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Firenze 2015: dall‘accademia alla prassi

Da "Settimana" del 4 gennaio 2015 (pp. 1.16)

«Io avevo già la promessa del papa che sarebbe venuto, ed ero tranquillo. Ma un giorno mi arriva una voce e mi dicono: ?Guardi che il papa all'ultimo momento le dice di no?. Vado in udienza e dico: ?Santità, una voce, sottovoce, mi arriva nelle orecchie e mi dice che vostra santità non ha più intenzione di venire a Loreto?. ?Ma chi glielo ha detto??. ?L'aria che circola?. ?Ma vedremo?. ?No, santità, sono venuto a prendere il suo sì di papa, di un papa che viene a Loreto. Sono pronto ad obbedire ma sappia che, se il papa non viene a Loreto, il convegno non si fa?. ?Ma cosa dice??. ?Glielo ripeto: o esco di qui con il sì solenne della sua venuta. O esco di qui e disdico il convegno (?) Il significato di una sua assenza sarebbe quello di una condanna (?) Me lo dica subito, non perdiamo tempo: sì o no??. (?) ?E va bene, vengo a Loreto?» (A. Ballestrero, Autoritratto di una vita, Roma, 2002).
Basterebbe questo colloquio per dimostrare che la relazione tra papa e Chiesa italiana è sempre stata stretta, necessaria, inevitabile. Il fitto dialogo tra Giovanni Paolo II e l'allora presidente della CEI è occasionato dall'imminente celebrazione del convegno di Loreto (1985) che si rivelerà uno spartiacque rispetto alla presenza della Chiesa nella società italiana.
Si ha così conferma del fatto che simili appuntamenti, che, a ritmo decennale, hanno accompagnato il cammino pastorale, sono pure una cartina al tornasole di uno speciale legame, di un vincolo singolare che non ha l'eguale altrove. Del resto, già in occasione del 1° convegno di Roma (1976) era stato Paolo VI, grazie alla puntuale collaborazione di mons. Bartoletti, a seguire con segreta attenzione il primo raduno generale dei cattolici del Belpaese, che intendevano così tradurre il Vaticano II in lingua italiana. Fu poi Giovanni Paolo II a cambiare i connotati dell'appuntamento di Loreto, dove il suo discorso invertì la prospettiva fino allora coltivata. Si era negli anni ruggenti di quella polemica tra ?mediazione? e ?presenza?, rispettivamente incarnati dall'AC e da CL. La storica associazione dei laici italiani e la nuova esperienza del movimento di don Giussani si contendevano la scena in nome di una differente interpretazione del rapporto Chiesa-mondo. Nel primo caso, si privilegiava un atteggiamento che, a partire dalla cosiddetta ?scelta religiosa?, voleva affrancarsi da una certa ipoteca politica e avviare un confronto con la modernità.1 Nel secondo caso, si riteneva che questa opzione fosse alla fine una capitolazione col rischio di essere assuefatti e resi irrilevanti.2
Di fatto, non è difficile cogliere nella sequenza dei convegni di metà decennio le diverse stagioni del post-concilio, sempre con un riferimento esplicito alla presenza del papa.
Pur consapevole dei limiti di ogni periodizzazione, l'essere il convegno di Firenze collocato alla foce di un cammino così interessante consente di intuire, con uno sguardo retrospettivo, almeno due tornanti. Il primo è quello dei due convegni di Roma e di Loreto; il secondo è relativo ai convegni di Palermo (1995) e di Verona (2006). Se i primi due, fino all'arrivo di Giovanni Paolo II, sono per così dire la tesi, gli altri due ne sono, per certi versi, l'antitesi. Forse è giunto il momento di provare a sperimentare la sintesi, che è quanto ci si attende dagli oltre 2.000 delegati che convergeranno nella città di Dante dal 9 al 13 novembre di quest?anno.

