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Il Genius Loci Cristiano

Frédéric Debuyst

» Leggi l'intervista a Sara Meda
"Dove si consacra una comunità"

 
15/01/2013
15/01/2013
15/01/2013
15/01/2013
15/01/2013

15/01/2013
Titolo: “Il Genius Loci Cristiano”
Autore: Frédéric Debuyst
Editore: Sinai (2000) (edizione originale “Le génie chrétien du lieu”, Paris, Cerf, 1997)
Numero pagine: 114
Prezzo: 18,60 euro
15/01/2013

Da quando uscì l’opera di Christian Norberg Schultz sul Genius Loci (in Italia nel ’79), l’indagine e l’attenzione sullo “spirito del luogo” e sulle caratteristiche storiche, morfologiche, culturali, estetiche, affettive del contesto in cui si inseriscono le architetture, si sono radicate – almeno a parole – nella pratica progettuale. Debuyst si propone di indicare una via per definire un genius loci non legato a un sito geografico né a un’epoca storica particolare, bensì all’esserci della chiesa quale ambiente volto ad accogliere la pratica cultuale e la vita della comunità cristiana. Si esprime attraverso esempi derivanti dalla sua esperienza personale, talché le chiese e i monasteri presi in considerazione sono raccontati, sia come luoghi, sia come architetture, sia come momenti di vita vissuta. Sempre con un’attenzione precipua alla pratica liturgica che si dilata, dal luogo di culto, a dar forma a tutti gli ambienti che lo definiscono e che lo attorniano. Nella sua introduzione, Maria Antonietta Crippa scrive: «Mi sono chiesta più volte per quali ragioni l’attuazione della riforma liturgica si riduca normalmente, in architettura, al corretto posizionamento di oggetti dell’arredo cultuale. Troppo spesso manca un adeguato esame del valore, cultuale e artistico delle forme spaziali dell’intero complesso architettonico, ma connesso ai suoi significati liturgici e di storia religiosa». Debuyst indica una via per rispondere a tutto questo.

15/01/2013
Fréderic Debuyst (n.1922), benedettino del Monastero di Saint-André de Clerlande a Ottignies (Belgio), teologo e filosofo, è prolifico autore di studi sul rapporto tra liturgia, arte e architettura e approfondisce con impegno l'opera di Romano Guardini. Dal 1959 al 1980 ha diretto la rivista Art d'Église. Dal 1977 è membro della Commission des Monuments dell'Arcivescovado di Malines-Bruxelles. Partecipa alla redazione di Chroniques d'Art Sacré, del Centro nazionale per la pastorale liturgica (C.N.P.L.) di Parigi. Interviene con frequenza ai Convegni Liturgici Internazionali di Bose. Tra i numerosi volumi da lui pubblicati: L'entrée en la liturgie, introduction à l'oevre liturgique de Romano Guardini, Le renouveau de l'Arte sacré, L'art chrétien contemporain, Benedectins, un art de vivre.
15/01/2013
La fenomenologia dell'atto dell'abitare ruoterà sempre attorno a tre o quattro poli che una vera casa reca in sé: anzitutto l'intimità personale,il raccoglimento, il silenzio; poi il polo centrale dell'incontro, il cenacolo della “cerchia familiare”; in terzo luogo i camminamenti che li raccordano; infine, l'ospitalità e l'apertura verso l'esterno. Quando parliamo di architettura meditativa o ancora di “luogo completo”, non possiamo dimenticare quei valori semplici quanto fondamentali che ci consentono di accedervi. In particolare non possiamo dimenticare i luoghi in cui, durante l'infanzia, abbiamo scoperto l'intimità e il silenzio: un piccolo abbaino, un solaio, una rimessa, una capanna in giardino, una “casa” sull'albero. Bachelard afferma (in La poétique de l'espace - ndr) che questi luoghi per noi sono indimenticabili: “Per essere precisi, l'essere non li vuole cancellare. Sa d'istinto che quegli spazi della solitudine sono costitutivi...”. Se oggi tanti uomini e donne si sentono persi quando il frastuono cessa e si trovano circondati dal silenzio, nel mare alto dell'anima, forse in buona parte questo accade a causa del fatto che nella loro memoria manca un luogo di quel tipo. La stessa capacità di pregare non può che restarne sminuita o persino atrofizzata. La vita monastica invece non saprebbe farne a meno. La “continuità” della meditazione ha in sé qualcosa di decisivo. Sarebbe il colmo se non esistesse nel monastero la dimensione intima della cella o del focolare – se si dovesse vivere come in un “monumento” puramente “rappresentativo” o, al contrario in un'architettura strettamente funzionale».
 
