Sussidio Avvento 2013 - Parola di Dio - 22 dicembre - IV Domenica 
22 dicembre - IV Domenica di Avvento   versione testuale
Giuseppe, figlio di Davide
 
Spunti biblici
 
Dalla stirpe dei patriarchi e dei re
La figura di Giuseppe è ricca di risonanze bibliche, che affondano nel cuore delle tradizioni di Israele. I patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) si trovano tutti alle prese con il problema di una paternità difficile: tutti scoprono che il dono della vita proviene unicamente da Dio, e che non ne sono i padroni, ma i custodi; tutti si trovano (e non sempre sono pronti) ad affrontare il nodo della paternità, che non è solo generazione, ma educazione alla vita, alla relazione, alla fraternità. Di fatto, tutte le storie patriarcali sono anche storie di conflitti tra fratelli, in cui il padre risulta defilato, quasi impossibilitato a sciogliere le inevitabili tensioni.
Il problema della discendenza si ripropone nella dinastia di Davide, a partire dal suo capostipite. Sappiamo che i figli del re Davide si combattono ferocemente per il trono, causando dolore e sofferenza nel padre, che però non riesce a risolvere il nodo fondamentale dell’eccellenza e della concorrenza: uno solo può essere il re, il più grande di tutti; inevitabilmente a lui tutti sono chiamati a sottomettersi. Si tratta di un carico di responsabilità troppo forte.
La prima lettura ci mostra nel re Acaz, antenato di Giuseppe, un condensato di tutte queste difficoltà. In un momento difficile, sia per le difficoltà dinastiche, sia per la presenza dei nemici ai confini del regno, il re è invitato dal profeta a ricercare la volontà di Dio: «Chiedi un segno». Ma il re si sgancia dal progetto divino, accampando un nobile pretesto: «Non voglio tentare il Signore». Il profeta allora annuncia che Dio stesso si assumerà la responsabilità di prendersi cura del suo popolo. Il segno non richiesto è un bambino, fragile segno di speranza, che rimanda alla potenza di Dio.
Sapientemente la liturgia mette in relazione e in opposizione Acaz e Giuseppe: entrambi chiamati ad una difficile responsabilità, di fronte alla quale l’uno non solo si tira indietro, ma rifiuta addirittura di indagare e mettersi in ricerca; Giuseppe invece si lascia provocare dalla situazione, cerca il modo giusto per farsi carico di Maria e del bambino, e alla fine lo trova, abbandonandosi al volere di Dio e aprendosi a un progetto imprevisto.
 
Uomo giusto
La giustizia di Giuseppe consiste proprio nella tensione a farsi carico degli altri: la sua ipotesi iniziale (rimandare Maria in segreto) sembra esulare dalle convenzioni giuridiche. Giuseppe non vuole accusare Maria, ma non sa trovare i termini di una soluzione, e continua a ripensare a queste cose. Solo Dio può rivelargli i contorni dell’autentica giustizia, al di là di ciò che egli da solo può progettare.
 
Dono della grazia
Potremmo dire, alla luce delle considerazioni precedenti, che il nodo da riscattare per Giuseppe consiste nell’essere l’erede di una stirpe che fino a quel momento ha fallito la missione ricevuta da Dio; e che proprio con Giuseppe avviene la svolta: egli si mostra capace di paternità responsabile, di cura premurosa per coloro che gli sono stati affidati, di umiltà e discrezione nel mettersi a servire. È necessario però soffermarsi a contemplare un elemento importante: qual è il fattore che rende possibile una simile trasformazione? Perché Giuseppe dà compimento a ciò in cui i suoi antenati avevano fallito?
La risposta è chiara: la svolta avviene per la presenza di Gesù. Prima ancora di nascere il bambino, già accolto nella fede da Maria, esercita un influsso benefico sul suo popolo (in particolare su Giuseppe), con la sua sola presenza. Maria per prima vive questo dono di grazia; in seconda battuta, con qualche difficoltà in più, lo stesso avviene per Giuseppe.
Come Giovanni Battista, Giuseppe appartiene all’Antico Testamento, si colloca nell’Antica Alleanza. Ma il bimbo che egli accoglie gli dona di partecipare anticipatamente del Regno di Dio, della Nuova Alleanza, suscitando il meglio delle sue energie, del suo animo, della sua generosità.
 
 
Per gli educatori
 
Il progetto eccedente di Dio
Giuseppe è chiamato a divenire padre di un figlio che in senso proprio non gli appartiene, ma che gli è donato da Dio. In realtà la sua esperienza è l’esperienza di ogni padre, anche di chi può riconoscere nel figlio il suo sangue. Il figlio resta, nella sua essenza più profonda, dono: non progettato, non programmabile, generato in vista di una libertà che supera le aspettative dei genitori; ogni figlio supera, ridimensiona, rimette in discussione ciò che si prefiguravano i genitori, e in particolar modo il padre.
 
La tentazione dell’omologazione
Un istinto - o una deriva - della paternità è la tendenza a formare un altro sé: estremamente positiva, nella misura in cui stimola a dare il meglio di se stessi; estremamente pericolosa però nella misura in cui sul figlio si proiettano i propri sogni, le proprie attese, forse anche i propri fallimenti. Giuseppe diventa padre obbedendo al progetto di Dio; e aiuterà a sua volta quel figlio a compiere il progetto divino.
 
Educare senza possedere
Ogni educatore vive l’esperienza di Giuseppe: essere chiamati, con l’aiuto della grazia di Dio, a contribuire alla formazione di figli e figlie non propri. A mettersi al servizio di persone su cui non si potrà esercitare un potere: si potrà dare un esempio, dare forse anche un’impronta, ma non si potrà mai avere la pretesa di plasmare gli altri a propria immagine. L’avvertenza vale in particolar modo per i formatori degli adulti e delle famiglie: non si potrà mai “fare da padroni” sulla loro fede. Il riferimento alla figura di Giuseppe può dunque aiutare ogni educatore credente a restare al suo posto: saldo nella fede, senza essere invadente, lasciando che le persone trovino un loro solido riferimento in Dio.