«Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo»  - Parola di Dio - 30 aprile - III domenica di Pasqua  

30 aprile - III domenica di Pasqua    versione testuale

Parola di Dio
At 2,14a.22-33 Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere.
Sal 15 Mostraci, Signore, il sentiero della vita; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
1Pt 1,17-21 Foste liberati con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia.
Canto al Vangelo (cf. Lc 24,32) Alleluia, alleluia. Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli. Alleluia.
Lc 24,13-35 Lo riconobbero nello spezzare il pane.
 
Una morte depotenziata
A Pentecoste, la parola degli apostoli viene incendiata dal fuoco di Dio e ne assume le proprietà: illumina, scalda e purifica i cuori. Pietro, portavoce del collegio apostolico, prende la parola per presentare al popolo di Israele il contenuto della predicazione apostolica: il mistero pasquale, che contempla la morte e la risurrezione di Gesù. Inizia così a tratteggiare con passione il ministero di Gesù, sottolineando la sua azione terapeutica e taumaturgica e la sua origine divina. Poi ricorre allo «schema di contrasto» con il quale, mentre accusa i Giudei di essere i responsabili della sua morte, presenta il Padre come colui che ha risuscitato il Figlio. Il tono non è accusatorio o polemico, richiama piuttosto la requisitoria profetica. La morte di Gesù, anche se eseguita materialmente dai Giudei attraverso la collaborazione dei Romani, appartiene comunque al piano di Dio. Come pure la risurrezione, evento che viene confermato dall’esperienza pasquale dei discepoli e che era stato prefigurato già nel Salterio, se Pietro legge il Sal 16,8-11 alla luce della Pasqua di Cristo. La carne del Messia non è stata aggredita dalla consunzione della morte ma, fiduciosa e piena di abbandono nel Padre, ha riposato nella morte per depotenziarla e sconfiggerla.
 
Lo Spirito effuso
L’apice della predicazione di Pietro sta nel mostrare che questo stesso Cristo, disprezzato e umiliato dagli uomini tanto da essere inchiodato sul legno di una croce, è stato glorificato dal Padre suo che lo ha sciolto dalle doglie della morte, lo ha risuscitato, lo ha esaltato alla sua destra e gli ha affidato la missione di effondere lo Spirito Santo. Il kerygma apostolico sintetizza tutto il mistero di Cristo e focalizza l’attenzione sulla relazione di intima comunione tra il Padre e il Figlio: il Padre è sempre con il Figlio e tutto ciò che possiede lo comunica a lui. Di questo mistero “eccedente” di amore e di vita che vince la morte, gli apostoli sono non solo dei portavoce, ma anche dei testimoni, uomini che hanno visto e ascoltato, la cui memoria porta non solo i segni della passione del Maestro, ma anche i segni della vita piena che da questo momento in avanti saranno desiderosi di comunicare a chiunque.
 
Intercettare i sentimenti e liberare il dolore
Gli eventi della passione, che nell’arco del ministero pubblico e della salita a Gerusalemme erano stati annunciati a più riprese da Gesù, scandalizzano i discepoli a tal punto che alcuni decidono di mettere una pietra sopra alla loro esperienza di discepolato per ritornare alla vita di un tempo. È il sopravvento dello scoramento che prende quanti si sentono feriti da un’esperienza sulla quale avevano proiettato tante attese ma che poi ha lasciato l’amaro in bocca. Luca ci parla in particolare di due discepoli che non ne possono più del clima di Gerusalemme, troppo saturo di tensione e di dolore, e non vedono altra soluzione che tornare alle “certezze” di un tempo, quando i criteri dell’esistenza erano la ricerca della sicurezza, dei mezzi di sussistenza, il costruire un futuro pieno di benessere. Inizia il viaggio di ritorno, che però non è accompagnato dal silenzio, ma dalla parola che sfida la morte, che vuole aggrapparsi alla vita nonostante la tristezza abbia preso il sopravvento nel cuore. Parlano i due. Parlano di tutto ciò che è accaduto. Forse per riempire un vuoto che pretende di essere incolmabile. Ma la loro parola non resta solo fiato e testimonia che c’è ancora un soffio di vita nel loro cuore indolenzito. Diventa suono e qualcuno la ascolta, la intercetta e la stimola. Uno straniero li ascolta e si avvicina perché possano coinvolgere anche lui nella loro condivisione. Uno straniero, il Risorto, che è lo straniero per eccellenza, li invita a raccontarsi perché possano tirare fuori il loro dolore e consegnarlo. Il racconto infatti permette di dire e di dirsi, o meglio di dire sé stessi parlando di altro. Così accade ai due: quando Gesù rivolge loro la domanda circa il contenuto dei loro discorsi, essi si fermano e mostrano la loro tristezza, che incontra un luogo dove poter essere depositata, consegnata. Essi, come Pietro, offrono una sintesi del ministero di Gesù e della loro sequela segnata dal ritmo della speranza, una speranza che però la crocifissione ha spento del tutto e che i racconti della tomba vuota non sono riusciti ad alimentare.
 
