«Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo»  - Parola di Dio - 28 maggio - Ascensione del Signore  

28 maggio
Ascensione del Signore    versione testuale

(nelle regioni in cui l’Ascensione si celebra il giovedì della VI settimana di Pasqua)
Parola di Dio
At 1,12-14 Erano perseveranti e concordi nella preghiera.
Sal 26 Contemplerò la bontà del Signore nella terra dei viventi; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
1Pt 4,13-16 Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo.
Canto al Vangelo (cf. Gv 14,18) Alleluia, alleluia. Non vi lascerò orfani, dice il Signore, verrò da voi e il vostro cuore si rallegrerà. Alleluia.
Gv 17,1-11a Padre, glorifica il Figlio tuo.
 
Il luogo della memoria
C’è un luogo che accompagna diversi momenti della vita dei Dodici, un luogo dove vivono eventi che superano le loro attese, momenti indimenticabili: il cenacolo, o sala superiore. Si tratta di una stanza che per loro non sarà più un semplice spazio fisico, ma il luogo della memoria per eccellenza. Quelle pareti sono intrise del profumo del dono perché è lì che Gesù si è consegnato ai suoi come pane e come vino e ha preso il posto del servo per dare l’esempio della sua vita consacrata al dono e per conferire al servizio lo statuto dell’espressione più elevata dell’amore. Questo profumo li inebria ancora e li attira in quella sala che diventa il luogo del ritrovo di un gruppo che ormai ha acquisito uno statuto nuovo: quello di famiglia, di famiglia di Gesù. È lo spazio della memoria dove si conserva il ricordo dell’Amore più grande di cui i discepoli hanno fatto personalmente esperienza ed è lo spazio dove rivitalizzare le relazioni fraterne che non sono dettate da carne e sangue, ma basate su vincoli di natura spirituale. Nel luogo del ricordo del dono e della fraternità nuova scaturita dalla Pasqua di Cristo, il gruppo dei Dodici non è più integro. Manca Giuda e si parla degli Undici. È una famiglia nuova, ma che porta il segno di una ferita profonda. Come il corpo del Cristo Risorto che, pur essendo glorioso, presenta i segni dei chiodi. Il fenomeno della dispersione, che aveva interessato alcuni discepoli coinvolti sulle prime a seguire Gesù ma poi scandalizzati e scappati via, tocca anche il gruppo dei Dodici. Giuda si allontana dal cenacolo per non farvi più ritorno e gli Undici scoprono da questa défaillance che vi è una sola realtà capace di superare i limiti, le fragilità e il peccato e di custodire la relazione con Cristo e con i fratelli: la preghiera. È questa l’arma che Gesù consegna: pregando con perseveranza, come se non fossimo in tanti ma uno solo, si vince la solitudine, la tentazione, il sospetto e si apre il cuore alla comunione. La presenza delle donne e di Maria la madre di Gesù intensifica l’esperienza della preghiera. Erano infatti loro ad aver imparato per prime dal Maestro la fedeltà dell’amore e la forza della comunione che vince ogni timore.
 
