24 aprile
V domenica di Pasqua    versione testuale

«Tutti sapranno che siete miei discepoli»
 
Letture
At 14,21b-27 Riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro.
La missione compiuta dai discepoli è realizzata a nome di tutti, vissuta in comunione con tutta la Chiesa.
Sal 144 Misericordioso e pietoso è il Signore.
Ap 21,1-5 Essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro.
Dio si lega strettissimamente ad ogni popolo, uno per uno, senza privilegiare un’unica cultura.
Gv 13,31-33a.34-35 Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo.
Vivere la profondità della dimensione affettiva nella relazione con Gesù, rinati dal Battesimo, rigenerati da lui.
 
In breve
Vivere il Giubileo della Misericordia: Amatevi gli uni gli altri
Il comandamento nuovo di Gesù permette di entrare nella dimensione più profonda della misericordia. La novità si può rilevare innanzitutto nella persona di Gesù stesso: la sua persona qualifica l’amore in maniera decisiva. In tutto il mondo si parla di amore: ma chi davvero ama come Gesù? Un secondo elemento di novità è la reciprocità, che non va confusa con un rapporto di dare e avere, ma come un segno della venuta del Regno, un’anticipazione del compimento finale. Quando l’amore donato nel nome di Cristo è ricambiato con la stessa consapevolezza, un anticipo di eternità è presente: ed è da riconoscere come dono del Risorto, di colui che ha inaugurato i tempi nuovi.
 
Prepararsi al Congresso Eucaristico: Il Risorto viene incontro a tutti restituendo vitalità alla vita familiare e affettiva
Il comando che Gesù lascia ai discepoli è anche la missione della Chiesa: siamo chiamati ad amare “come lui ha amato”. Il primo campo su cui siamo chiamati a confrontarci al riguardo è la vita familiare, e la vita affettiva. Tutti provengono da una famiglia; molti sono chiamati a formare una nuova famiglia. In questi ambiti possono esserci ferite profonde e dolorose: il confronto con Cristo Risorto offre un percorso di risanamento. È possibile ricominciare ad amare, riscoprire la figliolanza, la fraternità, la propria responsabilità di padri o madri, che si trasforma con il tempo e con l’età, a volte più rapidamente di quanto si sia disposti ad ammettere. Dall’incontro con Cristo non si riceve una generica capacità di amare: ma la possibilità e lo stimolo a vivere nella concretezza ogni relazione di amore, ricominciando da quelle fondamentali.
 
«Tutti sapranno che siete miei discepoli»
 
Ritorno a Listra
La liturgia della parola odierna è dominata dalle parole fondamentali di Gesù, che consegna ai discepoli il comandamento dell’amore. Ci accostiamo ad esse con grande rispetto e cautela, consapevoli di quanto logorato ed equivoco stia diventando nei nostri tempi il discorso sull’amore. Vediamo, a partire dalla prima lettura, come concretamente nelle prime comunità il comando di Gesù era praticato e quali implicanze conteneva.
La prima scena è il ritorno degli annunciatori del vangelo nelle città dove hanno svolto la loro missione. Vivere da missionari, essere una Chiesa “in uscita” non significa sempre e solo partire: qui si sottolinea la dimensione del “ritorno”, che implica la creazione di un legame stabile, la responsabilità di custodire e rafforzare quel legame, perché coloro che hanno aderito a Cristo non vengano portati via.
Da parte degli apostoli, amare significa dunque assumersi la responsabilità per coloro che hanno creduto: ciò comporta un consolidare la fede ancora fragile e immatura, stabilire un principio di organizzazione comunitaria, con la designazione degli anziani, avvertire delle imminenti persecuzioni. Da parte delle comunità appena fondate, amare significherà certamente essere riconoscenti agli annunciatori, ma soprattutto crescere nel dinamismo interno della carità: Paolo e Barnaba potrebbero essere impossibilitati a tornare, ma il legame fraterno in Cristo è destinato a restare, ed è chiamato a crescere.
 
Ritorno ad Antiochia
Oltre al ritorno nelle nuove comunità, vediamo anche il ritorno alla Chiesa-madre di Antiochia. Là sono stati «affidati alla grazia di Dio» (Atti 14,26): là hanno ricevuto molto, e possono ricevere ancora: ristoro, sostegno, nuovo incoraggiamento. Che cosa possono restituire? Il libro degli Atti ci dice che essi raccontano ciò che è accaduto. Il dono che riportano alla comunità in cui sono cresciuti nella fede è il racconto della loro missione.
 