La terapia della parola che scalda il cuore
Dopo averli ascoltati e aver permesso loro di estrarre tutta l’amarezza e il non senso, Gesù prende la parola e inizia a spiegare le Scritture profetiche e a mostrare l’intima connessione tra queste e la sua vita. Egli conferma le parole della Scrittura, mettendone in luce il loro sensus plenior. L’evento Cristo, cioè tutti gli eventi connessi alla sua persona, conferma l’agire salvifico del Dio di Israele nel passato, segno che la sua morte di Croce è la consegna piena di Dio all’uomo e combacia con l’intenzionalità originaria di Dio, di donare all’uomo tutto sé stesso. L’ermeneutica di Gesù esercita un tale fascino sui due che, pur essendo giunti a destinazione, non possono più staccarsi dallo straniero e lo invitano a restare. La sua presenza ha vinto la tristezza e la delusione. Intorno alla mensa, il Risorto compie i gesti della cena e i due lo riconoscono. La fractio panis libera tutta la fragranza del dono di Cristo, che scompare, ma accende nei due il fuoco della fede, con il quale possono scaldare il gelo della vita ed infiammare il mondo. Una volta che gli occhi della fede si sono aperti, Gesù scompare e trasforma il modo della sua presenza tra i suoi. Questa trasformazione determina anche la trasformazione interiore dei discepoli, che passano dall’abbattimento allo slancio, dal bisogno di vedere i segni al desiderio di ascoltare la parola, dall’attesa di un messia foriero di rivoluzione politica o sociale, e capace di spazzare via da Israele ogni presenza ostile, all’accoglienza del dono d’amore di Cristo che spinge a tornare a casa, a Gerusalemme, in mezzo agli altri, nel clima fecondo e gioioso della lode e della comunione.
 
Il sangue prezioso di Cristo
L’apostolo Pietro ammonisce i credenti e li invita a relativizzare le cose della terra, che non hanno lo stesso valore dei beni eterni. La condizione del credente nel mondo è quella dello straniero cha abita in mezzo ad altri, ma senza attaccarsi alle cose. La sua attenzione non deve rivolgersi allo sguardo degli altri, ma a quello di Dio, sguardo che dice l’obiettività e che rimanda alla verità di tutte le cose perché viene da un Padre che è imparziale. Per testimoniare la paternità di Dio, il credente ha solo la via dell’esistenza filiale da imboccare, la via dell’amore che conosce la sua fonte e riconosce la modalità con la quale questo è stato effuso. Il credente sa che la sua libertà è stata conquistata a caro prezzo, non da ciò che è prezioso nel mondo (oro e argento), ma da ciò che è prezioso agli occhi del Padre: il sangue del suo Figlio. Questo sangue libera nella storia umana la potenza del dono e la gratuità con cui il Figlio ha riscattato gli esseri umani. Ciò che l’agnello pasquale non poteva compiere, lo compie quell’agnello «senza difetti e senza macchia», Cristo, che ha guadagnato per tutti una vita nuova.