Se Guardini paragonò la liturgia a un gioco, cioè a un momento che sta al di fuori dell'ordinario scorrere del tempo, occorre qualificare tale paragone per inserirlo nella prospettiva specifica della liberazione. Questa si profila a partire dall'Esodo, proprio perché la terra promessa è quella ove Israele potrà servire Dio, esercitandone il culto nel modo in cui Mosè sul Sinai fu istruito a farlo quando si stabilì l'alleanza: «Israele impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto... L'uomo non può farsi da sé il proprio culto, egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra». Ora il culto, rettamente inteso, non solo salva l'uomo, ma coinvolge l'intera realtà nella comunione con Dio. In questa si afferma la dipendenza del creato dal Creatore, e la redenzione è ritorno di quello a Questo e comporta pertanto una circuitazione cosmica.
L'indagine svolta dall'Autore segue il racconto biblico, nella prospettiva evangelica. Il tempio, luogo in cui avviene il sacrificio «
è solo una copia, e non il vero tempio» ed «
è chiaro che il nuovo e definitivo profeta... 'distruggerà' il tempio e di fatto 'cambierà' le leggi date da Mosè». Con Gesù, al posto del tempio di Gerusalemme subentra
il tempio universale del Cristo risorto.
Su questo si innesta il tema della continua
contemporaneità del sacrificio salvifico di Cristo, nel cammino dell'umanità verso il compimento della “Città di Dio”, come questa è descritta da sant'Agostino. In questa prospettiva, passato, presente e futuro si compenetrano e «
toccano l'eternità». Ora, nel procedere dall'ombra all'immagine verso la realtà dell'essere, la liturgia esprime la condizione intermedia del trovarsi in cammino, e questo si manifesta attraverso segni, simboli, ma anche luoghi: la comunità cristiana ha bisogno di un luogo in cui riunirsi nell'incontro liturgico. E tale luogo differisce dai templi delle altre religioni, che sono intesi quali spazi riservati alle divinità. Per il cristiano il culto è celebrato da Cristo stesso nella chiesa, che è
luogo della comunità.
Le sinagoghe, da cui derivano le chiese cristiane, sono disposte secondo una precisa direzione: sono rivolte verso Gerusalemme, là dove nel Tempio sta l'Arca dell'alleanza, di cui la Torà è segno. Prive di caratteri architettonici propri, le sinagoghe sono erette nella forma della basilica: la costruzione tipicamente greca riservata alle riunioni pubbliche.
Nel passaggio dalla sinagoga alla chiesa cristiana si compiono alcune innovazioni: la chiesa non è più rivolta verso Gerusalemme, bensì verso oriente: «
Non si tratta di culto solare, ma è il cosmo che parla di Cristo... L'oriente sostituisce come simbolo il tempio... nell'incarnazione la natura umana è diventata veramente il trono di Dio, che è così legato per sempre alla terra e accessibile alla nostra preghiera». Ovviamente
l'oriente è inteso quale simbolo di Cristo e così il simbolo di Cristo, la croce, diventa elemento ordinatore della direzionalità della chiesa ove il contesto non consente il vero e proprio “orientamento”.
La comunità cristiana radunata nel rito si rivolge verso
l'altare, poiché questo rappresenta un «
ingresso dell'oriente nella comunità radunata e un'uscita della comunità dal carcere di questo mondo» attraverso il velo squarciato del tempio.
Nel passaggio dalla sinagoga alla chiesa cristiana, il luogo della Torà diviene il luogo dei Vangeli, coperto da un velo per sottolinearne la santità. Allo stesso modo anche l'altare è coperto dal velo dal quale nelle chiese orientali si sviluppa l'iconostasi.
Nell'approfondire il tema dello “orientamento”, l'A. discute la generale disposizione della chiesa, evidenziando che la disposizione dell'altare “verso il popolo” generalizzatosi dopo il Concilio Vaticano II, sia in parte frutto di un fraintendimento che deriva da «una nuova idea dell'essenza della liturgia come pasto comunitario». Da un lato, nell'antichità non si solevano celebrare pasti solenni con i commensali raccolti attorno a una mensa, infatti i commensali, spiega Bouyer “...stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma....”. E inoltre, evidenzia l'A. «Il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell'ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale».
