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Per una cultura del dialogo


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/02


di Domenico Rosati
La Giornata Nazionale delle Migrazioni ha generato un fruttuoso dibattito. A proposito riteniamo stimolante le considerazioni fatte dal sen. Domenico Rosati in occasione della Conferenza stampa per la presentazione della Giornata (Sala Stampa Radio Vaticana, Roma, 12 nov. 02). Per questo le proponiamo all’attenzione dei nostri lettori.
Per non introdurre in astratto il tema del dialogo e della cultura che può favorirlo, vorrei servirmi di due episodi accaduti negli ultimi tempi, che mettono a fuoco in modo esemplare, i termini estremi della questione.Primo episodio. A Piazza Santi Apostoli, il 3 novembre, un gruppo, invero sparuto, di persone che si proclamavano “orgogliose di rifarsi a Mussolini”, con l’ausilio di un noto esponente politico, hanno chiassosamente attaccato “da destra” la legge “Bossi-Fini” denunciando il “tentativo mondiale di imbastardire il nostro popolo con un’immigrazione selvaggia”.Secondo episodio. Un noto giornalista, Gianantonio Stella, ha dato alle stampe un libro intitolato “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”, nel quale riproduce, ora per allora, gli stereotipi, i pregiudizi, gli insulti e le discriminazioni che accompagnarono gli italiani quando toccò a loro di cercare “lo pane altrui” all’estero, i tempi di Scalabrini e di madre Cabrini.L’accostamento certifica una situazione che sarebbe paradossale se non fosse vera: molti che sono figli e nipoti di quelli che erano descritti nei paesi d’arrivo come sporchi, puzzolenti, imbroglioni e criminali congeniti, si distinguono oggi in esercitazioni xenofobe più o meno con lo stesso frasario e comunque con le stesse idee, se così possono chiamarsi, che tanto fecero penare i loro ascendenti.Speranze nei mutamentiDue episodi, due spot. Ma sufficienti per comprendere quanto sia importante raccogliere, anche in questo campo la lezione di Giovanni Paolo Il sulla “purificazione della memoria”, cioè su una rivisitazione della storia che consenta di discernere, oltre l’involucro delle emozioni, la sostanza umana e il dramma sociale delle migrazioni, di tutte le migrazioni, in ogni tempo e in ogni luogo. E quindi di cogliere la continuità negativa del rifiuto dell’estraneo, comunque motivata, e di scoprire quasi per via sperimentale - sulla base cioè di un’esperienza patita dalle generazioni precedenti - il valore (e il dovere cristiano) dell’accoglienza.Così muta la prospettiva. Altro è mettersi nella logica della chiusura, in modo che “ne arrivino pochi e si trattengano il meno possibile”, altro è mettersi nella disponibilità ad accettare, e perciò regolare al meglio, gli arrivi lavorando nell’orizzonte dell’integrazione in una dimensione sociale sempre più multiculturale, multireligiosa e multietnica. Non sto parlando - non è il mio compito - delle norme ultimamente varate dal Parlamento e tantomeno intendo inserirmi nella controversia in corso sui provvedimenti di sanatoria. Mi riferisco al fatto che il dibattito sul tema dell’immigrazione ha rivelato l’esistenza di due punti di vista assai distanti proprio sul nodo della società multietnica. Per alcuni essa costituisce materia di scelta. Si può decidere se realizzare o meno questo tipo di società, operando appunto sulle leggi e sugli atteggiamenti del potere politico. Per altri la società multietnica non è un optional, ma ormai un dato di fatto, una situazione ben configurata e irreversibile, nella quale occorre immergersi con orientamento positivo, questo essendo l’unico modo per governarne il corso e non subirne i contraccolpi.Affrontare questo nodo culturale ed etico comporta una straordinaria dislocazione di energie intellettuali e morali, una revisione di pregiudizi e di comodità concettuali, sapendo che nel rapporto che si va ad instaurare - che è comunque nuovo - tutti i soggetti coinvolti ricevono e danno qualcosa.Identità e dialogoQui ci si imbatte nel crocevia delle identità. Le identità sono una ricchezza quando sono vissute come talenti da trafficare, non per rinunciare ai propri caratteri distintivi, ma per comprendere meglio quelli altrui. Sono un disastro quando sono intese come fortezze da difendere dall’assalto, o dal disturbo, degli “altri”.C’è un’identità che esclude. Essa parte da un retaggio presuntivamente acquisito e immutabile di tradizioni, pulsioni, abitudini, aspirazioni e miti: e da questa posizione “giudica e respinge” ogni diversità. E c’è un’identità che include. Essa parte dalla molteplicità delle famiglie umane per cercare, ove possibile, un denominatore comune in cui le appartenenze non si dissolvono ma si ricapitolano.Il dialogo è il metodo necessario per misurare le disponibilità reciproche e per cimentarsi nella sintesi della costruzione della civitas humana o del bene comune universale. Percorso invero arduo, quello del dialogo, mentre, per dirla con Amartya Sen, infuria “un’epidemia di scontri frontali e di continui sospetti”. E tuttavia è questo l’unico modo per sottrarsi all’aggancio di quella dottrina dello “scontro delle civiltà” che presuppone una divisione dei popoli secondo un unico parametro di identificazione, quello religioso, immaginando come ineluttabile un futuro catastrofico di irriducibili conflitti tra un integralismo islamico e un integralismo “occidentale” nel quale piuttosto disinvoltamente si fa rientrare anche il cristianesimo.Al contrario, “la conoscenza delle altre culture, compiuta con il dovuto senso critico e con solidi punti di riferimento etico, conduce ad una maggiore