Rinfrancate i vostri cuori. Uomo vecchio crocifisso con Lui (Cf. Rm 6,6) - Domeniche - 22 marzo - V domenica di Quaresima
22 marzo
V domenica di Quaresima
Tintoretto, Crocifissione, 1565, Scuola Grande di S. Rocco, Venezia.
Se l’apostolo Filippo conduce a Cristo alcuni pagani che vogliono vederlo e che chiedono di lui (cf. Gv 12,21), oggi la missione di indicare agli uomini il volto di Cristo è affidata alla comunità dei redenti. Tocca, infatti, al popolo della nuova alleanza farsi annunciatore delle grandi opere di Dio. Così nella prima lettura di quest’ultima domenica di Quaresima si annuncia una nuova alleanza che verrà scritta non più su tavole di pietra, ma nel cuore, da Dio stesso, e che consiste nella conoscenza, cioè nell’esperienza vitale della misericordia divina, del perdono incondizionato del Dio “lento all’ira e grande nell’amore”. L’oracolo del Signore, infatti, assicura che tutti conosceranno Dio, “dal più piccolo al più grande”, e questo perché Dio stesso perdonerà la loro iniquità e non ricorderà più il loro peccato. La conoscenza del Signore, contenuto dell’alleanza scritta nei cuori, si sintetizza pertanto nell’incontro del peccatore con il Dio ricco di misericordia e di perdono. E questo per la semplice ragione che proprio «a causa della fedeltà misericordiosa di Dio non esiste situazione umana che sia assolutamente priva di speranza e di soluzione. Per quanto l’uomo possa cadere in basso, non potrà mai cadere al di sotto della misericordia di Dio» (W. Kasper). La riconciliazione con Dio è il frutto del sacrificio di Cristo, seme caduto in terra che, rimasto solo nel silenzio della morte, ha portato molto frutto (vangelo). Gesù, «pur essendo Figlio, ha imparato l’obbedienza da ciò che ha patito e, reso perfetto, è divenuto causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (cf. Eb 5,8-9). E poiché nessun discepolo è più grande del proprio maestro, allora la Chiesa prega perché tutti «nelle prove della vita partecipiamo intimamente alla sua passione redentrice, per avere la fecondità del seme che muore ed essere accolti come tua messe nel regno dei cieli» (Colletta alternativa). Risuonano ancora oggi, a questo proposito, le parole di Benedetto XVI: «Da quando Gesù è sceso nel sepolcro, la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza, dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza […]. Consegnando la sua esistenza “donata” nelle mani del Padre, Egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita, come il seme nel terreno deve rompersi perché la pianta possa nascere».
La messe prodotta dal seme che muore, Tintoretto ha saputo raffigurarla nella grandiosa scenografia che ha imbastito per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, della seconda parte del ‘500, nel momento in cui ha dipinto la scena della crocifissione di Gesù al termine e come culmine di un ricco programma iconografico. Colpisce, in quest’opera di grandi dimensioni, la figura centrale del Cristo crocifisso che si erge su tutto e che irraggia lo splendore della sua luce su tutti gli astanti e sull’intera scena, in cui domina il gioco di luci e ombre. Saltano all’occhio, immediatamente, anche i numerosi personaggi che, loro malgrado, sono coinvolti in ciò che sta accadendo. Essi sono disposti intorno alla croce in piccoli gruppi e soprattutto sono irresistibilmente attirati – altri sembrano esserne respinti - dalla forza emanata dal Crocifisso. In rapporto a Lui si posizionano nello spazio, prendono vita, si agitano, in una sorta di rappresentazione simultanea che ha il suo epicentro nella croce issata al centro. Tutti, comunque, sono coinvolti nella scena o come protagonisti dell’azione o come spettatori intensamente impegnati a guardare ciò che si sta consumando innanzi ai loro occhi. Lì il seme cade a terra e produce molto frutto perché lì, sulla croce, Cristo opera la riconciliazione del mondo, rivela la sua identità e manifesta il vero volto del Padre. Lì si consuma anche la sua estrema solitudine, il suo abbandono.
Quella croce, infatti, è la massima espressione della solidarietà di Cristo con i peccatori ed è come piantata nella desolazione dell’inferno umano, nella confusione delle lingue e nelle tenebre dei cuori perché possa sorgere, all’orizzonte, nel mondo, il vero sole di giustizia e abbiano finalmente inizio i cieli nuovi e la nuova terra.