Quando la chiesa era costruita “orientata”, era la celebrazione a essere “orientata” con il sacerdote e i fedeli che guardavano assieme verso oriente, ovvero verso l'immagine di Cristo. Il fatto che alcune chiese, come San Pietro in Vaticano, avessero l'ingresso (non l'abside) verso oriente, fece sì che il presbitero celebrasse rivolto verso i fedeli (perché questi si trovavano a oriente dell'altare), mentre nel momento della preghiera tutti, fedeli e sacerdote, si rivolgevano assieme verso oriente.
L'usanza postconciliare ha privilegiato invece il senso del “banchetto” fondandosi sull'idea che fedeli e sacerdote dovessero porsi gli uni di fronte all'altro. Così però il sacerdote «diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione» e questo «dà alla comunità l'aspetto di un tutto chiuso in se stesso».
Le nuove usanze postconciliari hanno giustamente avvicinato il popolo all'altare che «
spesso era troppo lontano dai fedeli» e hanno stabilito una chiara distinzione tra la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. Ma va recuperato il
comune orientamento di sacerdote e fedeli nel momento della preghiera.
Non estraneo al problema dell'organizzazione del luogo di culto, è quello dell'
arte a questo legata, di cui l'A. discute in un capitolo che ripercorre la storia della rappresentazione degli avvenimenti evangelici, ponendo in risalto come dopo il Concilio si sia verificato un «
nuovo iconoclasmo», che se da un lato contribuisce ad allontanare molte opere kitsch e indegne, dall'altro lascia un vuoto: «
L'arte diventa sperimentazione con mondi che si crea da sé, una vuota “creatività” che non percepisce più lo Spirito Creatore...». Alla domanda “come si andrà avanti” Ratzinger risponde con una serie di considerazioni: 1 La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell'Incarnazione di Dio; 2 L'arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della salvezza, a cominciare dalla creazione; 3 Le immagini della storia di Dio con gli uomini non mostrano solo una sequenza di eventi passati, ma sono strettamente collegate all'azione liturgica attuale; 4 Le immagini di Cristo e dei santi non sono “fotografie” poiché devono alludere a qualcosa che supera ciò che è materiale e devono anche «
insegnare un nuovo modo di vedere che percepisce l'invisibile dentro il visibile»; 5 La Chiesa d'Occidente non deve rinunciare al cammino percorso dal momento in cui nel XIII secolo ha accolto un'arte sacra espressa in forme contemporanee, «
deve però far finalmente sue le conclusioni del settimo concilio ecumenico, il Niceno secondo, che ha riconosciuto l'importanza fondamentale e il luogo teologico dell'immagine all'interno della Chiesa».
Nel successivo capitolo, dedicato alla musica liturgica, per la quale l'A. sottolinea l'importanza della parola come «
modalità più elevata di annuncio»,
il rapporto con liturgia e con la fede è riproposto come via perché l'arte dei nostri giorni trovi un riferimento che la nobiliti, strappandola dalla banalità del relativismo.
La parte finale del volume è dedicata al rito. «La grandezza della liturgia si fonda proprio sulla sua non arbitrarietà»: pur non essendo forma rigida, essa non è neppure terreno aperto a interpretazioni soggettive.
Nella liturgia la partecipazione attiva si esplica attraverso il partecipare del fedele al sacrificio di Cristo: «La vera 'azione' della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso». E il segno della croce, che ne esprime l'essenza, è segno cosmico riconosciuto già prima del cristianesimo, per esempio in Platone, quale immagine della divinità: «La croce del Golgota è prefigurata nella struttura stessa del cosmo». È anche segno di benedizione, gesto che dovrebbe tornare a fare pare della vita quotidiana delle persone per «abbeverarla con l'energia dell'amore che proviene dal Signore».
Nell'esaminare gli atteggiamenti legati alla pratica del culto, l'A. propone tra l'altro
una rivalutazione dell'inginocchiarsi, perché l'adorazione non sia intesa in senso solamente “spirituale” senza autentica incarnazione.
E nella rivalutazione dei gesti della fede rientra anche un apprezzamento per la pietà popolare, «humus senza cui la liturgia non può prosperare» (pg. 198): essa va amata, se necessario purificata, ma sempre con grande rispetto.
Nel percorso seguito dal testo, si ravvisa costante l'obiettivo di rendere la liturgia, e tutto ciò che la concerne, alla realtà oggettiva, aliena da soggettivismi. Gli abiti liturgici sono intesi quale espressione fondamentale di questo: essi devono anzitutto manifestare che il sacerdote «non è qui come persona privata, come questo o come quello, ma al posto di un altro – di Cristo».