena? Perché una preghiera, per essere vera, deve rappresentare ed esprimere la situazione e la posizione che quella determinata persona ha davanti a Dio. Noi non siamo Gesù, per quanto santi possiamo essere: di conseguenza la nostra preghiera è obbligata ad essere diversa da quella di Gesù.
Per essere vera come quella di Gesù, la nostra preghiera dev’essere diversa dalla sua. Ecco perché possiamo affermare che la nostra preghiera eucaristica è quella stessa azione di grazie che Gesù pronunciò nell’ultima cena, anche se noi utilizziamo parole completamente diverse dalle sue; effettivamente il nostro testo risulta essere ben diverso. Per essere vero come il suo, il nostro testo deve essere diverso dal suo: e solo quando il nostro testo sarà profondamente vero, noi potremo dire che il nostro testo coincide con il suo. Non perché è il testo scritto nel messale ma perché proviene dal nostro cuore orante. Ossia: egli prega in noi con la nostra bocca, con il nostro testo, e le nostre parole sono le sue dell’ultima cena anche se sono diverse. O meglio, proprio perché sono diverse.