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 News - Archivio - 2016 - Aprile - Perché abitare i social network 
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Perché abitare i social network   versione testuale

Oltre due milioni di follower in pochi giorni: l’apertura del suo profilo su Instagram non poteva essere salutata da un successo maggiore. Dal 19 marzo – terzo anniversario d’inizio del pontificato – il Papa è presente sul social network per la condivisione delle foto, che si aggiunge a Twitter (dove gli utenti che seguono i messaggi di Francesco nelle varie lingue si avvicinano ai 28 milioni) e al canale vaticano su You-Tube, consentendo così al messaggio del Papa di raggiungere una comunità virtuale dai numeri imponenti, il profilo prevalentemente giovanile e un’estensione grande quanto il mondo.
È il continente digitale, come nota monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede: «È stato Benedetto XVI a parlare di nuovo continente, nuovo tempo, nuovi nativi, nuova cultura che richiama l’epoca apostolica – spiega –. La Chiesa per essere fedele al mandato di Cristo vuole scoprire, comprendere e vivere la cultura digitale per farsi prossima, campagna di viaggio degli uomini e delle donne di oggi». Rischi? «Non mancano, certo: penso alla povertà del linguaggio, all’enfatizzazione dell’aspetto emotivo, alla volatilità del messaggio, ma non ne siamo esenti neppure nella cultura tradizionale». I social network possono destare qualche timore per chi vuole rendervi presente la voce della Chiesa (una parrocchia, un gruppo, un’iniziativa...), ma «la paura – avverte Viganò non è buona compagna per il cuore di chi desidera essere sale e lievito nel mondo». A chi gli chiede suggerimenti sulle condizioni per essere presenti sulle reti sociali il responsabile vaticano per la comunicazione risponde che «l’uomo, come ricordava Giovanni Paolo II, è la prima e fondamentale via della Chiesa. L’uomo concreto, con la sua libertà, coscienza, intelligenza, cultura. Gli uomini di oggi abitano anche nel mondo digitale insieme a uomini e donne di ogni latitudine, cultura e lingua. Dunque la Chiesa non può sottrarsi, non può rifuggire dal mondo concreto dove vivono le persone a cui annunciare il Vangelo. I peccati infatti sono anche quelli di omissione, di non fare ciò che invece dovremmo fare. Ecco perché essere presenti». Ma ad alcune condizioni: «Anzitutto non edulcorare il messaggio di Cristo attraverso l’uso di retoriche seducenti per conquistare più followers. Sappiamo che il Vangelo pretende una presa di posizione nella vita reale come in quella digitale. Inoltre essere presenti sulle reti sociali chiede una competenza circa lo specifico linguaggio: nessuno può avere la presunzione che il ruolo dia competenze, ma tutti dobbiamo intraprendere la strada di imparare insieme. Da ultimo non bisogna aver paura perché, come dice papa Francesco, meglio una Chiesa incidentata che ingessata e chiusa in sagrestia».
Dunque, occorre concentrarsi sull’essenziale: il messaggio che si vuole diffondere. «La Chiesa esiste in riferimento a Gesù – chiarisce Viganò –, indica Lui, annuncia il suo messaggio e accompagna, testimoniandolo, le persone all’incontro personale con il Salvatore. L’iper-comunicazione sottrae la qualità dell’ascolto e l’iper-informazione quella del senso. La Chiesa interattiva, social, digitale è chiamata a essere, come diceva Paolo VI, maestra di umanità, deve riqualificare l’ascolto, apprendere la grammatica del discernimento e accompagnare l’umano all’incontro con il Vangelo. Ogni volta che la Chiesa perderà l’occasione di versare olio di consolazione sulla ferita anche implicita di un uomo o di una donna avrà commesso un peccato di omissione».
Ma a che punto di consapevolezza si trova oggi la Chiesa a livello di base sul dilagante fenomeno delle reti sociali? «Innanzitutto un parroco, una comunità e una realtà ecclesiale oggi, nel 2016, dovrebbero essere a conoscenza dell’esistenza dei social network, e questo non è affatto scontato – è il parere di Carlo Meneghetti, teologo della comunicazione, docente all’Istituto universitario salesiano di Venezia e autore del recente Basta un clic, che affronta il rapporto tra Chiesa e social media –. Una caratteristica comune della comunicazione che può 'essere cucita' su un parroco, una comunità, una realtà ecclesiale, la riprendo da uno dei cinque verbi proposti per il Convegno ecclesiale di Firenze 2015: abitare. La comunicazione attraverso i social network va abitata. Anzitutto significa esserci. Una comunità potrebbe far tesoro dei social network partendo dagli aspetti pratici: pensiamo all’utilità degli avvisi parrocchiali in rete, alla minor fatica nel condividere le notizie o alla condivisione dei momenti vissuti assieme attraverso video, foto o post. Alcune realtà ecclesiali stanno personalizzando efficacemente questo modo di 'abitare' la comunicazione digitale». A un osservatore come Meneghetti non sfuggono gli errori più ricorrenti, «principalmente due: la mancanza di percorsi formativi rivolti agli adulti e l’identificare i social network come portatori patologici di dipendenza. Si investe – abbastanza – nella formazione dei più giovani lasciando però gli adulti in una sorta di fai-da-te: l’effetto è la non consapevolezza di rischi, potenzialità e opportunità. Guardare solo il lato negativo della rete non porta a soluzioni tangibili». L’antidoto a forme di dipendenza tanto temute è «la virtù del 'farsi dono' nella comunicazione. Quando nella relazione a tu per tu incontro il mio prossimo scambio e cambio: ebbene, lo stesso avviene in rete. Mentre chatto, scrivo post, condivido foto, video o link io dono idee, valori, emozioni: dono me stesso, abito il mondo digitale come abito il mondo non digitale... Ma oggi quanto grande è questa differenza?».

Francesco Ognibene