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Riflessioni sulla legge Bossi-Fini


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/02


di Stefano Zamagni
1. La nuova legge Bossi-Fini e il decreto che sancisce di fatto una maxi-sanatoria per le colf, le badanti e per i lavoratori in nero già occupati nelle imprese, mentre hanno contribuito notevolmente ad accrescere gli arrivi di immigrati illegali nel corso degli ultimi mesi, non serviranno di certo a ridurre i flussi in arrivo di immigrati clandestini nel prossimo futuro.La ragione di fondo è che la globalizzazione del mercato del lavoro è qualitativamente diversa dalla globalizzazione dei mercati dei beni e dei capitali. La differenza sta in ciò che, nelle migrazioni, l’oggetto dello scambio cioè i servizi di lavoro attraversano i confini nazionali incorporati nelle persone. Un fatto questo che già Adam Smith aveva perfettamente compreso quando nel suo celebre libro, La ricchezza delle Nazioni (1776), aveva scritto: “Di tutti i tipi di bagaglio, l’uomo è il più difficile da trasportare”. In buona sostanza, merci e capitali non circolano alla stessa maniera dei servizi di lavoro. è dunque sciocco - oltre che immorale - pensare o pretendere di regolare i flussi dei servizi di lavoro senza “vedere” l’uomo che veicola quei servizi.Tutte le ricerche, teoriche ed empiriche, sono concordi sulla seguente proposizione: più si restringono le condizioni di accesso ai permessi di entrata regolare, più aumenta l’offerta di migrazioni illegali. Una conferma notevole ci viene dalla decennale esperienza degli USA nei confronti dell’immigrazione proveniente dal confinante Messico. Nel corso degli anni, gli USA hanno adottato quattro diverse strategie per cercare di ridurre l’immigrazione clandestina: a) maggiore sorveglianza e più rigidi controlli alle frontiere; b) le sanatorie variamente denominate; c) accordi di libero scambio con clausole di favore per i paesi generatori di flussi migratori; d) inasprimento delle sanzioni nei confronti delle imprese che assumono immigrati clandestini.2. Come riferiscono Tito Boeri e Antonio Spilimbergo, le prime due strategie si sono rivelate non solo inefficaci ma addirittura controproducenti. Le altre due strategie hanno bensì sortito l’effetto desiderato, ma hanno anche trovato l’ostilità dei cittadini-elettori dei paesi ospitanti e quindi sono state blandamente perseguite dai vari governi. Non è difficile darsene conto: gli aiuti ai paesi in via di sviluppo - se rilevanti - sottraggono risorse ai residenti; d’altro canto, i controlli sul luogo di lavoro danneggiano le imprese nazionali.D’altro canto, il controllo alle frontiere è molto costoso. Il numero delle ore di pattugliamento della polizia di frontiera negli USA è aumentato più di 6 volte nel corso degli ultimi 30 anni, così come è vero che sono più che triplicate le risorse destinate all’acquisto di elicotteri e di strumenti per i controlli notturni. Eppure, i flussi di immigrazione illegale sono rimasti invariati. Mutatis mutandis, qualcosa di analogo è accaduto in Italia nei primi nove mesi del 2002. Anche l’esperienza americana in materia di sanatorie è rivelatrice. Nel 1986, gli USA approvarono una mega-sanatoria per gli irregolari già presenti nel paese, accompagnate da pene severe per chi occupava immigrati non regolarizzati. La filosofia della Bossi-Fini è basicamente, la copia del provvedimento americano del 1986: regolarizzare chi è già dentro il paese e lavora, tolleranza zero da quel momento in poi. Più di 2 milioni di clandestini vennero regolarizzati. Ma con quali esiti? In primo luogo, venne incentivata la nascita di una nuova industria, quella di chi era in grado di fornire “prove” di residenza ai clandestini che chiedevano la regolarizzazione. In secondo luogo, la sanatoria finì col far aumentare gli arrivi di clandestini e ciò sulla base di quel meccanismo noto agli economisti come aspettative razionali: nel momento stesso in cui il governo annuncia l’intenzione di procedere alla sanatoria, in quello stesso momento lancia il messaggio ai potenziali migranti di approfittare dell’occasione. Proprio come è accaduto in Italia dal gennaio al settembre 2002: gli sbarchi in Puglia, Calabria e Sicilia sono aumentati, con un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti.Visto il fallimento dell’operazione, gli USA hanno successivamente mutato politica, puntando sull’accordo di cooperazione e sviluppi del NAFTA: i risultati sono stati e sono notevoli. Ancora una volta, l’Italia non ha fatto tesoro di una best practice.3. Una seconda misura importante è quella di