I primi due convegni: una Chiesa in dialogo con la modernità. Negli anni ?70, la Chiesa italiana, uscita dal concilio con consapevolezza, e non senza qualche contestazione, si era dotata di una nuova linea pastorale esposta dapprima in Evangelizzazione e sacramenti (1973) e poi, in modo più organico, nel primo convegno ecclesiale di Roma Evangelizzazione e promozione umana (1976). Si noti che la parola-chiave è sempre la stessa: evangelizzazione appunto. Da qui si intuisce la scelta di campo: abbandonare definitivamente le tentazioni neo-costantiniane di riconquista della società (soprattutto dopo il tragico risveglio a seguito del referendum sul divorzio) e applicare ad una società cambiata in fretta, sotto la pressione del boom economico, uno stile più induttivo, dialogante e di chiara impronta conciliare.
Si cominciano pure a tagliare i ponti da una storica dipendenza politica per concentrarsi sullo specifico ?pastorale? di una comunità che ha una proposta per tutti. Un momento forte si rivela la pubblicazione di un minuscolo documento La Chiesa italiana e le prospettive del paese (1981) che, con largo anticipo, intuisce i guasti di un individualismo e di un radicalismo che avrebbero portato alla crisi morale prima ancora che a quella economica. E si interroga in chiave perfino autocritica quando afferma: «se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza» (13). Non si può negare peraltro una qualche sottovalutazione di quel che stava crescendo sotto traccia nei nuovi movimenti e nelle diverse esperienze ecclesiali. Per correre ai ripari, negli anni ?80, con il programma Comunione e comunità, si cerca di interpretare e di coordinare questa esplosione di protagonismo laicale. Si giunge così a Loreto non senza accesi dibattiti, e la parola decisiva è quella del papa. Delle 18 cartelle del suo discorso nella cittadina marchigiana quella decisiva contiene un passaggio che avrebbe orientato per i successivi 20 anni: «Anche in una società pluralista e parzialmente scristianizzata ? afferma Giovanni Paolo II ? la Chiesa è chiamata ad operare con umile coraggio e piena fiducia nel Signore affinché la fede cristiana abbia o recuperi un ruolo guida e un?efficacia trainante nel cammino verso il futuro». Dopo queste parole nulla sarebbe stato come prima. Anche se si tenta di diluirne la portata, quel che poi sarebbe accaduto dimostra che stava cominciando una nuova stagione.

Gli ultimi due convegni: una Chiesa non subalterna alla modernità. Gli anni ?90, caratterizzati dal programma pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità, si avviano a stretto contatto con una società che comincia ad implodere con Tangentopoli prima e con un nuovo equilibrio politico poi. La CEI, guidata dal card. Ruini, si inserisce in questo clima d'incertezza e spinge verso una forma di presenza ecclesiale più incisiva, organica e strutturata, potendo peraltro cominciare a beneficiare degli effetti del nuovo Concordato che assegna alla Chiesa italiana un ruolo di partner dello stato su molti fronti sensibili. Il lancio del Progetto culturale orientato in senso cristiano, battezzato ufficialmente nel 1994 a Montecassino, suggerisce una convinzione che è pure una scommessa: la fede è tale se diventa cultura, se entra ad ispirare non solo gli individui ma anche le realtà sociali e istituzionali di un paese. Si arriva così al 3° convegno di Palermo (1995), che si interroga sulla carità che non è «soltanto adatta alla patologia», ma anche «alla fisiologia della nostra vita sociale» (card. Saldarini). Il punto è, dunque, quello di non subire ma di orientare lo sviluppo culturale.
Impercettibilmente, il passaggio dall'opzione pastorale a quella culturale si consuma attraverso una serie di eventi che riposizionano l'evangelizzazione che dev?essere ?nuova? non tanto nei suoi contenuti quanto nella sue forme linguistiche. Grande attenzione e investimenti vengono riservati alla comunicazione (cf. Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000: Comunicare il Vangelo in mondo che cambia), perché si ritiene decisivo entrare dentro lo spazio pubblico anche con propri mezzi. Paradossalmente, questa disponibilità ad entrare nell'agone finisce per rendere la Chiesa uno dei soggetti in campo e talora strumentalmente essa viene ridotta a una lobby tra le altre. Il rischio è interpretare la Chiesa come uno dei contendenti, non più super partes. In tal modo, da forza culturale il passo ad essere letti come forza politica ? da parte di commentatori interessati ? si fa breve.
Al 4° convegno di Verona (2006), non a caso, la parola di Benedetto XVI introduce una variazione sul tema della cultura che avrà futuro. Nel suo discorso afferma: «La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano». Come dire: occorre unire insieme cultura e pastorale. Guai a separare queste due dimensioni. «La pastorale senza cultura diventa pastorizia» (G. Lazzati). La cultura senza pastorale si trasforma in religione civile (!).
E così arriviamo quasi ai nostri giorni. La presidenza del card. Bagnasco accentua la dimensione educativa dell'azione ecclesiale con un forte aggancio alla cifra spirituale dell'essere credenti. In questo contesto si inseriscono, all'inizio del 2010, i nuovi Orientamenti dedicati a Educare alla vita buona del Vangelo.
Gradualmente, si coglie una diversa sfumatura nello stile e nella presenza ecclesiale. Più centrati sull'essenziale, ben prima che la politica lo ammetta, si dà voce ad una crisi che è diventata economica dopo essere stata a lungo solo morale. Di qui la necessità di passare attraverso ?la porta stretta? di un impegno personale che precede qualsiasi strategia culturale e pastorale. Si torna a far leva sulla persona che è la leva su cui innestare qualsiasi cambiamento e che richiede una nuova cura delle generazioni.

