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Missionarietà nelle nostre chiese oggi
Operatori pastorali italiani di Svizzera e Germania a convegno tra perennità di fede e sfide del nuovo nella mobilità in Europa

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/02


di Giovanni Ferro
“Segni dei tempi”, si dice. E la mente cerca subito gli scenari delle idee. Solo dopo, dai chiaroscuri mentali che in qualche modo ritraggono i colori della realtà, la (di)segnano, emergono i suoni, in parole sentite e riascoltate che finiscono adottate nel vocabolario comune, superando le mode. Attraverso una vicenda del genere è passato un concetto che anche in comunità cattoliche italiane fuori d’Italia ha trovato nella voce “missionarietà” il sostantivo che ritrae le sfide del tempo sulle Chiese cristiane d’Europa. Ad esempio in Svizzera e Germania, dove il nuovo uso del termine incrocia quelli di missione e missionario, che da decenni (in Svizzera da un secolo) designano la presenza stessa di Chiesa come istituzione. Sennonché viviamo un tempo di mutamenti al ritmo di una rivoluzione per decennio e il compito di rivedere modi di dire - cioè di pensare - che resistevano da generazioni, s’impone.Germania e Svizzera riflettono insiemeCon questa consapevolezza e nella memoria di segni di ben altri tempi, sacerdoti, religiose, collaboratori e collaboratrici delle comunità italiane, o missioni, come quasi ovunque ancora sono note, si sono incontrati il settembre scorso, dal 16 al 20, a Gazzada, in provincia di Varese, per il loro convegno annuale.In Italia, stavolta e insieme, secondo un’alternanza di sede che ambedue i gruppi nazionali per tradizione propria osservano, un anno in madre patria e un anno nel paese di presenza.Dimenticati?Se in Germania vivono attualmente circa 620 mila italiani per passaporto e altri circa 440 mila nella Confederazione Svizzera (qui anche con doppia cittadinanza), questo è un dato che né come segno di questo tempo e né come incidente storico tocca più di tanto il sentire nazionale della gente in Italia. A parte le storie intime e di famiglie. E che questi connazionali all’estero, circa più del novanta per cento, si sentano in qualche modo cattolici, anche questo è un dato pressoché assente dal sentire di comunione dentro la Chiesa delle radici nazionali. I convegnisti si sono portati dietro anche questo promemoria, che nel tempo ha visto solo sparute varianti, per esempio grazie alla situazione della Svizzera. In quanto proprio lì, vicino anche per confine psicologico al nostro paese, il transfer di sacerdoti giovani e collaboratori, al momento, va meglio. Ma un’assenza di reciprocità fra Chiesa di italiani fuori d’Italia e in Italia anche nel sentire di vertice nelle diocesi italiane, è un peccato d’origine ancora in attesa di redenzione. Mentre nell’Italia ormai terra di immigrazione l’abbandono ufficioso del campo di “missione” in paesi fuori mano d’Europa, rischia di restare definitivo. Al convegno di Gazzada anche questo pesava nell’aria, ma è stato tematizzato solo al margine, perché le questioni s’impongono ormai in modo più globale.Esigenza di missionarietàL’orizzonte di Chiesa sconfina per tutti rispetto al passato, e si fa radicale una nuova questione che interpella questi, quelli e ogni altro. E cioè una domanda: se non torna “missionaria” nella sua stessa identità, ovunque, le Chiese dei cattolici e ogni altro cristiano, potranno sopravvivere in un’Europa in turbo-mutamento e in una mobilità virtuale e materiale così storica? Questa era la provocazione dell’incontro, sul quale ora qui si va ai dettagli.Alle giornate di Gazzada circa 130 partecipanti rappresentavano 7 regioni pastorali di Svizzera, 68 Comunità/Missioni, 78 sacerdoti con mandato e altri 14 a riposo, parzialmente attivi, 14 operatori/trici pastorali, 118 religiose in servizio quasi ovunque per l’infanzia. E 8 regioni pastorali di Germania, con 75 Comunità/Missioni e succursali minori talvolta molto estese, 80 sacerdoti in servizio e altri 12 in collaborazione ausiliaria, con circa 40 religiose e consistente personale laico professionalmente assunto in ruoli ecclesiali diversi, in una situazione assai tipica della superorganizzata Germania. Il Convegno che rappresentava questa realtà si apriva sotto un titolo per sé scontato, ma con l’indizio di enormi incognite implicite: “La missionarietà nelle nostre Chiese, oggi”. I temi affidati a specialisti per la discussione, poi, si esplicitavano ad esempio così: “Come annunziare Cristo oggi, in una società indifferente dal punto di vista religioso”. Questo è stato il compito di mons. Domenico Sigalini, Azione Cattolica, Roma, in un’apertura a cannonate (l’espressione