15/01/2013
Abitare non è semplicemente “stare” in un luogo. Ma anche intrecciare con esso un sottile e complesso dialogo, conoscerlo in tutte le sue risonanze: anche soggettive, ovvero derivanti dal rapporto affettivo che necessariamente si instaura tra persona e ambiente. Debuyst spiega che nelle Georgiche Virgilio esprime questo profondo legame tra essere umano e ambiente naturale, in particolare là dove, nell’elogio all’Italia (Libro II) manifesta il suo identificarsi nella sua terra, dando vita a una poetica nella quale i monaci benedettini si riconoscono «con la loro Regola, con i loro luoghi di vita, con il ritmo misurato delle loro preghiere e del loro lavoro e anche con la loro profonda umanità».
La tendenza dell'architettura contemporanea, a manifestarsi in forme simili ovunque (v. lo “stile internazionale”), privilegia l'idea di “spazio” inteso come “continuum”, piuttosto che l'idea di “luogo” inteso come individuato e dotato di carattere proprio. Le opere di riferimento qui sono, oltre a quella di Norberg-Schultz, gli scritti di Heidegger sull'architettura (quali “Costruire abitare pensare”) e l'analisi di Gaston Bachelard sulla poetica dello spazio. Ma anche la “Filosofia dell'azione dell'abitare” (Filosofie van het Wonen) del gesuita fiammingo Libert Van der Kerken che introduce un riflessione sul concetto di passeggiare, ovvero di conoscere i luoghi attraversandoli e in questo attivando una dialettica in continua evoluzione tra soggetto e luogo:«Chi vi si dedica – scrive Van der Kerken – nel passeggiare ricrea continuamente il paesaggio».
E in realtà Debuyst imposta il suo scritto secondo questo approccio: una serie di esempi che passo passo presentano al lettore i luoghi nei quali l'A. riconosce le caratteristiche del genius loci cristiano – caratteristiche non racchiudibili in una semplice definizione, ma comprensibili attraverso l'esperienza meditata.
I due primi esempi, considerati assieme, sono la chiesa-granaio di Boust, in Lorena, progettata da Emil Steffann nel '43 e un insediamento di 63 case con giardino progettato da Jörn Utzon (l'architetto noto per l'Opera di Sidney) a Helsingör vicino a Copenaghen. Nell'accostare questi due esempi evidentemente Debuyst intende riaffermare il valore “domestico” del luogo di culto, il suo essere vicino alla casa “veramente umana”.
 
