13 aprile
Giovedì Santo   versione testuale

Es 12,1-8.11-14 Prescrizioni per la cena pasquale.
Sal 115 Il tuo calice, Signore, è dono di salvezza.
1Cor 11,23-26 Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore.
Canto al Vangelo (cf. Gv 13,34) Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Gv 13,1-15 Li amò sino alla fine.
 
L’inizio dei mesi
Il libro dell’Esodo ci consegna la memoria dei gesti compiuti dal Signore a favore del suo popolo. Vertice di tali azioni è la Pasqua che l’Esodo consegna come chiave ermeneutica per comprendere quanto è accaduto e quanto accadrà nella storia della salvezza. Nelle prescrizioni rituali offerte per celebrare la Pasqua confluiscono fatti ed esperienze culturali plurisecolari prese in prestito per significare l’intervento salvifico divino: la preparazione dell’agnello pasquale, scelto sulla base di criteri ben precisi, attesta una cultura e un culto di natura pastorizia o seminomade, mentre le erbe amare e il pane azzimo suppongono una cultura agreste e uno stile di vita sedentario. Anche se il testo sembra dire che la Pasqua e la festa degli Azzimi sono nate con l’uscita dell’Egitto, in realtà si tratta di due feste distinte: la Pasqua è una festa annuale di pastori per la prosperità delle greggi ed è di origine pre-israelita; gli Azzimi invece rappresentano una festa agricola che nasce in Canaan e che viene unita alla festa della Pasqua solo dopo la riforma di Giosia. La Pasqua presenta pertanto prescrizioni che trasformano un rito propiziatorio, mediante il quale si auspicava il ritorno della primavera, in un importante memoriale, quello dell’evento decisivo che sancisce per il popolo dell’alleanza il passaggio dalla schiavitù alla libertà. L’«inizio dei mesi» sarà allora il primo mese della primavera, ma anche l’“inizio” di un tempo nuovo, quello del graduale costituirsi di un popolo affrancato dalla tirannia del potere umano e dall’idolatria delle cose e tutto dedito al servizio divino e all’alleanza con lui. Questa è anche la Pasqua cristiana, passaggio dal vivere sotto la tiranna del proprio egoismo per immergersi nell’atmosfera del dono che crea la comunità e la comunione.
 
«Io passerò»
Il libro dell’Esodo afferma che Dio passa per la terra d’Egitto, espressione della piena solidarietà divina con il suo popolo. Il sangue dell’agnello spruzzato sugli stipiti e sull’architrave costituisce un segno di riconoscimento importante e determinante: un «segno in vostro favore», in favore del popolo. Il Signore passa attraversando la notte, segno che Dio è più forte delle tenebre. Il Signore passa salvando i suoi e colpendo chi si atteggia ad aguzzino del suo popolo amato, l’Egitto. Il suo passaggio è dunque segno di contraddizione: libera vita per alcuni, scatena morte per altri. Destino che lo stesso Figlio di Dio incarnerà, stando alle parole profetiche del vecchio Simeone: «egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele» (Lc 2,34). Dove non vi è sangue ci sarà sterminio, dove vi è sangue il Signore passerà oltre, segno della custodia premurosa verso il suo popolo oppresso. Quel sangue che segna gli stipiti delle porte degli ebrei è prefigurazione del sangue di Cristo che sancisce la «nuova alleanza» (1Cor 11,25), destinata a dilatare i confini del popolo eletto e ad abbracciare tutte le nazioni.
 
