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Una pastorale possibile


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/03


UNA PASTORALE POSSIBILE
di Francesco Cipriani
Questo contributo si sviluppa in termini molto personali, riesco a pensarlo unicamente come una sorta di bilancio della mia vita e del mio ministero vissuto fra i Rom e i Sinti. Spero tuttavia che la comunicazione di questa personale esperienza, pur molto semplice, possa essere occasione di riflessione, di revisione e di incoraggiamento per quanti intraprendono un simile cammino, e anche per chi vive nelle parrocchie la propria “pastorale”. Al di là di questo e in fondo a tutto questo, rimando alla serie di contributi realizzati dagli operatori dell’UNPReS nel Quaderno “Memoria e attesa” .
Una vita “ordinaria”Da più di 30 anni vivo la mia vita di uomo, di cristiano, di prete tra i rom. Non è una vicenda originale, anche se all’inizio mi pareva che lo fosse. E non è una vita la mia di grandi successi, è una “vita”, come tante altre “ordinaria”... Tento di vivere qui cristianamente con altri cristiani rom e gage, assumendo testardamente e semplicemente quel quotidiano che mi apre il cuore e dà respiro all’anima, riconoscendo dentro questo mio e loro vissuto la Presenza di Dio che in Gesù Cristo si è fatto vicino, tanto da riconoscere “aprendomi allo Spirito” la sua ombra, le sue tracce.“Aprirsi allo Spirito” significa per me tentare di mettermi a disposizione dello Spirito, significa voler leggere all’interno del gruppo con cui condivido la vita, attento ai valori che possiede, attento alle maturazioni che provocano cambiamenti ed esserne testimone.Una presenza pastorale perché io ho diritto al Vangelo, come i Rom, al pari di ogni gruppo umano, hanno diritto al Vangelo. In questo orizzonte, pastorale non solo possibile, ma doverosa.
Una pastorale “di confine”Da una riflessione nata nella mia comunità mi viene restituita una pagina biblica, letta tante volte ma adesso riflessa nei reciproci sguardi, così che il mio si fa più chiaro. Attraverso questa pagina nasce una nuova possibile connotazione della mia pastorale: la direi “di confine”. La pagina biblica la conosciamo tutti, è la vicenda di Raab la prostituta di Gerico: “Essa - dice il testo - è in mezzo ad Israele ancora oggi” (Gs 6,25).Essa - Raab - parla a me ancora oggi. Una donna che vive sulle mura della città, ma estranea ai suoi riti... Una storia di ordinaria sopravvivenza... una donna che sarà lodata per la sua fede - lo Spirito si è posato su di lei, (Eb 11,31ss) - e sarà lodata per le sue opere - (Gc 2,25).
Il mio essere pastoreEcco il mio essere pastore:- Non sono fuori dal mondo dei Rom, ma non sono neppure completamente dentro.- Ho una parola da dire “dalle mura” in cui mi trovo, dal “confine”. A chi? Alla città, che per me è fuori, e anche ai rom, che rappresentano il mio spazio dentro.- Condivido la loro vita abituale, ma sono ospite e pellegrino insieme, forestiero come gagio al loro vivere po romane (alla zingaresca).- Dalle mura, spazio aperto di confine, godo di una buona “visibilità” evangelica: il ricco Epulone dal suo palazzo non riusciva nemmeno a vedere Lazzaro (Lc 16,19-29). Qui le cose del Vangelo, del Regno appaiono visibili, cose spesso “nascoste ai sapienti e agli intelligenti” e il Vangelo acquista nuova forza e originalità.E mi piace mettere a disposizione alcune annotazioni che in questi anni ho scritto e su cui mi piace fermarmi a riflettere anche oggi, vendemmiando nella luce tersa dell’autunno i frutti del lavoro d’estate. Ancora una volta sono riflessioni personali, che trovo tuttavia in sintonia anche con i temi ecclesiali che ci accompagnano in questi anni: mi riferisco soprattutto ai temi giubilari della gratuità, dell’ospitalità, della “stranierità”, del tempo e del suo ritmo “più lento, più dolce, più profondo” (J. Langer). Non certo che io le viva o le abbia vissute in pienezza, ma sono in me come una tensione, un desiderio, un cammino di sempre rinnovati inizi.
