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La notizia ha colto tutti di sorpresa, anche se in molti sapevano che era malato da tempo. David Bowie se nè andato in una fredda notte di gennaio, pochi giorni dopo aver dato alle stampe questo suo ultimo album. La recensione che segue è stata scritta nel weekend, quando tutti si pensava daver a che fare, semplicemente, con un grande ritorno discografico. Una stella nera su sfondo bianco capeggia in copertina. Il titolo del ritorno del Duca Bianco è dunque soltanto virtuale, ma di fatto abbiamo a che fare con uno dei dischi più attesi di questo nuovo anno. Il fresco sessantanovenne Bowie mancava allappello da tre anni, ma dai primi ascolti di questa sua nuova avventura in sala dincisione si deduce che non ha perso il gusto né lispirazione, né la voglia di azzardare mettendo ancora in gioco il proprio stile e il proprio mito. Qui giostra con aristocratica nonchalance tra echi jazz e avanguardismi elettronici (in stile Radiohead, per intendersi). Con supporto del noto e fidatissimo producer Tony Visconti apparecchia una sequenza di brani che sembrano più mini-suite sperimentali che canzoni: fregandosene dellappeal commerciale e della fruibilità, ma senza rinunciare a richiamare certi scampoli del suo passato glorioso, dalla trilogia berlinese allo space-rock, dal pop moroderiano al teatro (sta per andare in scena a New York una sua nuova pièce, Lazarus, una sorta di sequel de Luomo che cadde sulla Terra che comprenderà anche frammenti di questo album). Quaranta minuti di suggestioni scure, decadenti e fascinose per questeterno mutante dandy che è giusto considerare ancora fra i maestri del rock contemporaneo. (Franz Coriasco) |
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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 11-GEN-16
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