«Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo»  - Parola di Dio - 7 maggio - IV domenica di Pasqua 

7 maggio
IV domenica di Pasqua   versione testuale

Parola di Dio
At 2,14a.36-41 Dio lo ha costituito Signore e Cristo.
Sal 22 Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
1Pt 2,20b-25 Siete stati ricondotti al pastore delle vostre anime.
Canto al Vangelo (Gv 10,14) Alleluia, alleluia. Io sono il buon pastore, dice il Signore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Alleluia.
Gv 10,1-10 Io sono la porta delle pecore.
 
Una promessa per tutti
Nell’incendio di Pentecoste la parola rovente di Pietro mostra il dinamismo trasformante della potenza dello Spirito e l’inizio della purificazione della mentalità particolarista che considerava Israele il solo beneficiario della promessa di salvezza. Pietro comunica alla «casa di Israele» che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso. Il Messia tanto atteso è giunto, ma non è stato riconosciuto, anzi è stato rigettato ed eliminato con la morte riservata ai peggiori tra i malfattori. Questo annuncio non lascia indifferenti gli astanti, ma li tocca e li interpella, trafiggendone il cuore. Da questo annuncio non si può più prescindere. Per questo emerge la domanda che dice il riconoscimento della colpa, la volontà di cambiamento, la sete di vita nuova: «Che cosa dobbiamo fare?». La domanda è diretta non solo a Pietro, ma al gruppo degli Undici di cui egli si fa portavoce. La speranza di una possibilità nuova esiste sempre e sgorga da un desiderio autentico di cambiamento e di superamento di tutti quei pensieri che danno la morte. La morte è vinta mediante l’immersione nella vita stessa di Cristo che accade nel battesimo. Rivestendosi di Cristo, si riceve il perdono dei peccati e l’effusione dello Spirito. Ciò che le parole profetiche avevano annunciato ora si compie per mezzo di Cristo che attualizza la promessa di vita in esse racchiusa: la promessa vuole attraversare le generazioni, passando di padre in figlio e di madre in figlia, ma anche travalicare i confini di Israele per raggiungere i lontani. Pietro annuncia una salvezza universale, perché Dio non fa differenze tra le persone ma desidera chiamare tanti, tutti. Il dono della vita nuova in Cristo diventa calamita, forza attrattiva che rafforza la comunità, la nutre e la fa crescere.
 
Il pastore
Il Vangelo di Giovanni presenta una delle immagini privilegiate con cui Dio viene presentato nella Scrittura: Dio è il pastore di Israele, o meglio, come recita l’orante, è colui al quale si può indirizzare l’espressione «mio pastore». Non un pastore generico, dunque, ma un pastore conosciuto, amato, insostituibile, tanto da far parte della propria vita. «Mio» non perché se ne possa disporre a proprio piacimento o piegarlo alle proprie richieste o logiche, ma in virtù di un rapporto intimo, familiare, qualificato dalla categoria dell’amore. Dio non è geloso della sua pastoralità, ma la condivide con la creatura umana. I padri e le madri di Israele sono infatti pastori di bestiame minuto (pecore e capre), vivono sotto le tende e si spostano in base alle esigenze del gregge. Ammaestrati dalla loro esperienza, comprendono che Dio si comporta con loro come il migliore dei pastori. Non una semplice guida, ma il compagno di viaggio che condivide tutto con il suo gregge. Per questo il simbolismo pastorale impiegato per parlare di Dio veicola l’accusa rivolta a re, politici, guide del popolo, che anziché agire da “pastori” si comportano da ladri e mercenari. Diversamente dai sovrani terreni, spesso insensibili e approfittatori, Dio si fa conoscere come un pastore giusto, attento alle pecore, specie le più deboli, e un vero compagno di viaggio capace di spianare la strada, rimuovere gli ostacoli e scegliere i pascoli migliori. Gesù allora impiega l’immagine del pastore per parlare di sé e per offrire ai suoi interlocutori i criteri di discernimento utili a riconoscerlo. Egli è un pastore che chiama le sue pecore, ciascuna per nome, segno di una cura che non le rende una massa indistinta ai suoi occhi, ma una comunione di volti, dove ognuno ha la sua specificità. Gesù chiama e la sua voce ha il potere di condurre fuori. Non si tratta di una parola qualunque, ma della stessa parola creativa e performativa che ha estratto il mondo dal nulla e ha chiamato tutto all’esistenza. Gesù chiama e le pecore rispondono ascoltando questa voce che le convoca alla vita, che le fa essere. Il suo rapporto con il gregge si qualifica dunque attraverso la categoria dell’ascolto, cuore pulsante dell’alleanza. Ascoltare è sinonimo di fiducia, di obbedienza, di disponibilità alla sequela che passa dalla conoscenza. Le pecore conoscono la voce del loro pastore e lo seguono. È possibile seguire solo chi è degno di fede, solo chi si ama. Proprio come accade nella poesia che impregna il Cantico dei cantici, dove l’innamorata riconosce i passi dell’amato, e segue le sue tracce intercettando le orme del suo gregge. Ascolto, conoscenza e sequela sono la triade che qualifica il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli, un rapporto d’intimità e di amore.
 
La porta della vita
Gesù coglie le difficoltà del pensiero umano che fatica a stargli dietro perché ingabbiato nelle proprie logiche asfittiche o nella ricerca di categorie vecchie per definire il nuovo. Per questo introduce una nuova immagine: «io sono la porta delle pecore». Se l’immagine del pastore mette l’accento sulla cura e sulla premura che egli manifesta ai suoi, l’immagine della porta mostra la sua novità e un forte impatto visivo. La porta è ciò che si attraversa. Si attraversa qualcosa, un luogo, uno spazio, non una persona. Gesù si presenta invece come lo spazio dell’attraversamento delle pecore. Quanti si sono spacciati per pastori prima di lui si sono rivelati in realtà ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Le pecore hanno riconosciuto solo Gesù che si è fatto pastore, ma anche via di transito per accedere alla vita in pienezza. Il ladro si distingue perché il suo obiettivo è prendere per sé, mentre Gesù viene per donare; il ladro viene per togliere la vita, Gesù per donarla e donarla senza misura.
 
Il pastore che custodisce le anime
Gesù ottiene la piena fiducia delle pecore, assetate di vita piena che a lui desiderano andare e attraverso di lui passare. Per questo l’apostolo Pietro invita i credenti a non lasciarsi spaventare dalla sofferenza, ma a viverla come Cristo l’ha vissuta, facendo di lui l’esempio da seguire, senza remora alcuna. La via della vita è mettere i propri piedi nelle sue orme, rigettando il peccato, l’inganno, l’insulto e la vendetta, e scegliendo la giustizia. L’invito ai credenti della comunità degli albori è a vivere in pienezza la Pasqua, passando dalla schiavitù del peccato al servizio della giustizia, consapevoli che questo passaggio non accade grazie a sforzi o fatiche eroiche ma in virtù della croce di Cristo che nella sua carne ha portato i nostri peccati e che con le sue ferite ci ha guariti. È finito quindi il tempo dell’erranza e della confusione. Ora i credenti hanno una casa dove dimorare, un pastore che possa guidarli, un custode che protegga il tesoro della bellezza restituita con il battesimo.