Amore fino all’estremo
Diversamente dai Sinottici, nel contesto dell’ultima cena, l’evangelista Giovanni non riferisce i gesti rituali di Gesù sul pane e il vino, dati antichissimi attinti dalla tradizione e attestati anche dall’apostolo Paolo in 1Cor 11. Egli richiama invece l’attenzione sul gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi e insegna loro a fare altrettanto. Gesù non comanda di ripetere un rito, ma di fare «come» lui, quasi a dire che ogni gesto di cura e di amore acquista un carattere sacramentale, in quanto manifestazione concreta e visibile dell’amore del Padre in Cristo e dell’amore che i battezzati sperimentano in lui. Giovanni fornisce un accumulo di informazioni e di circostanze che conferiscono solennità al gesto di Gesù: liturgica (siamo prima della Pasqua); teologica (il sopraggiungere dell’ora di Gesù); agapica (il racconto rientra nel dinamismo di un amore inossidabile che non si ritrae neppure davanti al dramma, per crescere fino alla sua piena maturazione); temporale (il riferimento alla cena); drammatica (è ormai prossimo il tradimento da parte di uno degli intimi di Gesù); salvifica (Gesù sa che ha ricevuto tutto dalle mani del Padre) e comunionale (accada quel che accada il Figlio venuto dal Padre proprio al Padre è destinato a tornare). Lavare i piedi per Gesù è il gesto superlativo che mette in atto un’autentica liturgia del prendersi cura che richiede di alzarsi, deporre le vesti, prendere un asciugatoio, cingerselo, versare dell’acqua in un catino, lavare i piedi e asciugarli. Si tratta della manifestazione di un amore che coinvolge tutta la persona che si abbassa persino a toccare i piedi, a incontrare dei corpi che significano la concretezza storica e relazionale di una persona e a tenere tra le proprie mani dei piedi che significano il radicamento di ogni creatura umana nella storia e il suo contatto con la terra. Segno che Dio non disdegna la polvere, la terra, la sporcizia, ma interviene per assumerla. Questo gesto però si colloca sul registro di una kenosi che Simon Pietro non può accettare. Quel gesto compiuto dal Maestro lo mette in imbarazzo, lo scandalizza. Potrà accettarlo solo perché Gesù glielo presenta sotto il segno di una reciprocità che rasserena il discepolo, anzi lo spinge a desiderare un lavacro integrale. Dopo il dialogo segue l’ermeneutica del gesto, la comprensione corretta a cui Gesù vuole far giungere i suoi, provocandoli con la forza di un interrogativo: «Capite quello che ho fatto per voi?». Come non basta leggere per comprendere (cf. At 8,30), così non basta vedere per capire. Il gesto di servizio compiuto da Gesù non intacca la sua signoria, ma è un ypodeigma, un gesto esemplare attraverso il quale egli addita la via maestra di ogni autentico discepolato. In tal modo Gesù insegna che è proprio dell’amore abbassarsi e raggiungere l’altro laddove egli si trova, in una mistica della prossimità che libera le fragranze dell’amore del Padre.
 
Trasmettere
Ascoltando la voce di Paolo che istruisce i credenti di Corinto, scopriamo che il cuore della fede cristiana è proprio il dono totale del Figlio di Dio, la consegna di tutto se stesso al Padre e al mondo, teso tra due amori che egli ha armonizzato nel suo cuore divino-umano. Malgrado il tradimento sia ormai imminente, Gesù non si distoglie dal cuore della sua missione: egli è venuto come dono del Padre, per donare tutto se stesso agli uomini. Lo ha compreso bene Paolo quando ha scoperto che la missione di un credente altro non è che scegliere di farsi «tutto per tutti» (1Cor 9,23). Nel contesto di una cena dove il pane e il vino rappresentano i frutti della terra che nutrono l’uomo, Cristo dichiara di aver scelto di fare del suo corpo e del suo sangue il cibo e la bevanda che sostentano i credenti. Paolo questo lo ha ricevuto grazie alla tradizione che risale a Gesù stesso e ora sa che è chiamato a trasmetterla ai credenti, chiamati a fare memoria di questo dono «finché egli venga». Il credente scopre così il gusto dell’estrema libertà con cui è chiamato ogni giorno a porsi dinanzi al dono di Cristo: tradire svendendolo (come Giuda) o tradere, cioè trasmetterlo investendo per esso le migliori energie (come Paolo e ogni evangelizzatore di ieri e di sempre).