Una glorificazione reciproca
Nello stesso luogo, dove i discepoli dopo la Pasqua si raduneranno in attesa di essere visitati da quella dynamis che farà di loro degli evangelizzatori intrepidi, Gesù non solo dialoga con i suoi ma anche con il Padre suo. L’ultima parte del discorso di addio si esprime sotto forma di preghiera, di dossologia, dove abbonda il vocabolario della gloria e della glorificazione. La gloria è l’irradiazione luminosa della presenza e della potenza divina e la glorificazione è la dimensione rivelativa della verità divina. La gloria si rivela in tutte quelle prodigiose azioni con cui Dio si è manifestato a favore del suo popolo. Ora questa gloria si rivela nell’atto della consegna del Cristo, nel segno dell’amore più grande che va fino in fondo e si spinge fino all’estremo. Il Figlio si rivolge al Padre, come accade in tutti i momenti più importanti della sua vita e come anche in quelli che sembrano più feriali, quindi come sempre, e riconosce che è giunto il tempo in cui la sua personale ora coincide con il compimento dell’amore. Nella preghiera filiale di Gesù appare la realtà della reciproca glorificazione tra Padre e Figlio, realtà che rivela la solidarietà di entrambi nel rivelarsi a vicenda e nel rivelare al mondo la verità divina. Glorificandosi a vicenda, il Padre e il Figlio si fanno conoscere agli uomini e mostrano ad essi l’intima connessione esistente tra la loro condizione creaturale e la loro vocazione divina. Il Figlio ha ricevuto dal Padre i suoi pieni poteri non per sottomettere le creature umane ma per dare loro la vita eterna. La gloria di Cristo non è dunque come la gloria umana, che rimanda alla fama e a un potere che il più delle volte sottomette, ma è comunicazione di vita che passa dal dono di sé. Conoscere il Padre che è «l’unico vero Dio» e il Figlio che è il suo inviato è avere accesso alla vita senza fine. Tutta la vita del Figlio è stata consacrata a manifestare il Padre, facendo della sua volontà il proprio cibo, e ora il Figlio chiede al Padre di essere glorificato, di poter manifestare in pienezza quella gloria che è apparsa ed è stata intravista dagli uomini nei segni da lui compiuti. Gesù non chiede di fuggire la morte, ma di non restarne prigioniero. Sarà la vittoria sulla morte, sancita dalla risurrezione, a far rifulgere la gloria del Padre, quella che il Figlio aveva prima che il mondo fosse (cf. Gv 1,4) e a far conoscere veramente il Padre e il Figlio.
 
«Sono tuoi»
Nella preghiera filiale di Gesù, in cui è stata messa a fuoco la bellezza della reciprocità Padre-Figlio, appare il motivo della relazione con i suoi discepoli. Il rapporto di Gesù con il Padre include infatti la loro relazione con i discepoli perché la preghiera è il luogo inclusivo per eccellenza. Ai suoi discepoli Gesù ha fatto conoscere il nome del Padre. A loro infatti ha parlato di lui continuamente e ha insegnato a pensare a Dio qualificandolo con il nome così estremamente intimo e familiare di «Padre». Essi a questa rivelazione hanno reagito in modo esemplare: accogliendo il Padre e la sua parola viva, Gesù. I discepoli sono presentati da Gesù come figura compiuta del credente. Accogliendo le sue parole, sono stati in grado di coglierne il respiro divino, il loro tratto performativo di parole che superano l’efficacia di quelle di qualsiasi vocabolario umano e sono capaci di trasformare il mondo. I discepoli hanno creduto alla missione divina di Gesù e la loro fede è per lui un motivo di giubilo e di fierezza che si trasforma presto in intercessione. Se la lode è la forma di preghiera che meglio esprime la sua relazione al Padre, l’intercessione è quella che meglio manifesta il suo desiderio di custodia nei confronti dei suoi discepoli. L’intercessione è lievito nel seno della Trinità, è un addentrarsi nel Padre per sprigionare la forza di un amore capace di raggiungere l’altro laddove si trova e di coprirlo con tenerezza per abbracciarlo e custodirlo. Gesù intercede per i suoi discepoli, consapevole che sono anch’essi un dono dell’amore del Padre, che sono del Padre e che gli appartengono in forza di quel dinamismo comunionale del dono totale del Padre al Figlio e del Figlio al Padre. Come la croce, anche i discepoli sono il luogo rivelativo dell’amore del Figlio. Essi sono “la carne della sua carne”, il segno concreto dell’amore con cui Gesù ha plasmato e cesellato i loro cuori, sono l’impronta del suo passaggio sulla terra. Per questo, avendoli ricevuti dalle mani del Padre come dono prezioso, li riconsegna in queste stesse mani sicure, nelle quali consegnerà anche sé stesso.
 