consapevolezza dei valori e dei limiti insiti nella propria e rivela, al tempo stesso, l’esistenza di una eredità comune a tutto il genere umano” (Giovanni Paolo Il Messaggio per la Giornata della Pace 2001). Tutto si colora diversamente quando ci si cimenta nella ricerca di un’unica civiltà umana, su cui sintonizzare l’impegno di chi voglia parteciparvi.In un simile intreccio, che concerne il destino dell’uomo, vale la pena di interrogarsi - cito ancora Amartya Sen - “non soltanto sull’economia e sulla politica della globalizzazione, ma anche sui valori che contribuiscono alla nostra concezione del mondo globale. C’è bisogno di riflettere non solo sugli impegni dettati da un’etica globale, ma sulla necessità concreta di mettere le istituzioni internazionali al servizio del mondo e di estendere il ruolo delle istituzioni sociali in ogni paese”.Non dunque soltanto un colloquio di tipo accademico/contabile limitato alla presentazione delle rispettive credenziali, sul modello di quello, pure stimolante, che si abbozzò negli anni Settanta del secolo scorso tra cristiani e marxisti, ma una tensione comune verso il traguardo del massimo bene umano possibile. Vale a dire di ciò che occorra per perseguirlo in un orizzonte di pace che, secondo la “Pacem in terris”, sia il riflesso di un “ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”.Ciò che si propone non è dunque un dialogo con un’esercitazione fine a se stessa. Non avrebbe senso nella presentazione di una “giornata” che si qualifica sul modulo cristiano dell’accoglienza: una giornata che non dura 24 ore ma che compendia nel messaggio che lancia - “accoglietevi come Cristo ha accolto voi” - un impegno costitutivo e permanente di tutta la comunità cristiana. Ha senso invece ritenere che tutti gli uomini di buona volontà abbiano in qualche modo la possibilità, e quindi il dovere, di verificare sul campo le opportunità di cooperare alla “cose buone o riducibili al bene” preparando, anche in tal modo e in ogni campo, da quello mondiale a quelli locali, le vie per soluzioni politiche meno anguste e più aperte alla speranza.Ci sono, naturalmente, diversi ambiti di dialogo, che evocano differenti responsabilità e metodi di approccio. Schematicamente ne indico tre: il dialogo delle dottrine, il dialogo delle istituzioni, il dialogo delle persone. Le dottrine si confrontano. Le istituzioni si accordano, o meno. Le persone vivono insieme.Senza instaurare graduatorie di importanza e di efficacia e senza togliere valore alle prime due forme, ritengo che soprattutto il dialogo delle persone, che sono poi le famiglie e i gruppi che coesistono sul territorio, nei luoghi della vita comune, offra il terreno alle esperienze più autentiche di dialogo e di integrazione.Ma non è il campo più agevole. Proprio alla base, infatti, si condensano e diventano virulenti tutti i batteri dell’ostilità, della diffidenza, del rigetto e, per converso, della frustrazione e dell’aggressività. Negare il problema sarebbe il peggior modo di affrontarlo. Ma occorre creare una predisposizione a inquadrarlo, appunto, come uno scenario di convivenza e di scambio di opportunità. Una predisposizione ad un integrare che è anche un integrarsi; a comprendere ed a farsi comprendere; a capire ed a far capire, empiricamente, usi e costumi, abitudini, usanze e tradizioni.Scolarizzazione e mutamentoUn capitolo speciale è quello della scuola e in genere del processo educativo. In un recente convegno promosso dall’Associazione degli ex parlamentari ho avuto modo di occuparmi dell’insegnamento della storia nella società multiculturale. è un campo delicatissimo, nel quale tuttavia, in presenza anche di una popolazione scolastica fortemente accresciuta da apporti stranieri (in Italia si parlano 130 lingue) mutamenti significativi si impongono, a partire dalla qualificazione dei docenti chiamati a conoscere il passato e il presente dei paesi da cui provengono i nuovi alunni per poter meglio comunicare e far comprendere i valori propri del paese in cui si insediano.Opera di lunga lena, i cui frutti si misurano con il succedersi delle generazioni. E tuttavia il primo passo va compiuto ed è quello di predisporre le strutture civili e sociali ad un’accoglienza che non sia puramente “tecnica” e “funzionale”, limitata cioè alla prestazione lavorativa ed alla sua stretta durata.La nostra memoria di popolo migrante non può aver rimosso il ricordo della sorpresa dei responsabili dei paesi d’arrivo che si esprimevano, in sintesi, con una frase rimasta famosa: “Cercavamo braccia, sono arrivate persone”. Ecco: l’Italia degli “italiani all’estero”, che ora hanno conquistato il voto politico e che tanto generosamente concorrono a riparare i danni delle sciagure nazionali, come ultimamente in Molise, invita gli “italiani d’Italia” a non immaginare che qui ed ora le cose possano andare diversamente.La figura della “persona provvisoria” è un’astrazione anche nell’epoca della flessibilità. Migrazioni e richieste d’asilo si possono e si debbono regolare; ma uno scenario di “immigrazione zero” è solo un miraggio nel deserto delle anime avare. La coscienza e l’impegno dei cristiani portano ad un diverso atteggiamento, che ho cercato di lasciar immaginare. Di qui l’invito a lavorare in ogni ambito, nel rispetto delle leggi ma con una ispirazione che precede le leggi e quindi ne critica gli effetti, affinché l’accoglienza non sia un sottoprodotto dell’utilitarismo economico ma la coerente manifestazione di una cittadinanza aperta che coltiva - è una radice di cultura, come “coltivazione” della persona - il dialogo come espressione di ordinaria umanità.