Ciò che Dio fa per mezzo nostro
In effetti, ciò che è avvenuto percorrendo le varie città dell’Asia minore non è stato opera solo di Paolo e Barnaba, ma è stato compiuto da Dio: è «ciò che Dio aveva fatto per mezzo loro» (Atti 14,27). L’elemento qualificante della carità fraterna che regna nei discepoli (accanto alle persecuzioni) è il continuo e reciproco scambio dei doni di Dio. Più che attraverso oggetti materiali, esso avviene con l’esortazione, il racconto, la comunicazione profonda. Per questo una “Chiesa povera” può essere estremamente ricca della grazia; viceversa, là dove ci si cristallizza a livello di strutture, di mezzi, di risorse materiali, esiste il concreto pericolo che queste ultime prendano il sopravvento, passino in primo piano, oscurando il dinamismo dell’azione dello Spirito.
 
Gli uni gli altri, come Gesù
Gesù ci ha amato non donandoci ricchezze materiali, ma permettendoci di entrare nella carità del Padre. Lo stesso amore deve regnare tra coloro che credono in lui e che si riconoscono nella stessa fraternità. Qui vediamo una certa tensione tra l’assistenza ai bisognosi e la profonda carità fraterna. L’assistenza ai bisognosi richiede inevitabilmente strutture, risorse, sostegno materiale, e non necessariamente è rivolta ai credenti, ai fratelli nella fede: l’ospedale in terra di missione offre le stesse cure ai credenti e ai non credenti; la scuola cristiana, in qualunque paese, offre la stessa possibilità educativa a fanciulli e ragazzi e giovani di ogni cultura e religione; la mensa dei poveri non fa discriminazioni di accoglienza, se non un opportuno vaglio delle disposizioni con cui si accede. In tutte queste azioni si offre una testimonianza di carità, che però non sempre trova una risposta, e che si espone, necessariamente, all’equivoco. La carità fraterna, nel nome di Cristo, anche quando parte dall’aiuto materiale, arriva fino all’annuncio del vangelo, al riconoscimento dell’opera che Dio compie attraverso la sua Chiesa, allo scambio reciproco di ciò che si ha di più prezioso: la Parola di Dio, la carità che lo Spirito accende in noi. La carità fraterna solo apparentemente contraddice il movimento missionario, che spinge ad uscire, ad espandersi, ad allargare l’annuncio; essa chiede di ritornare, di ripercorrere i propri passi, di fermarsi con persone conosciute, di approfondire la relazione: ma proprio nel vivere la carità fraterna, si può dare una testimonianza indispensabile alla missione: «tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,35).
 
Nei legami affettivi e familiari
La carità di Cristo, che ci sospinge a tornare sui nostri passi, a recuperare persone perdute, a ricostruire relazioni interrotte, coinvolge certamente anche tutte le relazioni affettive e familiari. Vivere nell’amore di Cristo è liberante, perché permette di non essere più schiavi di un desiderio di realizzazione di sé attuato unicamente nella sfera emozionale-sessuale. Nella cultura occidentale, segnata dall’individualismo (che non è promozione della persona) e dalla mercificazione dei rapporti, è inevitabile che la ricchezza della vita affettiva tenda ad appiattirsi alla dimensione emotiva, che culmina nell’appropriazione sessuale dell’altro (peraltro il più delle volte condivisa da ambo le parti). Nella proposta di Cristo, che non esclude, per molti, la possibilità di una realizzazione anche sponsale, l’aspetto emozionale e sessuale non è in primo piano, non può essere innalzato come un idolo, ma trova il suo posto nella molteplicità delle relazioni con i fratelli e sorelle nella fede, con ogni persona che viene riconosciuta nel rispetto della sua dignità.

In molti casi, amare nel nome di Cristo significherà ripartire e riscoprire la propria famiglia, e risorgere con lui potrà implicare la risurrezione di rapporti perduti: un padre che ritrova la relazione con il figlio, dopo un’esperienza di chiusura e conflitto, una figlia che ricomincia a parlare con la madre, un matrimonio che ritrova slancio dopo anni di logoramento, rapporti tra fratelli o sorelle che ritrovano linfa vitale, ma anche altre relazioni di parentela interrotta che si riallacciano. Non ci sono particolari costrizioni sociali che impongano una simile riscoperta dei legami (semmai è il contrario): proprio per questo si può trattare di un’esperienza di libertà. Ci potrà essere anche l’esperienza di rapporti che sembrano irrimediabilmente deteriorati; per molte coppie l’esperienza di un fallimento senza possibilità di ricuciture; ma anche nei casi più difficili il comandamento di Gesù porta a scoprire vie nuove, almeno per non lasciarsi divorare dal rancore, per non cadere nell’odio. Certamente, Gesù è anche colui che può chiamare alcuni ad allontanarsi dalla famiglia, a non farla diventare un idolo: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Ma chi è diventato discepolo di Gesù, lasciando tutto dietro di sé, è invitato a riscoprire tutta la ricchezza della carità: compresa quella verso la propria famiglia.