La gratuitàLa gratuità che ha, come altra faccia della medaglia, la “nullità”. So che ogni altro incontro con il rom diverso da me è un incontro che mi cambia ed è per me gratuito. Non cerco spiragli per comunicare mie idee, ascolto e imparo. Sono libero da impegni pressanti e scopro che fonte e culmine della mia vita è il mio essere e mantenermi eucaristico. Mi sento una persona che riceve più che uno che dà, “offerta viva a lode della tua gloria”, come la liturgia traduce (Rom 12,1). L’ordinazione a prete non mi dà competenze infinite... il ruolo non mi ha assorbito la vita. Qui vedi che sai forse solo poche cose. Spesso ti accorgi che qui non puoi fare nulla; quello che tu sai, che tu sei o che tu hai non conta nulla per far cammino con l’altro... spesso scopri che le cose da fare richiedono più tempo, che forse non è questo il tempo. Non si può star qui tra i Rom se non coltivi il senso del servo “inutile”, meglio tradotto “che non ha prezzo”.
L’attesaL’attesa significa per me sedermi in un misterioso crocevia, come quelli che in campagna sono segnati dalla pietà e dalla fragilità popolare con croci e capitelli. Di lì passano e si incrociano le vite delle persone e le attese di Dio su queste nostre vite. Ci sono grandi distanze fra le nostre vite e queste attese, che sono le esigenze del Regno, esigenze di pace solidarietà giustizia fraternità. Attendere è maturare nella capacità di sopportare queste distanze, pregare alzando le mani a Dio, perché le colmi, allargare il cuore nella pazienza impaziente con cui “riceveremo le nostre vite” (Lc 21,19).
Luogo dell’ospitalitàLo spazio che mi è dato è il luogo in cui vivo tra i rom, il luogo dove sono accolto e accolgo, è il luogo dell’ospitalità. Essere ospite non significa “dare, fare, insegnare, programmare, raggiungere obiettivi”, ma “ascoltare, imparare, condividere, stare, aspettare, saper tacere, saper ricevere, lasciarsi amare e amare” . Icone bibliche di questo mi paiono l’incontro con la donna di Samaria al pozzo (Gv 4) e la casa di Betania (Gv 12). è il luogo della normalità, dell’esser minoranza tra i rom, spazio possibile per differenze accolte con gratitudine.
della collaborazioneMa questo spazio è anche luogo della collaborazione che tendo a suscitare, perché tutti si possano esprimere e possano mostrare i doni di cui Dio li ha forniti (cfr. il ministero del presbitero “non è sintesi dei carismi, ma carisma della sintesi…”). Amare questo spazio significa amare le persone che abitano qui con la loro storia di adesso, significa aprirmi a tutti i luoghi improduttivi con amore, per non restare lontano dai poveri della terra, dagli ammalati, dai vecchi, dal banale quotidiano... luoghi densi di Presenza che assolutamente non vanno trascurati.
della trasparenzaAmare questo spazio significa amare la mia stessa pastorale, il mio stesso abitare in questo luogo vivendolo come luogo della trasparenza, con sguardo contemplativo. Credo che sia necessario distinguere almeno due tipi di “trasparenza”. Vi è anche una trasparenza perversa: spesso i rom e noi con loro sembriamo trasparenti alla gente, i gage agiscono decidono operano sopra le nostre teste come se noi non ci fossimo o come fossimo fantasmi, presenze inconsistenti senza possibilità né di esprimerci né di gestirci. Ma l’altra trasparenza, quella a cui mi riferisco in positivo, è quella che parte dagli occhi e rende cristallino lo spessore delle cose. Mi riferisco a Gv 6,41-51: i presenti mormorano, sono increduli, sono scandalizzati dalla umanità di Gesù. Lui aveva detto “Io sono il pane disceso dal cielo”. La carne di Gesù diventa per loro ostacolo, diaframma che impedisce di vedere nel figlio di Giuseppe il figlio di Dio. Tento di fare esperienza del vedere in trasparenza: ogni carne è un dono a me “di un figlio di Giuseppe” che mi rivela il figlio di Dio. É l’amore a questa visione che cerco di coltivare, per cui nell’opaca trasparenza di ogni carne scorgo la sua presenza. Questo significa provare a far comunione con ogni carne, anche se questo talvolta può far male e sono tentato di andarmene. Ogni persona mi nasconde la Presenza e me la rivela.