fissare quote realistiche di flussi regolari, tali da soddisfare la domanda di lavoro del paese ricettore dei flussi, tenendo però conto del principio che le migrazioni devono servire gli interessi sia dei paesi di origine sia dei paesi di destinazione. Come si sa, un tale principio è ancora ben lungi dall’essere accolto. Infatti, due sono le posizioni che oggi prevalgono. Da un lato, v’è la posizione di coloro che vedono nel fenomeno migratorio specifiche ragioni di vantaggio economico per il paese ospitante. Dall’altro, troviamo la posizione di chi ritiene che il giudizio sui flussi migratori debba esclusivamente privilegiare gli interessi dei paesi da cui originano quei flussi. Proviamo a tracciare le conseguenze che discendono dall’adesione all’uno o all’altro punto di vista, iniziando dal primo.L’atteggiamento oggi prevalente nel nostro paese, soprattutto dopo l’approvazione della legge Bossi-Fini, può essere condensato nei seguenti termini. Al fine di compensare la preoccupante diminuzione della popolazione in età lavorativa - come ci informano le indagini demografiche più accreditate, al 2020 la società italiana conoscerà un calo di cittadini compresi nella fascia di età 20-39 anni, notoriamente il segmento più dinamico e produttivo della forza lavoro, di oltre sei milioni di unità - e soprattutto per far fronte ai non lievi problemi connessi all’invecchiamento della sua popolazione; allo scopo di sopperire alla mancanza, nel nostro mercato del lavoro, di specifici profili professionali; infine, allo scopo di allentare la pressione pensionistica, l’Italia ha bisogno di immigrati e dunque dovrà far varcare i propri confini a tutti coloro che si dimostreranno necessari a soddisfare le esigenze del nostro modello di sviluppo. Nel concreto, una posizione del genere conduce a tre specifiche forme di intervento in materia di politica dell’immigrazione.La prima è quella che concerne una rigorosa programmazione degli accessi che tenga conto dei fabbisogni settoriali e territoriali di lavoro. Invero, dal momento che gli immigrati introducono elementi di forte flessibilità per le imprese che li utilizzano - e ciò sia per la loro elevata propensione ad accettare lavori anche dequalificati sia per la loro disponibilità a spostarsi da un luogo all’altro del paese che li ospita - la programmazione degli accessi dovrà tenere conto delle esigenze locali di forza lavoro. La seconda conseguenza è che, in aggiunta alla fissazione di tetti ai flussi in entrata, quel che in più si raccomanda è la selezione degli accessi: si devono far entrare, almeno tendenzialmente, solamente coloro il cui profilo professionale corrisponde alle esigenze del sistema produttivo che li dovrà accogliere. La terza implicazione, infine, è che si devono ammettere - quanto meno preferenzialmente - quei gruppi di immigrati il cui bilancio economico risulti positivo per il paese ospitante.Duplice è la critica che rivolgo alla tesi di chi sostiene che l’immigrazione dovrebbe essere funzionale agli interessi del solo paese ospitante. La prima, e più fondamentale, è che essa configurerebbe una forma nuova, seppure velata da considerazioni all’apparenza suadenti, di sfruttamento neocolonialista. Dopo aver abbondantemente attinto, per decenni, alle risorse minerarie e alle varie materie prime dei paesi in via di sviluppo, i paesi del Nord del mondo cercherebbero ora di attrarre dai primi quelle forze di lavoro di cui hanno maggiore necessità. Che ne sarebbe allora della solidarietà a favore degli ultimi e dei più bisognosi tanto declamata nei numerosi documenti ufficiali e nei vari summit internazionali? Chi si fa sostenitore di una tesi come quella qui criticata non penso possa eludere un interrogativo del genere.La seconda argomentazione critica è che, anche rimanendo sul piano delle considerazioni prettamente economiche, una politica dell’immigrazione contingentata e selezionata non è alla lunga sostenibile. Infatti, la selezione sistematica degli immigrati finirebbe con l’indebolire le possibilità di sviluppo dei paesi di origine dei flussi migratori, i quali vedrebbero progressivamente depauperato il proprio capitale umano in una fase storica nella quale questo è ormai diventato - come tutti sanno - il fattore strategico per le prospettive della crescita. (L’emigrazione dei lavoratori maggiormente qualificati non favorisce di certo la crescita nell’area di partenza). Se così avvenisse il mancato sviluppo endogeno non farebbe che accrescere la pressione migratoria, con le conseguenze sui paesi del Nord che è agevole immaginare.In buona sostanza, il principale punto di