Se l’apostolo Filippo conduce a Cristo alcuni pagani che vogliono vederlo e che chiedono di lui (cf. Gv 12,21), oggi la missione di indicare agli uomini il volto di Cristo è affidata alla comunità dei redenti. Tocca, infatti, al popolo della nuova alleanza farsi annunciatore delle grandi opere di Dio. Così nella prima lettura di quest’ultima domenica di Quaresima si annuncia una nuova alleanza che verrà scritta non più su tavole di pietra, ma nel cuore, da Dio stesso, e che consiste nella conoscenza, cioè nell’esperienza vitale della misericordia divina, del perdono incondizionato del Dio “lento all’ira e grande nell’amore”. L’oracolo del Signore, infatti, assicura che tutti conosceranno Dio, “dal più piccolo al più grande”, e questo perché Dio stesso perdonerà la loro iniquità e non ricorderà più il loro peccato. La conoscenza del Signore, contenuto dell’alleanza scritta nei cuori, si sintetizza pertanto nell’incontro del peccatore con il Dio ricco di misericordia e di perdono. E questo per la semplice ragione che proprio «a causa della fedeltà misericordiosa di Dio non esiste situazione umana che sia assolutamente priva di speranza e di soluzione. Per quanto l’uomo possa cadere in basso, non potrà mai cadere al di sotto della misericordia di Dio» (W. Kasper). La riconciliazione con Dio è il frutto del sacrificio di Cristo, seme caduto in terra che, rimasto solo nel silenzio della morte, ha portato molto frutto (vangelo). Gesù, «pur essendo Figlio, ha imparato l’obbedienza da ciò che ha patito e, reso perfetto, è divenuto causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (cf. Eb 5,8-9). E poiché nessun discepolo è più grande del proprio maestro, allora la Chiesa prega perché tutti «nelle prove della vita partecipiamo intimamente alla sua passione redentrice, per avere la fecondità del seme che muore ed essere accolti come tua messe nel regno dei cieli» (Colletta alternativa). Risuonano ancora oggi, a questo proposito, le parole di Benedetto XVI: «Da quando Gesù è sceso nel sepolcro, la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza, dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza […]. Consegnando la sua esistenza “donata” nelle mani del Padre, Egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita, come il seme nel terreno deve rompersi perché la pianta possa nascere».
La messe prodotta dal seme che muore, Tintoretto ha saputo raffigurarla nella grandiosa scenografia che ha imbastito per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, della seconda parte del ‘500, nel momento in cui ha dipinto la scena della crocifissione di Gesù al termine e come culmine di un ricco programma iconografico. Colpisce, in quest’opera di grandi dimensioni, la figura centrale del Cristo crocifisso che si erge su tutto e che irraggia lo splendore della sua luce su tutti gli astanti e sull’intera scena, in cui domina il gioco di luci e ombre. Saltano all’occhio, immediatamente, anche i numerosi personaggi che, loro malgrado, sono coinvolti in ciò che sta accadendo. Essi sono disposti intorno alla croce in piccoli gruppi e soprattutto sono irresistibilmente attirati – altri sembrano esserne respinti - dalla forza emanata dal Crocifisso. In rapporto a Lui si posizionano nello spazio, prendono vita, si agitano, in una sorta di rappresentazione simultanea che ha il suo epicentro nella croce issata al centro. Tutti, comunque, sono coinvolti nella scena o come protagonisti dell’azione o come spettatori intensamente impegnati a guardare ciò che si sta consumando innanzi ai loro occhi. Lì il seme cade a terra e produce molto frutto perché lì, sulla croce, Cristo opera la riconciliazione del mondo, rivela la sua identità e manifesta il vero volto del Padre. Lì si consuma anche la sua estrema solitudine, il suo abbandono.
Quella croce, infatti, è la massima espressione della solidarietà di Cristo con i peccatori ed è come piantata nella desolazione dell’inferno umano, nella confusione delle lingue e nelle tenebre dei cuori perché possa sorgere, all’orizzonte, nel mondo, il vero sole di giustizia e abbiano finalmente inizio i cieli nuovi e la nuova terra.