Il prossimo convegno di Firenze: una Chiesa che cammina nella modernità. ?L'effetto Francesco? è stato dirompente. Di sicuro, il convegno di Firenze sarebbe stato pensato e organizzato diversamente senza quel che è successo dal 13 marzo 2013 in poi. Intanto, la prospettiva con cui guardare alla realtà si è capovolta: dall'alto al basso, da analisi sociologiche a testimonianze di base, dall'accademia alla prassi. Se ne ha immediata percezione nel cosiddetto Invito che, nel suo genere, vuol essere, in primo luogo, una modalità di coinvolgimento ancor prima che l'enunciazione di un tema. E soprattutto nella Traccia appena pubblicata, ai primi di dicembre, che definisce il cammino verso il 5° convegno di Firenze. Il nostro è tempo di gratitudine e di discernimento, non di lamentela e, tantomeno, di sterile denuncia. E la strada da seguire non è quella «di disegnare in astratto i termini e i confini di un nuovo umanesimo». Si tratta invece di «partire dalle testimonianze che sono esperienza vissuta della fede cristiana e che si sono tradotte in spazi di ?vita buona del Vangelo? per la società intera» (mons. Nosiglia). L'Evangelii gaudium di Francesco, che idealmente si collega all'Evangelii nuntiandi di Paolo VI, è la bussola dei prossimi anni. Perché non pensare che Firenze 2015 possa diventare quel terreno di coltura in cui riuscire, a 50 anni dal concilio, ad esprimere una compiuta sintesi del cammino ecclesiale? Incrociando finalmente pastorale e cultura, senza continuare a contrapporle, ma integrandole entro un orizzonte più ampio?
Ne autorizza la speranza l'incipit dell'Evangelii gaudium, che dev?essere ulteriormente metabolizzata perché non è un documento ma un processo. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell'amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c?è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: ?Voi stessi date loro da mangiare?» (EG 49).
 
Domenico Pompili
direttore Ufficio nazionale CEI
per le comunicazioni
 
 
 
Note 
1 «I laici devono essere consci della loro vocazione al servizio della società civile e politica nell'insegna del dialogo e della solidarietà senza contropartita, se non l'amore per la propria patria e la propria terra, luoghi opportuni di missione cristiana per sé e gli altri. Solo così sarà possibile sviluppare una matura ecclesialità che è premessa sicura per un contributo nuovo alla costruzione della comunità con uno spirito di ripresa dei grandi valori della Costituzione» (A. Monticone, ?La Chiesa e il Paese in un cammino di riconciliazione?, in Riconciliazione cristiana e comunità, Atti del convegno ecclesiale (Loreto
1985), Roma 1985, 205-209.
 
2 «Certo, i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa attraversa oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici. In questo contesto si può capire il senso di un movimento come Comunione e liberazione: esso parte dal riconoscimento pieno della crisi a cui la modernità è soggetta e dunque riconosce l'attualità alla ?restaurazione? (nel senso usato da Ratzinger) del cattolicesimo. Al contrario, una parte notevole del mondo cattolico è nella posizione di volersi combinare in qualche modo con la ?modernità?. Ma la combinazione diviene subordinazione» (A. Del Noce, ?Risposte alla scristianità. Il Santo Padre a Loreto?, Il Sabato, 1° giugno 1985).


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 26-GEN-15
 

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