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 OSSERVATORIO GIURIDICO LEGISLATIVO - aree tematiche - Diritti fondamentali della persona - Danno da nascita indesiderata 

Danno da nascita indesiderata   versione testuale
8 febbraio 2016
La Corte di cassazione, Sezioni Unite, con sentenza del 22 dicembre 2015, n. 25767 si è pronunciata sulla questione del risarcimento del danno da nascita indesiderata. La questione riguardava due genitori di una bimba affetta da sindrome di Down che avevano agito contro l’Azienda Sanitaria, il medico ginecologo ed il direttore del laboratorio di analisi, chiedendo il risarcimento del danno da “nascita non desiderata” per non aver potuto scegliere consapevolmente, a seguito degli opportuni accertamenti, di interrompere la gravidanza (dopo i primi 90 giorni).
In materia negli anni scorsi sono emersi nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti contrastanti in ordine alla questione del riparto dell’onere della prova: secondo un primo orientamento più risalente, corrisponde a “regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto”. A questo si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione, ponendo a carico della parte attrice l’onere di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza.
Al riguardo, la Corte ha sottolineato come la gestante, “profana della scienza medica”, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste, senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto. Occorre però – secondo la Corte - che l'interruzione sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Altrimenti, senza il concorso di tali presupposti, l'aborto integrerebbe un reato, con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge. Oltre a ciò, dev'essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti.
Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un fatto complesso e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima.
Nel caso di specie un aspetto particolarmente delicato è costituito proprio dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.  Poiché, però,  del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e diretta, la Cassazione ha affermato che l’onere probatorio può comunque essere assolto “tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare”. La Corte di legittimità ha infatti evidenziato che non si verte in tema di presunzione legale ma della cd. “praesumptio hominis”, prevista dall’art. 2729 c.c., che “consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit … ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc.”.
La Corte ha, poi, esaminato la seconda, più delicata, questione riguardante il diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa. Anche riguardo a tale questione è emerso negli anni scorsi un contrasto giurisprudenziale: alla tesi favorevole faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettività giuridica del concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, causa del proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato.
Al riguardo, la Corte ha affermato che non è “indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica – contro il chiaro dettato dell’art. 1 cod. civ. – per confermare l’astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabili in epoca anteriore alla sua stessa nascita”.  Al fondo di tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto. La Corte di cassazione ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che l'esclusione del diritto al risarcimento possa affermarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita. Ed ha concluso che, una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento. Alla tutela del nascituro si può pervenire senza postularne la soggettività - che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi - bensì considerandolo oggetto di tutela.
Nonostante l’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto del figlio handicappato, il supposto interesse a non nascere, “mette in scacco il concetto stesso di danno”. Infatti di esso “si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità)”. Inoltre,  l’ordinamento non riconosce “il diritto alla non vita”, che è cosa diversa dal c.c. diritto di staccare la spina, che presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). “L’accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace”.
Non si può, poi, invocare il “diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole”. Al riguardo la Corte ha affermato che non si può pretendere “di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni – progressivamente più restrittive nel tempo – posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività”.
Infine, l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato “aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe infatti, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire”.
Il contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur palesando un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finirebbe “con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato”. Una simile conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, non può essere condivisa, considerata “la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell’apporto causale nei due casi”.
Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno negato l’esistenza del cd. “diritto di non nascere”, evidenziando, fra l’altro, che nel riconoscere tale diritto si correrebbe il rischio di una “reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica”. Tale circostanza costituirebbe una vera e propria “deriva eugenica”. La vita di un bambino disabile non può infatti mai considerarsi un danno sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano.
 
 
Martedì 9 Febbraio 2016