2 aprile
Giovedì Santo   versione testuale

Colletta
O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la santa Cena nella quale il tuo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa’ che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita. Per il nostro Signore...

Liturgia della Parola
Es 12,1-8.11-14 Prescrizioni per la cena pasquale.
Sal 115 Il tuo calice, Signore, è dono di salvezza.
1 Cor 11,23-26 Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore.
Canto al Vangelo  (Gv 13,34) Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Gv 13,1-15 Li amò sino alla fine.

In breve
L’uomo vecchio è prigioniero e schiavo di se stesso. Anche chi crede di dominare gli altri, può farlo solo a prezzo di trasformarsi in dittatore. Nella lettura dell’Esodo abbiamo il grande annuncio della liberazione, profezia di un nuovo popolo, che diventa figura di una umanità rinnovata. Gli Israeliti sono liberati dalla schiavitù dell’Egitto per restare liberi, per diventare comunità di coloro che non vivono solo per produrre, guadagnare, accaparrarsi, ma che sanno condividere e donare. Gesù realizza il vero, nuovo Esodo, perché non si limita alla liberazione dalla schiavitù esteriore, ma compie in maniera definitiva la purificazione dal peccato. Pietro vorrebbe una liberazione senza purificazione; ma proprio in tal modo si esclude dalla relazione con Gesù. Partecipare è più importante che fare. Paolo esorta i Corinti a continuare a celebrare il mistero del corpo e sangue di Cristo, per vivere di esso.

La memoria della liberazione
La prima lettura costituisce il sottofondo profetico della celebrazione. Dio libera il suo popolo perché possa restare nella libertà, camminando verso la Terra Promessa, e abitandola senza ricadere nella schiavitù. Libertà e celebrazione sono strettamente congiunte: l’evento della liberazione è legato al rito sacrificale dell’agnello, che identifica coloro che accettano di essere salvati da Dio ed escono perciò dalla spirale della violenza. Lo stesso rito permette di ricordare, fare memoria, permanere nella libertà.
 
Celebrando la cena pasquale gli Israeliti ricorderanno di essere stati schiavi e di essere stati liberati; ricorderanno che la loro vita dipende da Dio; offrendo uno dei primi nati del gregge, riconosceranno che tutta la loro vita deriva dal Dio che continuamente li salva dalla morte; associandosi con il povero e il bisognoso, impareranno a sostituire la mentalità del possesso e dell’indifferenza con la pratica della solidarietà e della fraternità.

Il compimento della liberazione
Il dramma storico di Israele è la mai completa assimilazione della liberazione voluta da Dio. Il popolo liberato è continuamente tentato di diventare popolo conquistatore, schiavizzatore. Alla legge della fraternità si sostituisce la prassi della sopraffazione: non si ha più un popolo unito di fratelli, di tribù sorelle, ma si scivola nella tentazione di dividersi in clan rivali, tra ricchi e poveri, tra capi e sudditi. L’esperienza di Israele è la stessa del nostro mondo: dall’aspirazione alla libertà e alla fraternità, si passa, quasi senza accorgersene, alla ricaduta pratica nella schiavitù e alla dittatura dell’indifferenza.

La trasformazione del cuore
Non basta cambiare le strutture: è il cuore, l’intimo delle persone che è chiamato a trasformarsi, per diventare nuovo, e generatore di nuova comunione. La trasformazione del cuore è compiuta da Gesù: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue» (seconda lettura: 1Cor 11,25). Offrendo se stesso egli rinuncia totalmente alla violenza, alla sopraffazione, per affermare lo stile del dono, della gratuità, del perdono. La lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni illumina il senso profondo del dono della vita da parte di Gesù (simbolicamente rappresentato nel deporre le vesti / riprendere le vesti: così in Gv 10, nel discorso del Buon Pastore, si parla di deporre la vita / riprenderla di nuovo).

Spogliazione e partecipazione
Gesù si spoglia di ogni pretesa di potere, e si mette al servizio, lavando i piedi ai discepoli. La valenza del gesto è duplice: è un “segno” che mostra ciò che Gesù sta attuando, in obbedienza al progetto del Padre. Il senso profondo è omologo al gesto sul pane: “questo è il mio corpo, dato per voi”. Ma è anche un gesto di “partecipazione”: i discepoli sono chiamati a restare uniti a  ciò che Gesù sta realizzando. Lasciandosi lavare i piedi da lui, accettano di essere salvati e purificati, rinnovati dall’“acqua viva” del suo amore.

Il rifiuto di Pietro
Forse il rifiuto di Pietro non va inteso solo come incomprensione: ma come una reale, anche se ancora incompleta, intuizione della portata del gesto di Gesù. Per Pietro la liberazione è ancora simile alla liberazione dell’Esodo: sconfitta del nemico, conquista della terra, lotta violenta compiuta nel nome di Dio. Con la differenza che nell’Esodo la vittoria è dovuta a Dio solo; Pietro invece è pronto farsi lui stesso combattente per la causa del Regno (così come lui la intende): “Darò la mia vita per te!” (Gv 13,37). Pietro dunque rifiuta che Gesù debba spogliarsi ed essere umiliato per compiere la “glorificazione” sua e del Padre (Gv 13,31-32). Gesù gli ricorda che la salvezza che si compie, l’uomo nuovo che Pietro è chiamato a diventare, non può compiersi senza questa purificazione, che può essere operata solo da Gesù: “se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8).
 
Avere parte con Gesù
L’Eucaristia che celebriamo ci immette nella novità profonda conquistata da Gesù con la sua vita, versando il suo sangue. Prima di poter pensare di fare qualcosa per lui, siamo invitati ad accogliere ciò che lui fa per noi: nel profondo del nostro intimo, non solo nell’esteriorità delle nostre azioni.