Beati… perché lo Spirito della gloria riposa su di voi
Se è vero che il mistero di Cristo è fortemente segnato dalla prova e dalla sofferenza, tanto da poter far disperdere la comunità dei discepoli e la comunità dei credenti di ogni tempo, è anche vero che questo mistero è circonfuso di gloria. La croce non si può mai staccare dalla risurrezione. Il mistero della Pasqua di Cristo ci mostra l’interconnessione tra sofferenza e gloria, tra morte e vita. La vita presenta sofferenze legate ai peccati che commettiamo, e queste possono essere evitate, oppure legate alla nostra fede o appartenenza a Cristo, e queste vanno accolte con gioia e motivo di beatitudine. La persecuzione che si riceve a motivo del nome di Cristo non esprime l’abbandono da parte di Dio, ma la presenza dello Spirito della gloria. Non si tratta di trionfalismo, ma della missione ecclesiale racchiusa nel martirio della fedeltà.


Parola di Dio
At 1,1-11 Fu elevato in alto sotto i loro occhi.
Sal 46 Ascende il Signore tra canti di gioia; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
Ef 1,17-23 Lo fece sedere alla sua destra nei cieli.
Canto al Vangelo (Mt 28,19.20) Alleluia, alleluia. Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Alleluia.
Mt 28,16-20 A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.
 
Testimoni missionari
Il libro degli Atti degli Apostoli si apre con un forte richiamo al Vangelo di Luca, dove è stato trattato «tutto quello che Gesù fece dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo», e poi passa a descrivere quel prezioso tempo supplementare di quaranta giorni caratterizzato dalle apparizioni del Risorto che continua a parlare del regno di Dio. Queste apparizioni non sono visioni o manifestazioni di fantasmi, ma incontri autentici con una persona, o meglio con il Vivente. Le apparizioni hanno una finalità specifica: appartengono alla pedagogia divina di formare gli apostoli ad essere i discepoli del Risorto, in un tempo simbolico che rimanda a un tempo utile alla crescita e alla maturazione. Il Risorto, che predilige gli ambiti conviviali, fa come sempre della mensa il luogo della consegna di perle preziose. Ed è stando ancora ad una mensa che sottolinea il realismo corporeo della sua risurrezione, e invita gli apostoli a restare a Gerusalemme in attesa che si compia la promessa del Padre: il battesimo o l’effusione dello Spirito Santo. Il tema dell’effusione dello Spirito scatena la domanda degli apostoli, ancora attaccati a visioni vecchie e stantie, che immediatamente lo associano, come accade nella tradizione apocalittica, all’inaugurazione del regno messianico in Israele tanto da sentirsi autorizzati a chiedere la data precisa del compiersi di questi eventi che rimandano agli «ultimi tempi». Il Risorto però non cede all’ansia del tempo e chiede agli apostoli di purificare la loro idea della rinascita di un rinnovato regno davidico e di fidarsi dell’opera del Padre, attendendo la dynamis dello Spirito e investendosi in una testimonianza missionaria capace di irradiarsi con forza da Gerusalemme per travalicare i confini di Israele e raggiungere le periferie del mondo.
 
Verrà
Al dialogo con gli apostoli segue la dipartita di Gesù. Il Risorto viene «elevato in alto» e questo movimento esistenziale è quello che segue all’abbassamento e all’umiliazione della passione e della morte di croce, secondo lo schema che Paolo ci consegna nello splendido elogio che tesse a Cristo nella Lettera ai credenti di Filippi (Fil 2,5-11). Il movimento è accompagnato dalla presenza di un segno squisitamente teofanico: la nube. Essa ricorda il momento della trasfigurazione di Gesù, dell’incontro tra Myriam di Nazaret e il messo celeste, ma anche la nube della divina presenza che precedeva il popolo di Israele durante il suo pellegrinaggio nel deserto. Il salire di Gesù in tal mondo non viene presentato come un viaggio verso le stelle, ma come l’ingresso nel mistero di Dio, che rimanda a un’altra dimensione dell’essere. Non si tratta di uno spazio cosmico, un’area precisa del cielo dove Dio erige il suo trono. L’assunzione di Gesù al cielo è un’espressione umana per dire la sua realtà divina: il suo partecipare cioè pienamente e attivamente alla sovranità di Dio su ogni spazio. In tal modo il Risorto non si trasferisce in un luogo ma, in forza della sua superiorità su ogni ristrettezza e limite spazio-temporale, può essere sempre presente. Il suo andarsene diventa così un venire, come attestano i due messaggeri celesti che interpretano la partenza di Gesù. Questo andarsene inaugura non un tempo di assenza, ma di presenza, come ricorda il termine parousia.
 