debolezza della tesi in esame è che essa postula, sia pure implicitamente, che i movimenti di popolazione - che notoriamente dipendono da fattori di espulsione - possono essere assimilati agli spostamenti di manodopera che invece dipendono essenzialmente da fattori di attrazione. Ragionare dunque in termini di mera funzionalità dei movimenti migratori rispetto alle esigenze dei mercati del lavoro e dei sistemi produttivi dei paesi del Nord, in un momento in cui la crisi epocale che sconvolge il Sud rischia di generare enormi spostamenti di popolazione, è pura miopia economicistica e grave irresponsabilità politica.4. Se tutto ciò è vero, - come a me pare - occorre del pari riconoscere che anche la tesi opposta, quella di chi formula il giudizio sui flussi migratori basandosi solamente sugli interessi dei paesi da cui quei flussi originano, non può essere accolta. In primo luogo, perché un aperturismo privo di regole finirebbe con l’incentivare, nei paesi di arrivo, la creazione di minoranze politiche organizzate che si oppongono all’invasione dei migranti. (La recente esperienza austriaca è eloquente al riguardo). Il fatto è che vi sono veri e propri costi sociali dell’immigrazione e non giova certo alla causa dei migranti cercare di occultarli o anche di sottovalutarli: questo serve solo ad attizzare forme di reazione, spesso inconsulte, presso i residenti. Per quanto concerne l’impatto dell’immigrazione sulla spesa sociale, le ricerche più accreditate indicano un effetto netto degli immigrati sui nativi che è, al momento, positivo o neutro, ma che potrebbe diventare in futuro negativo a causa dell’invecchiamento degli immigrati e/o dei ricongiungimenti familiari. Non è difficile immaginare le conseguenze. Si pensi alla possibilità di vere e proprie “guerre tra poveri”, quelle che potrebbero scoppiare qualora non si tenesse conto delle esigenze dei diversi gruppi sociali presenti all’interno della popolazione locale - qualora cioè accadesse che viene garantito all’immigrato ciò che rimane negato al residente. Non solo, ma un permissivismo ingenuo finirebbe con l’incentivare l’ingresso nel paese ospitante di coloro che coltivano progetti criminali o che potrebbero diventare facile bersaglio di operazioni di reclutamento di persone da avviare alle attività criminali.In secondo luogo, l’assenza di una oculata politica dell’immigrazione finirebbe, alla lunga, con il danneggiare gli stessi paesi in via di sviluppo. Vediamo di afferrarne le ragioni. Come sappiamo dall’esperienza storica, l’emigrazione diviene un fattore importante di sviluppo di un determinato paese (o area geografica) solamente quando coloro che lasciano quel certo paese riescono a trasferirvi, in aggiunta alle rimesse, il know-how tecnologico e soprattutto la capacità organizzativa che sono stati capaci di acquisire, direttamente o indirettamente, nei paesi che li hanno accolti. Ciò accade sia quando i flussi migratori assumono la caratteristica della circolarità - l’emigrato fa ritorno, dopo un certo lasso di tempo, al proprio paese portando con sé le abilità acquisite e diventando perciò promotore di sviluppo - sia quando tra i paesi interessati si stabiliscono accordi ad hoc di cooperazione decentrata, di liberalizzazione degli scambi, di investimenti diretti all’estero, e così via. Ebbene, nessuna di queste due condizioni potrà mai essere realizzata in assenza di una equilibrata politica dell’immigrazione da parte del paese ospitante. Un atteggiamento di accessi indiscriminati non faciliterebbe di certo un inserimento adeguato dei migranti nelle società di arrivo e quindi la loro crescita personale, mentre è proprio questo ciò che si deve realizzare se si vuole che l’emigrazione possa servire anche ai paesi in via di sviluppo.Ma v’è di più. Dagli studi empirici che hanno cercato di valutare l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro si trae che gli immigrati svolgono, in generale, un ruolo complementare e non sostitutivo rispetto ai nazionali. (L’ipotesi di complementarità dice che gli impieghi assunti dagli immigrati sono quelli che comunque non sarebbero stati presi dai locali e dunque che il ricorso al lavoro immigrato non ha conseguenze negative sull’offerta di lavoro del paese ospitante. Al contrario, l’ipotesi di sostituibilità afferma che gli stranieri riducono il livello salariale e sottraggono impieghi agli autoctoni). Tuttavia, come opportunamente osserva Ambrosini, una tipizzazione del genere ha senso solamente all’interno di una visione statica del mercato del lavoro, una visione secondo la quale i posti di lavoro sono in numero fisso e