s’intenda senz’altro al positivo) sulla nostra realtà civile che muta in superfice e nel profondo. Fra le ovvietà sotto gli occhi di tutti sono emerse alcune posizioni che l’oratore ha costruito lungo una notevole esperienza nel mondo della gioventù. Le mutazioni - egli ricordava - sono spesso radicali, antropologiche, toccano non l’apparenza, ma la sostanza del vivere privato e collettivo. L’immaginazione è ancora modesta, e pochi sono consapevoli di ciò che ancora è in stato di gestazione. Nel nuovo si è proceduti sovente anche oltre la capacità di trarre conclusioni operative; si vive in una postmodernità del sentire i comportamenti, che sono basati su consumo, culto dell’individualità, in un vivere parallelo fra il reale e il virtuale. E in altro. E qui si ritrovano - e troppo spesso non si ritrovano - le Chiese, con il Cristo da annunziare. Perché di questo si tratta: di porre un messaggio come annunzio, come novità, come notizia che risulta inedita per una società che s’è fatta altra, indifferente all’autorevolezza della storia. Dunque le Chiese devono annunziare non se stesse, ma la Salvezza; e il fatto non è nuovo, ma è la realtà dei viventi ad essere quantomeno inedita. Di conseguenza la contemplazione si fa primaria rispetto all’etica, mentre il senso di appartenenza al gruppo per fede tende a dissolversi o a cercare altre vie, e decisive diventano invece le scelte radicali delle persone “per il Regno”. L’organizzazione potrebbe finire nel secondario, come in realtà avviene sotto i colpi di eventi un po’ ovunque. Dunque è il capitale di relazioni e comunicazioni che deve riattivarsi. Quelli che un tempo si chiamavano “lontani”, per sé e di fatto non esistono (più): sono le comunità più o meno istituzionalizzate invece che sono chiamate a non allontanarsi da là dove la gente vive. Al di là del fatto che sul cammino della conversione al Vangelo e negli itinerari di crescita di fede, speranza e carità, soggetto e comunità sono sempre stati e resteranno lontani dalla meta.L’orizzonte dell’EuropaA proposito del tema “Un vangelo per l’Europa di oggi”, il teologo Aldo Giordano ha esposto un inventario di gioie e dolori esperimentati dall’alto della sua presenza in diretta nel Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, di cui è segretario con residenza in St.Gallen, Svizzera. Ecco alcuni suoi accenti: l’ecumenismo prima di tutto fra le Chiese cristiane non è più un’optional, ma un imperativo storico oltre che evangelico, in un momento di crisi sua propria e nel contesto di società pluralistiche, multiculturali con conflitti a bomba ad orologeria (il terrorismo mondiale ne è solo l’icona al negativo più rivelatrice) nella frammentazione delle appartenenze religiose, con confessioni religiose in via di implosione per credenti e per un senso come esaustive del messaggio di Salvezza. Anche se succede che il processo di secolarizzazione che mina il senso di appartenenza alle Chiese, per paradosso ne amplifica la ricerca di senso per un rinnovato consumo del “religioso”.Monsignor Josef Voss, vescovo ausiliare di Münster nella Westfalia, presidente della Commissione Episcopale di Germania per le migrazioni, non ha distribuito illusioni su Chiesa e sfide del presente. Ha fatto sue, come uomo della Chiesa-Istituzione, della gerarchia, le analisi correnti. E ha dato gambe alle speranze in atto, come rappresentante di un episcopato tedesco che “sa dove la gente vive” e nel fare ecclesiologia ha abbandonato l’olimpo di molti nelle teologie accademiche. Il Weihbischof Voss, in un italiano vicino alla perfezione quanto al cuore della gente, è del resto di casa fra chi opera nella realtà migratoria tedesca. Egli aveva come binario per la riflessione: “Tensioni esistenti fra le comunità nella Chiesa locale e piste di comunione”.Esigenza di verificarsi e rinnovarsiCiò che rimaneva da dire allo scalabriniano P. Graziano Tassello, Centro studi e ricerche sull’emigrazione, Cserpe di Basilea, ricadeva sull’uditorio come un invito a ripensare da capo parecchie posizioni correnti del sentire-di-Chiesa. Se il messaggio di Salvezza resta unico e perenne al di là delle età della storia, gli uomini, le società e le culture sono altre, mutano, egli diceva. Per cui il non sapere cambiare per concetto e azione sarebbe talvolta un tradimento dell’immutabile. In quanto oggi è crescente lo stato di multicultura in un quadro secolarizzato, dove le Chiese, meglio, le loro linee pastorali strettamente nazionali, fra la disaffezione o l’incrociarsi delle appartenenze, s’avviano a perdere di molto senso. Se non di senso del tutto. Ed è la loro cattolicità, come recupero dell’universalità, che s’impone al di sopra del resto, anche