Discepoli che fanno altri discepoli
Il Vangelo di Matteo si conclude con una pagina di grande commozione. Il Risorto dà appuntamento ai suoi discepoli in Galilea, dove aveva cominciato la sua predicazione intercettando gli abitanti delle periferie, e su un monte, dove aveva fatto risuonare ampiamente la sua parola di sapienza e il messaggio della vicinanza del Padre agli ultimi. Gli Undici, che portano con loro i segni della colluttazione violenta con la prova di Gesù (tanto che se n’è perso uno!), non mancano all’appello e ritrovano il Maestro. Alla vista del Risorto si prostrano come solo gli adoratori sanno fare, ma malgrado il moto del corpo, il cuore è ancora convalescente e infettato dal virus del dubbio. Nonostante la loro fatica, il Risorto li considera interlocutori credibili. Al dubbio dei discepoli Gesù risponde con la manifestazione incondizionata della fiducia. A questi uomini ancora paralizzati dalla paura, egli partecipa i doni del Padre suo, in particolare la propria autorità, in forza della quale sono inviati per conto della Trinità. La loro missione non consiste nel conquistare il mondo, ma nel consacrare la loro vita di discepoli perché ogni uomo e ogni donna diventino a loro volta discepoli del Signore, creature rinnovate dalla grazia battesimale. I missionari non sono padroni o maestri degli altri, ma servitori di una Parola umile perché non s’impone e non fa violenza e che al tempo stesso è efficace perché ha il potere di cambiare la propria storia personale e quella del mondo. Essi non sono forti di mezzi o capacità proprie, ma della comunione con il Maestro, quell’Io-con-te che mai si disconnette dalla relazione con i suoi, ma sempre la cura e la rivitalizza.
 
Un tesoro di eredità
Nessuno può lasciarsi inviare senza poter intuire almeno un po’ la portata della missione che gli è stata affidata. Se non la si comprende, si corre il rischio di essere missionari scontenti che intralciano la missione piuttosto che favorirla. La tradizione paolina riflette su questo e scopre l’importanza di chiedere al Padre lo «spirito di sapienza e di rivelazione», perché gli occhi del cuore siano illuminati e vedano che cosa è in gioco nel dono della propria chiamata e della propria missione. La risurrezione di Cristo ha manifestato la consistenza dell’eredità riservata ai credenti, il «tesoro di gloria» ivi racchiuso. Tale eredità non si può comparare a quella umana che è del tutto peritura e transitoria. L’eredità divina non custodisce in sé delle cose, ma tutta la potenza divina. La sovranità di Cristo su ogni realtà temporale e atemporale, manifestata con la sua risurrezione e la sua ascensione al Cielo, non è qualcosa che egli ha trattato come un possesso privato del quale essere geloso, ma come una realtà da condividere. Questa piena e amorevole condivisione il Cristo Signore la sperimenta con quella realtà che egli ha fortemente voluto, chiamato, salvato e rigenerato e che egli stima come suo corpo: la Chiesa, la comunità dove è possibile partecipare sacramentalmente alla pienezza di lui perché in essa continua a battere il suo cuore e tramite essa egli continua a irradiare l’amore misericordioso e tenero del Padre.