La chiesa granaio è stata realizzata come parte dell'incarico che Steffann ricevette, di ricostruire i villaggi della Lorena distrutti dai bombardamenti. Egli riprodusse i muri tipici di Boust e al centro pose un granaio che, in barba ai divieti nazisti, rese chiesa. Un tetto a due falde asimmetriche con un grande portale ad arco, linee semplicissime e pure, e il rustico spiazzo di fronte.
L'A. spiega che Steffann aveva assorbito il genius loci di Assisi, di cui scriveva: «si arriva a scoprire con gioia inesprimibile che nel mondo costruito esiste un ordine e che questo esprime un rapporto con la verità... È unico. È indissolubilmente legato al tempo e allo spazio, là dove è stato dato allo Spirito di manifestarsi». Anche nella disposizione dei poli liturgici la chiesa-granaio preconizza le opere degli anni successivi e secondo il prof. Gisberth Hülsmann «ci dà una “misura”, una realtà di riferimento con cui tutte le costruzioni di chiese possono confrontasi» nell'epoca contemporanea.
A questa architettura rurale, purtroppo rovinata dopo essere stata inglobata nella vicina casa colonica, e infine abbandonata, Debuyst associa le Kingo Houses di Helsingör (il luogo reso celebre dall'Amleto di Shakespeare). Il progetto di Utzon risale al 1958 e l'A o considera esempio di un “luogo completo”, in quanto espressione di una sapiente e rispettosa sistemazione nell'intorno campestre e in quanto latore di un'importante dimensione comunitaria.
Piccole case a patio raccordate da camminamenti – vicine tra loro ma individualizzate. Una sistemazione che consente alle famiglie la loro autonomia e allo stesso tempo favorisce una vita sociale. Un piccolo quartiere che ricorda nella propria sistemazione urbanistica l'organizzazione di un monastero: «ogni singola casa – scrive Debuyst – con il suo patio, costituisce un mondo compiuto. Possiede un carattere di intimità così ben organizzato, così ben definito, che non sempre si può trovare un ambiente di qualità equivalente nelle case dei certosini».
Il terzo esempio di genius loci cristiano scelto dall'A è Roma, descritta da Julien Graq come «straordinaria, caotica mescolanza architettonica» dove «la vita va a braccetto con quel guazzabuglio urbano a quattro dimensioni, dove si cambia di secolo non solamente passando da un quartiere a un altro, ma anche passando da un piano all'altro».
E la città nel suo complesso appare organizzata attorno al cardo e al decumano segnati dalle presenze delle basiliche di San Pietro in Vaticano e di San Giovanni in Laterano sull'asse nord-sud, incrociato dall'asse individuato da San Paolo e Santa Maria Maggiore: «il segno della croce così è stato impresso su tutta la città». Nella quale ovunque peraltro si ritrovano “spazi interiori” che danno un senso di intimità anche alle piazze, cioè ai luoghi più aperti: «ci si sente sempre “all'interno” mentre si è all'esterno».
L'A passa quindi a indagare più a fondo il luogo come ambiente liturgico e subito volge l'attenzione alla centralità, ritenuta propria anche delle antiche basiliche: «Lo spazio paleocristiano e medievale – scrive il professor Richternon si orientava secondo un “avanti” e un “dietro”. La stessa abside era orientata verso la navata e il “luogo di Cristo” era collocato in origine nel mezzo dell'assemblea... proprio quel che la riforma liturgica richiede di nuovo oggi». E, ancora, cita F. Van der Meer che nel 1949 scrive: «Il miracolo della basilica consiste in questo spazio centrale unico, a un tempo pieno e vuoto, dilatato su ogni lato, orientato verso est ma allo stesso tempo aperto allo spazio senza fine che si irradia attorno al piccolo altare». A Santa Sabina, il decoro che segna il mezzo della navata, secondo l'A si riferiva forse al primo altare.
Con tali argomenti è posta in evidenza la tradizione della chiesa come ambiente a carattere eminentemente comunitario: e questa tradizione trova la sua continuazione eminente nella nota Rittersaal, la Sala dei Cavalieri del castello di Rothenfels, dove Romano Guardini volle ricreare l'atmosfera familiare della “sala la piano superiore” del Cenacolo gerosolomitano, “fonte” prima del luogo di celebrazione cristiano.
La descrizione offerta da Debuyst del castello di Rothenfels non si limita al salone che fu organizzato per le celebrazioni liturgiche, ma spazia su tutto l'insieme: il colle, l'ansa del fiume che l'avvolge su un lato, lo spiazzo, le costruzioni attorno al fortilizio, la locanda... Il tutto per mostrare come, lungi dall'essere statico, il luogo è denso di percorsi che preparano le persone all'incontro – agli incontri che vi si svolgevano del Quickborn, il movimento giovanile cattolico del quale Guardini era responsabile.
 
