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Carlo Maria Martini: credenti aggrappati sull'abisso   versione testuale
Carlo Maria Martini, Avvenire - 20 ottobre 2015
«Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa». Con queste parole Carlo Maria Martini apriva la prima «Cattedra dei non credenti», nel 1987. Iniziava così un lungo cammino di dialogo voluto dall’arcivescovo di Milano per dare la parola a non credenti, offrendo loro la possibilità di rendere ragione delle proprie convinzioni e favorendo nei credenti un atteggiamento di ascolto disponibile e pensoso. Ora la versione integrale e completa delle dodici edizioni dell’iniziativa (svoltasi a Milano dal 1987 al 2002) è stata raccolta per la prima volta con molti interventi inediti in un volume che va in libreria da giovedì col titolo Le cattedre dei non credenti (pp. 1296, euro 25) e si colloca all’interno dell’opera omnia dell’arcivescovo scomparso nel 2012, un progetto in 18 libri promosso dalla Fondazione Carlo Maria Martini in collaborazione con Bompiani. Il volume, di cui diamo qui a fianco un testo inedito del cardinale, viene presentato in anteprima oggi alle 18 presso l’Auditorium San Fedele di Milano (via Hoepli 3/b) da padre Carlo Casalone, Guido Formigoni, Salvatore Natoli e Carlo Sini. 
«L’eredità che ci ha lasciato il cardinal Martini – scrive Papa Francesco nella prefazione – è un dono prezioso. La sua vita, le sue opere e le sue parole hanno infuso speranza e sostenuto molte persone nel loro cammino di ricerca. Uomini e donne di fedi diverse, non solo in ambito cristiano, hanno trovato e continuano a trovare incoraggiamento e luce nelle sue riflessioni. Abbiamo quindi la responsabilità di valorizzare questo patrimonio, così che possa ancora oggi alimentare percorsi di crescita e suscitare un’autentica passione per la cura del mondo». 

di Carlo Maria Martini
Il nostro ciclo di incontri «Domande sulla fede» è impostato sull’interrogazione. E cerco di rispondere.
Anzitutto, mi penso come incredulo: lascio, cioè, affiorare quella parte di me che resiste, che reagisce, che non accetta. Sento infatti delle resistenze di questo genere: a me non interessa nulla della mia infanzia, è tempo passato, tempo dei sogni e dei miti, di cui non ho alcuna nostalgia, che non ha nessun significato per la mia esistenza presente. Questo discorso quindi non mi tocca, perché non mi sono mai posto né mi pongo il problema di che cosa possa avere significato un certo atteggiamento fondamentale della mia infanzia. A questa posizione se ne contrappone però un’altra: allora, non ho forse represso qualcosa in me, accontentandomi di un desiderio limitato di vivere spirito d’infanzia e di sapere? Mi accontenta il desiderio limitato di vivere e di sapere? Ecco il pro e il contro che si contrappongono in me da questo punto di vista.

Mi interrogo, poi, come credente. E avverto anche in questo caso varie reazioni. Da un certo punto di vista, posso sentirmi quasi più in pace con me stesso, perché distinguo in me, senza separare, l’impulso ad affidarmi puerile da quello autentico. Posso perciò cogliere l’uno e l’altro impulso e accettare l’uno e l’altro nella propria validità. Oppure mi sento intimorito, perché non so più capire bene se sia credulo o credente; cioè, se il mio credere è credulità oppure autentica fede; se ciò a cui mi affido è il mio impulso vitale o è l’accoglienza dell’autocomunicazione di Dio o (come diceva Pierangelo Sequeri) l’accoglienza della vita eterna. È la volontà di affidarmi che chiama la vita eterna o è la vita eterna promessa che chiama l’affidamento, che chiama per nome l’infanzia?

Finalmente, rifletto come «terzo uomo», come uomo della strada. E mi sembra che potrei dire: ma questi sono problemi di lusso, problemi a cui non c’è tempo di pensare nel vortice dell’esistenza quotidiana. Però mi sorge subito una domanda contrapposta: ogni volta che da adulto vedo un bambino e mi sento preso da nostalgia per qualcosa da cui mi sento escluso o che è irrimediabilmente perduto, non partecipo forse a questa domanda, a questa ricerca, pur senza averci mai pensato e ritenendola appunto cosa di lusso, non utile per la vita quotidiana?
Sono d’accordo con chi ha messo in luce la necessità sociale che ci spinge a coltivare in noi i due discorsi del non credente e del credente, quasi come esercizio professionale in un mondo pluralistico in cui, quando dico una cosa, devo sempre pensare: ma l’altro, come la penserà e quale risonanza avrà in lui? Vorrei però aggiungere che l’esercizio che viene proposto qui è più rischioso. È molto di più, cioè, di una necessità sociale in un mondo pluralistico; è originato veramente dal fatto che noi viviamo in parete, siamo in parete, abbiamo un baratro sotto di noi. E il credente si appoggia, perché vive in parete; quindi deve continuamente calcolare ciò che fa, cogliendo l’abisso che sta sotto di lui. Questo è, mi pare, il credente adulto, il quale si affida e continua a salire in parete, malgrado tutto, proprio perché misura completamente la realtà nella quale è immerso.