se significativo e giustificato. Come a dire: il discorso è non solo per noi già “missionari” da tempo, ma per tutta la nostra Chiesa insieme, a frontiere saltate o in via di insignificanza, in questo laboratorio di civiltà europea, non ieri ma oggi. “Non si tratta di conservare una propria pastorale parallela in mutuo rispetto e a tutela dell’autonomia di ciascuno, ma di accedere a una ecclesialità di formazione-promozione che instauri modelli di eguaglianza e dialogo tra culture ed espressioni religiose. Ciò che riesce solo se le persone sono consapevoli delle specifiche identità”: dicasi che si impone una revisione del modo stesso di essere Chiesa, senza divisione in locali e oriundi, perdenti o garantiti, in quanto tutti perdono e possono vincere in recupero di sostanza - nell’annunzio di Cristo Salvezza. Perché lo stato di “missione” non è un’emergenza di alcuni, ma eventualmente anche uno shock in positivo sul futuro di tutti.Il Dr. Alois Odermatt, Cantone di Zurigo, col senso delle cose là dove la teologia scende dal cielo per toccare il concreto, l’economico e il politico, ha presentato modelli attuali di convivenza ecclesiale nella Svizzera di vecchia tradizione fra cattolici di etnie diverse. Nella di-scussione, sul tema “assimilazione”, che in Svizzera ha risonanze spesso fuorvianti, si è visto di nuovo lo scarto fra sogni e realtà. Dicansi i provincialismi amministrativi che per gli operatori pastorali in loco (e i vescovi stessi) sono un ostacolo se non sono addirittura una provocazione.Diversità ma ricerca di comunioneI due delegati nazionali delle MCI di Svizzera, mons. Antonio Spadaccini e P. Gabriele Parolin, Germania, avevano proluso ai lavori con l’obiettivo sulle due realtà attuali. Che sono analoghe per il mondo umano che le compone, ma anche si differenziano come “svizzero-cantonale” per un verso e “germanica” in pregi e difetti, nell’altro verso. Notando che l’episcopato svizzero si muove in una cultura cattolica piuttosto propria, diversa da quella tedesca, per alcuni aspetti assurda anche dal punto di vista di quella dell’episcopato italiano. Com’è emerso in un momento del convegno in cui presenziava mons. Alfredo Garsia, Caltanisetta, presidente della Commissione Episcopale Italiana per le Migrazioni. Ma certe differenze hanno prodotto più stupori che vera contesa.Spadacini e Parolin, che avevano motivato i rispettivi gruppi verso quest’incontro a forze unite, hanno fatto da connettivo durante tutte le ore e i minuti delle giornate. Il primo di loro ha assicurato l’aggancio fra idee e concretezza in una Svizzera ecclesiastica e civile fiera della sua sovranità e prerogative amministrative cantonali. Il secondo ha fatto eco al discorso sul nuovo stato di “missione” che ultimamente interroga le Chiese di Germania, cattolica ed evangelica di varie confessioni, consapevoli che una crisi di civiltà religiosa segna il paese il cui ruolo di locomotiva economica europea si sta demitizzando. Il convegno non ha lasciato proclami, a parte una mozione sui rapporti interni di comunicazione fra sedi romane di competenza per la pastorale migratoria, e la gente delle comunità di missione alla base, e questo per un documento teologico-pastorale sulla mobilità umana allo studio. Perdurante inconsapevolezza?Fuori dai testi che rimarranno scritti (e archiviati) un dato si impone e sia ribadito: in Italia, nelle Chiese e fuori di esse, c’è perdurante inconsapevolezza sul fatto che l’emigrazione italiana, ora più diversificata di un tempo, non si è esaurita, ma sovente riesplode a causa di povertà residue in regioni meridionali e insulari - un assurdo italiano di grande potenza industriale che non ha eguali al negativo nella compagine dell’Unione Europea. Nel mondo politico italiano come nella Chiesa di madrepatria gli atti di indignazione davanti all’emigrazione come indice di povertà di sistema non si vedono. Le ragioni per gridare allo scandalo ci sarebbero comunque ancora, anche se per innumerevoli persone e famiglie, la risorsa di poter emigrare è stata una chance economica e di risurrezione civile.Un taglio politico e messaggi critici in quest’ordine non erano però in tema al convegno di Gazzada. Anche perché lo sono stati inutilmente per anni e il tempo frustra la forza dell’indignazione.Ciò non toglie che uomini e donne in “missione” fra gli italiani d’Europa (ci sono anche quelli di Francia, paesi Benelux e Scandinavia) sono sempre di meno, in età che cresce a misura degli impegni e dell’ampiezza delle aree di presenza. Nell’equazione fra domanda e offerta di personale, su questo punto, c’è qualcosa che non reggerà più a lungo. E qui, anche un convegno eccellente, arriva al suo limite.