soprattutto non soggetti a mutare di livello. Che nella realtà le cose non stiano in questi termini non c’è bisogno di spendere parole. Occorre dunque considerare che il ricorso massiccio agli immigrati fornisce alle imprese una alternativa importante al trasferimento, almeno in parte, di lavorazione in quei paesi dove più abbondante è l’offerta di lavoro. E questo non favorisce di certo quei paesi in via di sviluppo dai quali nascono i flussi migratori.Se dunque le due opposte posizioni, sopra esposte, sono inaccoglibili, è necessario muovere passi veloci verso una politica dell’immigrazione che apertamente dichiari di voler assecondare gli interessi dei paesi sia di origine sia di destinazione dei movimenti migratori. è questo il senso del principio di reciprocità. Come è noto, una transazione economica tra due soggetti è sostenibile e eticamente accettabile quando entrambe le parti sono poste nelle condizioni di trarre da essa un vantaggio oppure un miglioramento delle rispettive posizioni di partenza. Quanto a dire che, se è pienamente legittimo che il paese ospitante cerchi di fissare regole di accesso tali che i flussi migratori non abbiano a costituire una minaccia seria al proprio equilibrio sociale, va del pari affermato che il paese che accoglie gli immigrati non può non porsi il problema delle cause di quei flussi, adoperandosi fattivamente per la loro rimozione o, almeno, attenuazione.5. In definitiva, ritengo sia venuto il momento di riconoscere che le attuali politiche migratorie sono, per la gran parte, inefficaci e controproducenti. Sono inefficaci perché si limitano a correggere gli effetti indesiderati delle migrazioni, senza intaccarne le cause. Un solo esempio per chiarire il punto. è noto che i grandi progetti di sviluppo finanziati dagli organismi internazionali (Banca Mondiale, in primis) causano una sistematica espulsione di popolazione rurale dalla terra dove i progetti medesimi (dighe; oleodotti; autostrade; canali; ecc.) vengono realizzati. Si tratta dei cosiddetti Project Affected People (PAP): per la sola India, si è stimato che per il 1997 i Pap siano stati circa 21 milioni. è dunque evidente che quando si vanno a finanziare progetti del genere non è possibile non tener conto dell’impatto sui flussi migratori che la realizzazione di quei progetti determina.Le attuali politiche migratorie sono anche controproducenti e ciò nella misura in cui esse aumentano le situazioni di iniquità. Le pratiche in atto sono infatti discriminatorie: le restrizioni di vario tipo fanno sì che solamente coloro che sono in possesso di risorse adeguate possono sperare di lasciare il proprio paese (è stato stimato che occorrono 15.000 dollari perché un afgano possa arrivare in Australia). Non solo, ma le politiche oggi in atto stanno provocando una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti della capacità dei pubblici poteri di governare il fenomeno. Perché spendere tanto denaro se poi coloro che non ottengono i permessi di asilo restano egualmente nel paese come irregolari?P.S. - Nell’Aprile 2002, la Commissione Europea ha pubblicato il Libro Verde sulla “Politica Comunitaria dei Rientri dei Residenti Illegali”. Si tratta di un documento importante, il cui obiettivo principale è quello di dettare linee guida agli Stati membri sulla materia. Proprio per questo, non devono sfuggire i limiti seri di tale Libro Verde.Con l’eccezione del riferimento alla Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, al Protocollo di New York del 1967, alla Convenzione sui Diritti del Bambino, e alla Carta Europea dei Diritti Fondamentali, il Libro Verde omette completamente di citare altri rilevanti standars internazionali sul tema. Ad esempio, non si fa cenno al Commento Generale n. 15 del 1986 delle NU al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici; né vengono considerati gli obblighi relativi alla protezione dei diritti alla vita (si pensi alle morti dei migranti avvenute nel processo di deportazione forzata; alle pratiche di tortura; ecc.). Infine, nel Libro Verde continua a prevalere l’idea che vede nei traffici di esseri umani una questione di ordine pubblico o di rispetto delle norme vigenti e non invece una questione di violazione dei diritti umani. Sono chiare le implicazioni: il 23 aprile 2002, la Commissione NU sui Diritti Umani ha riaffermato che le vittime delle violazioni dei diritti umani devono ricevere dagli stati, a seconda dei casi, restituzione, compensazione, e riabilitazione. I diritti umani sono diritti dell’uomo in quanto tale, e non già dell’uomo che è in regola con le disposizioni in vigore.