Il piede e l’orizzonteIl piede e l’orizzonte potrebbero sintetizzare alcuni corollari di queste dimensioni di fondo. Il piede indica attenzione alle piccole dimensioni e anche a ritmi compatibili con passi misurati, ma l’orizzonte indica contemporaneamente che questa attenzione al particolare non si può confondere con la grettezza dei particolarismi, di cui siamo purtroppo testimoni nell’insorgere fanatico di nuove forme di razzismo volgare. La cura del particolare consapevole delle dimensioni mondiali di ogni nostra azione può essere antidoto alla globalizzazione: perché valorizzazione delle differenze e dei ritmi umani di fronte al mostro-mercato, perché non ingenuo assistenzialismo ignaro dei meccanismi politici ed economici che pervadono la nostra realtà.Questo, espresso più che altro in termini esistenziali ed esperienziali, ha, mi sembra, anche delle ricadute su possibili “piani pastorali”: liberati dall’efficientismo e dai ritmi incalzanti possiamo meditare sul tempo, la messe e il suo custode. Lasciamo al custode della messe, che è custode delle nostre vite appassionato anche ai capelli del nostro capo, la preoccupazione dei tempi e dei ritmi e chiediamo per noi il dono della visione del grano, profumato quando è mescolato alle erbe e ai fiori del campo.
Confini, pecore e pastoriMi risulta piuttosto strano, come appunto dicevo, misurarmi con i “piani pastorali”, perché le cose che ho cercato di esprimere provengono da tempi molto lunghi di sedimentazione e non le potrei sostituire ogni dieci anni, neanche volendo. E tuttavia mi fa piacere trovare una profonda consonanza, anche se espressa con altro linguaggio, con le indicazioni che ci vengono offerte da “Annunciare il Vangelo in un mondo che cambia”. In questo modo sento in profondità quella vocazione al confine di cui dicevo: nel mondo sempre più misto, in cui le diversità culturali, religiose e valoriali si sovrappongono continuamente dando vita a quello che chiamiamo “Post-moderno” o “società complessa”, credo che le osservazioni che provengono da una “pastorale di minoranza” possano diventare preziose. Dunque il nostro ministero assumerebbe una connotazione di “pastorale possibile, anzi doverosa”, non solo e non tanto perché degnata attenzione ad un piccolo gruppo, ma perché ormai obbligata disciplina di comunità cristiane chiamate ad essere lievito in una pasta molto mescolata. E un’ultima annotazione: anche io uso i termini comuni “pastore, pastorale”... ma a volte uscendo dal nostro gergo... mi fanno un po’ ridere e un po’ piangere! Chissà, quelli che ci sentono! Chi sarebbero le pecore? I fratelli e le sorelle a cui siamo reciprocamente affidati? I compagni e le compagne della nostra ferialità, di cui vogliamo essere collaboratori della gioia e non padroni della fede (2 Cor 1,24)?Più verosimilmente e forse evangelicamente preferisco intravedermi nello scriba fatto discepolo del Regno, che tira fuori da un piccolo cofanetto che chiama il suo tesoro cose nuove e cose antiche (Mt 13,52).
Memoria e attesa. Nell’anniversario della Beatificazione di Ceferino Jiménes Malla (1861/1936). Quaderno Migrantes 22, a cura dell’UNPReS, Roma 1988 Cristina Simonelli, Il confine aperto di Rahab, Raggio 7 (2003), 12 Cfr M.Quatra, Vita consacrata nel mondo nomade, in Memoria e attesa, Quaderno Migrantes 22, a cura dell’UNPReS, Roma 1988, 112