Vorrei dire di più. A mano a mano che procedo nell’esperienza abbastanza illuminante della «Cattedra», entro nella persuasione che tocca al credente adulto e maturo – che ha riconquistato anche un po’ del vero spirito di infanzia (attraverso una rinascita, come è stato detto, ma certo attraverso un vero spirito di infanzia secondo il Vangelo) – comprendere a fondo il rischio del credere e il rischio del non credere. Tocca a lui proiettare luce su abissi oscuri del negativo dell’esperienza umana, la cui negatività condurrebbe a concludere che non vale più la pena, per nessun motivo, di vivere. Credo che attraverso questo nostro esercizio noi siamo chiamati a questo servizio alle oscurità negative dell’esistenza umana.

Che cosa ho ricavato, poi, da questa terza sessione della «Cattedra»? Provo a indicare brevemente ciò che è venuto nascendo in me. Sono stato stimolato a riflettere su tre valori. Innanzitutto, sullo spirito di infanzia evangelico! Non ne avevo mai colto, come ora, l’importanza e l’ho rimuginata molto in questi giorni, ripensando a tutti i passi del Vangelo e alla loro imperatività. Gesù, infatti, non ci propone qualcosa di facoltativo, un aiuto per fare meglio, bensì un imperativo. In secondo luogo, sono stato spinto a ripensare al rapporto tra il farsi come bambini e le beatitudini evangeliche. Mi è parso di cogliere una profonda sintonia tra le parole di Gesù che, mettendo in mezzo il fanciullo, dice: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3), e la sua proclamazione: «Beati i poveri... beati i puri... beati i misericordiosi...» (Mt 5,1 ss.).

E ancora ho avvertito una profonda consonanza tra lo spirito d’infanzia evangelico, le Beatitudini e la descrizione che gli evangelisti danno di Maria madre di Gesù, soprattutto nel canto del Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati» (Lc 1,46 ss). Infine, ho risentito fortemente il rapporto tra il diventare piccoli o le beatitudini e la capacità di credere, lo sgorgare della fede come dono nel cuore del credente. È ciò che lo scorso anno abbiamo chiamato la ferita del cuore o l’innamoramento. Mi sembra di aver colto più intimamente il rapporto di questo innamoramento con l’invito di Gesù a diventare come bambini o con lo spirito evangelico delle beatitudini.

Ho poi ricavato, da questa sessione della «Cattedra», alcuni punti fermi sulla natura della fede, del rapporto e del collegamento tra credere e affidarsi. E sento il bisogno di esprimermi in tesi, anche se non è un linguaggio infantile. Ma l’esempio, l’epigramma, la parabola, che pure vanno molto bene, non mi bastano come linguaggio. Naturalmente si tratta di tesi del credente; non mi azzardo a formulare tesi del non credente, perché forse non lo sono abbastanza. Come sento ora le mie convinzioni profonde?
a) Il credere è rispondere di sì a una chiamata, a un’offerta, a una proposta. b) Questa chiamata, offerta, proposta, precede il desiderarla e il sentirla. Non è quindi giusto affermare: io non la sento e dunque non c’è. Piuttosto si deve dire: io non la sento, dunque mi interrogo. Perché il bambino che si affida è anche il bambino che si interroga. c) La voglia di vivere e di affidarsi per vivere è certamente primordiale in me; però non è il credere di cui sono consapevole come cristiano. d) Tuttavia riconosco nell’invito a rinascere o a farsi bambino l’invito a ritrovare quella componente fondante della personalità per cui essa è capace di affidamento.
e) Nello stesso tempo sento che questo affidamento è ragionevole e che quindi, come tale, il bambino non l’ha se non nella forma dell’affidamento per istinto, che l’esperienza conferma. f) Però, tale affidamento appare ragionevole solo se è messo di fronte alla proposta. Cado nell’incredulità ogni volta che allontano gli occhi dalla Parola che chiama e cerco in me solo l’affidamento di chi risponde. Cado, cioè, sotto l’impero dell’umore, della fantasia, del sentimentalismo. g) False immagini della fede, derivanti anche dall’abuso dell’immagine infantile, offuscano il vero volto dell’adesione di fede. Essa è apertura all’iniziativa di un Altro che mi si comunica; e si verifica, cioè si può sentire vera, nell’atto in cui ci si pone in ascolto e ci si affida, mentre nel contempo si fa trasparente a se stessa.
  
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Fonte: Avvenire, 20 ottobre 2015