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Nel ristorante rom che sfida i pregiudizi
A Scampia 3 napoletane e 2 abitanti del vicino campo nomadi hanno aperto un locale che unisce specialità partenopee e balcaniche


(06 luglio 2018) - E a chi parla di censimenti ed espulsioni rispondono: «Qui dimostriamo ogni giorno che l’unica strada per sconfiggere il razzismo passa per la conoscenza e la comprensione reciproca» Il profumo dei friarielli diventa il cuore della versione serba della moussaka. L’aroma di capperi, uvetta e pinoli si mischia a quello dei vermicelli di Scammaro. «Come secondo vanno bene le sarme?» domanda una cuoca dall’accento slavo, mentre mostra ai clienti gli involtini di verza con riso e spezie che ha appena preparato. Siamo nel cuore di Scampia, il quartiere a nord di Napoli tristemente famoso per i palazzoni delle Vele che sono contemporaneamente piazza di spaccio e set di Gomorra, ma anche per la presenza di uno dei campi rom più grandi del Mezzogiorno, quello di Cupa Perillo: 800 abitanti “ufficiali”, almeno 1.000 nella realtà. Proprio qui, nel topograficamente profetico Viale della Resistenza, c’è il ristorante Chiku, dove ogni giorno 5 donne - 2 rom e 3 napoletane - combattono la loro battaglia.
«Resistiamo a luoghi comuni e attacchi privi di fondamento»
Altrove parleremmo di “nuova proposta culinaria” o “interessanti esperimenti di fusion balcano-partenopea” e basta. Qui invece le pretese sono diverse, ma non per questo meno importanti. A sintetizzarle ci pensa con una battuta Malina Aleksic, 43 anni e 4 figli con cittadinanza italiana, abitante del campo rom e una delle titolari del Chiku: «Davanti a un buon piatto, qualsiasi stereotipo vacilla». Questa iniziativa dimostra come anche la cucina può diventare l’avamposto della lotta ai pregiudizi. Almeno così la pensa Emma Ferulano, 35 anni, napoletana doc in azione fra tavoli e fornelli: «Quotidianamente proviamo a dimostrare il contrario di quel che si dica» spiega. «L’unico mondo possibile è quello contaminato, multiculturale, fatto di comunità che si costruiscono chiedendo più diritti». Sotto la scritta in gesso Cosa c’è di meglio di una tavola per sedersi generosamente uno di fronte all’altro, il viavai di piatti e ordinazioni è rapido: il ristorante, aperto a pranzo nei giorni feriali e disponibile su prenotazione la sera e nei weekend, piace e da qualche tempo, in piena tradizione napoletana, si è aperto anche a matrimoni, battesimi e feste per il 18esimo compleanno. Accoglienza e prezzi ragionevoli, oltre a un’offerta che mescola pizza e goulash, mozzarella di bufala e biscotti balcanici, sono la chiave per superare le diffidenze iniziali: «La gente diventa sospettosa quando scopre che ai fornelli ci sono delle rom, ma poi appena inizia a mangiare con gusto le distanze si riducono» confida Malina, arrivata a Napoli dopo essere fuggita dai bombardamenti in Serbia
«Dobbiamo riappropriarci del quartiere»
Nato nel 2014, Chiku ha 2 anime. Da una parte il ristorante, progetto dell’impresa sociale La Kumpania. Dall’altra l’associazione “Chi rom e... chi no”, che si occupa di attività ricreative, eventi culturali e assistenza. «Tutto è iniziato quando facevamo il doposcuola ai bambini del Lotto P» racconta l’avvocato Barbara Pierro, presidente di “Chi rom e... chi no”. «Lavoravamo accanto a quelli che spacciavano o consumavano eroina e ci siamo sempre rivolti sia ai rom sia ai napoletani, indistintamente. Perché l’obiettivo era unico: vivere il quartiere per riappropriarsene e non lasciarlo all’incuria. O peggio, alla camorra». Eppure gli stereotipi sono duri a morire. «La gente ha visto Gomorra in tv e crede di sapere come si vive qui» racconta Rosaria Fele, cuoca 47enne di Chiku. La sua famiglia è una delle molte giunte a Scampia dopo avere perso la casa nel terremoto dell’Irpinia del 1980: 5 anni di container prima dell’assegnazione di un alloggio, le difficoltà di inserimento e quelle di essere donna in un quartiere dove la disoccupazione sfiora il 70% e quella femminile è quasi assoluta. Passato simile anche per l’altra dipendente locale del Chiku, la 43enne Emilia Gemito: «Questo quartiere non è come lo dipingono» attacca. «Ci sono persone perbene. Ma se vivi qui ti tocca specificare sempre che non hai a che fare con il malaffare». Gli stessi pregiudizi, lo stesso nomadismo, fisico e dell’anima. Sarà anche per questo che l’esperimento funziona. «Scampia com’è? Di’ la verità, ti aspettavi di peggio? » mi chiede una ragazzina rom venuta al ristorante per fare i compiti. Da grande vuole diventare una dottoressa. Per il momento è solo una rom abusiva. O forse una delle tante sognatrici abusive di Scampia.
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 06-LUG-18
 

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