Riferendosi a quelle esperienze, Romano Guardini scrive: «Se il movimento liturgico si è potuto radicare così profondamente tra la gente, questo è dovuto in non piccola parte al modo in cui nel corso di tutto l'anno, nelle feste come negli altri giorni, qui si sono svolte le celebrazioni... Sul piano spirituale e umano sono stati trovati e sperimentati alcuni modi importanti per lavorare assieme».
Tra gli altri esempi cui L'A si riferisce, l'unico italiano è la piccola Cappella della Casa dello studente di Pordenone, progettata nel 1972 da Glauco Gresleri e Silvano Vernier: «uno spazio a un tempo piccolo e immenso, probabilmente lo spaio ideale per la liturgia di gruppo, per la formazione o per il consolidamento di una piccola comunità di base», contrassegnato dalla flessibilità dei camminamenti di ingresso – dall'esterno o dall'interno della Casa dello studente – e dalla efficace individuazione del centro nell'altare.
Infine, intendendo dimostrare che un luogo strutturato per liturgie a carattere comunitario può darsi non solo in forma di cappella per piccoli gruppi omogenei, l'A considera l'esempio del centro parrocchiale di San Lorenzo a Monaco-Gern in Baviera, progettato a metà degli anni '50 da Emil Steffann. Come suole, l'A comincia la sua descrizione dal quartiere in cui si colloca l'edificio parrocchiale, per seguire poi i percorsi che vi conducono e vi si inoltrano.
«Come sempre negli edifici di Steffann, l'ingresso è laterale – scrive Debuyst parlando della chiesa – Esso ci introduce al silenzio e alla penombra di una zona di preparazione, ancora separata dallo spazio centrale con una serie di archi e di pilastri che individuano una nuova soglie e sostengono il grande soffitto in legno...». La disposizione dello spazio consente ai fedeli di disporsi in tre settori su te lati dell'altare e così anche nelle grandi assemblee parrocchiali le persone sono tutte vicine al centro della celebrazione. L'altare quindi non ha bisogno di essere di molto sopraelevato per essere ben visibile da tutti. Il banco dei presbiteri, sul quarto lato e in coincidenza con l'abside, è allo stesso tempo luogo della presidenza e luogo della Parola. Con un linguaggio architettonico semplice ma non privo di una certa monumentalità nasce qui uno spazio liturgico adatto a una comunità parrocchiale, ma allo stesso tempo dotato di una qualità “domestica” e improntato alla chiarezza. Secondo Debuyst, si tratta di una “Rothenfels monacense”.
Avendo impostato così il discorso, l'A segue presentando molti altri esempi che mostrano quanto sia ampia la possibilità di variare del “genius loci cristiano”: in relazione ai siti, alle comunità cui si riferisce, alla storia di cui è portatore.
 
Tra gli altri, presenta il progetto presentato da Alexandre von Branca al concorso svoltosi a metà degli anni Cinquanta per il nuovo santuario di Siracusa, evidenziando di questo il fatto che rispettasse il profilo generale delle case della città e dei vicini siti archeologici, laddove per contrasto vinse e fu realizzato il progetto dei francesi Andrault e Parat: un altissimo cono in cemento armato che con possanza tecnologica domina sull'intorno decisamente staccandosi da tutto il panorama esistente.
Nella parte finale del volume sono descritti diversi monasteri benedettini, considerati tutti quali “luoghi umani e cristiani completi”, sia storici che contemporanei. L'Abbazia di Montecassino, quella di Einsiedeln, i monasteri di Subiaco e di Praglia. E poi quelli nuovi statunitensi di St. John's nel Minnesota (progetto di Marcel Breuer), il priorato di Saint-Louis (Missouri, progetto di Gyo Obata), l'abazia di Portsmouth nel Rhode Island (progetto di Pietro Belluschi), San Procopio a Lisle (progetto Eward Dart), Mount Angel nell'Oregon in cui Alvar Aalto ha progettato una grande biblioteca, luogo importantissimo per la comunità monacale. Il collegio benedettino di Sarnen in Svizzera (progetto Ernst Studer). Il Monastero di Saint-André a Clerlande in Belgio (progetto di Jean Cosse) e diverse altre realizzazioni ecclesiastiche. Di tutte è messa il risalto la coerenza tra edificio, ambiente circostante, e azioni che vi svolgono coloro che abitano il luogo. Dei monasteri mostrando l'immediata corrispondenza tra tempi, modi di vita e azioni dei monaci, e i diversi ambienti in cui queste si esplicano: l'accoglienza, l'ospitalità, il lavoro, la preghiera, la meditazione, il silenzio... ogni fase della giornata corrisponde a una specifica parte dei monasteri che per questo sono “luoghi completi”.
Non solo: i monaci sono committenti che hanno precise richieste e coinvolgono i progettisti così che questi realizzino proprio ciò di cui la comunità ha bisogno. Tra gli esempi citati da Debuyst c'è un'eccezione: il monastero di La Tourette, progettato da Le Corbusier, con camminamenti ben studiati, ma senza realizzare un vero chiostro: «...l'assenza di un passaggio “meditativo” sembra aver tolto a La Tourette qualcosa della forte interiorità di cui il monastero aveva bisogno... se uno studioso potrebbe trovare qui il uso habitat, un benedettino o un trappista, che sempre necessitano di un luogo di vita “completo”, non lo troverebbe».
15/01/2013
Debuyst parla la lingua della semplicità. Chi si inoltra nella lettura vi trova facilmente quell'atmosfera di silenzio e di rispetto che è tipica dei monasteri. Nella conclusione del volume è presentata l'esperienza di un gruppo di persone che decidono di acquistare un ampio appezzamento di bosco in Francia per dar luogo a un'esperienza di vita comunitaria, alla ricerca della agostiniana Città di Dio. Perché il “genius loci cristiano” da Debuyst ravvisato nei luoghi che sono stati importanti nella sua vita di monaco, nasce a seguito di una esperienza fondante che parte dal cuore della comunità cristiana per diventare quindi ambiente costruito. E, in quanto ambiente costruito, è importante perché fa memoria ed è disposto a ospitare quella comunità orante. Così nel volume non si trovano indicazioni di carattere tipologico, architettonico o stilistico, ma anzitutto il racconto di un cammino di vita riflesso in luoghi che, nell'esperienza dell'A., hanno dimostrato di saperla accogliere. Gli esempi scelti riguardano diversi luoghi storici e certuni altri più recenti, in prevalenza costruiti negli anni di poco precedenti il Concilio, o di poco successivi. Sarebbe riduttivo considerare questo scritto, che forse è il più articolato e allo stesso tempo condensato della vasta produzione di Debuyst, come focalizzato sulla questione della sistemazione liturgica all'interno degli spazi di culto. Egli infatti, con grande semplicità, qui tenta di indicare un cammino per considerare le caratteristiche di fondo della “cittadella” della fede cristiana entro la città contemporanea. Non un solo luogo, ma una varietà di luoghi nei quali l'essere umano possa incontrare quella pace dello spirito che lo mette nelle condizioni migliori per porsi nell'atteggiamento orante. Se un giorno si potrà mai supporre di indicare un cammino per disporsi verso il progetto di luoghi adatti all'esercizio della fede cristiana, così come il Concilio di Nicea II ha indicato un cammino per la scrittura delle icone, forse questo scritto di Debuyst potrebbe essere preso in considerazione come motivo di ispirazione: per la qualità sobria e rispettosa che lo caratterizza, lontana dai fastosi paludamenti accademici, vicina a un'autentica intensità di vita.
 
 
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