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Considerazioni sui mezzi di comunicazione sociale, globalizzazione, migrazioni


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/02


di Alberto Bobbio
“Educare alla mondialità” era uno slogan di tanti anni fa. Basta guardarsi un po’ in giro invece per vedere gli effetti disastrosi di una società fondata sull’egoismo. Eppure le sentiamo le grida di milioni di uomini. Gridano e ci disturbano. Noi che facciamo? Certo non tutti possono andare a fare i missionari, religiosi o laici, ma molti, anzi tutti, possono educare. A cosa? A prendere su di sé il peccato del mondo, a non applaudire per la bravura degli strateghi, ma a soffrire per le pene delle vittime. Ciò deve diventare un fatto normale. Invece oggi, a guardare il mondo, molti provano angoscia. E non perché le situazioni si scontrano con il proprio essere per la giustizia, ma perché siamo tutti un po’ ossessionati: il mondo va male e io non sto bene. Ossessionati dal denaro, dal sesso, dal gioco, ma anche dai santi, andiamo alla ricerca di quelli che diventano buoni dopo essere stati un po’ burberi, accomodanti ( o meglio noi li facciamo così, ci convinciamo che siano così) perché ci risolvano i problemi e ci abbandoniamo a loro. Oppure facciamo la carità, che spesso è solo un rimedio all’ angoscia. Questo ragionamento va bene per tutti, credenti e laici. Perché i cosiddetti riti sono uguali per tutti. Prendete le signore della Milano bene, a quella che era una volta “la Milano bene”, oppure il popolo che si scioglie dietro ad Agnoletto e la Lila, oppure smania per i progetti del WWF, il clima, che cerca di rattoppare il buco dell’ozono... sono quelli caritatevoli senza essere giusti, quelli che in ogni caso mantengono le distanze, come facevano gli ebrei al tempo di Gesù. E anche questo è un modo di riempire la propria responsabilità. Ed è un tema centrale perché è proprio quello della polemica che ha aperto Gesù contro la religiosità del suo tempo. Gli ebrei continuavano a rimandare al passato: ad Abramo, ai profeti. Lui arriva e dice: vi hanno detto, ma io vi dico… E travolge gli orizzonti, spazza via quelli che erano ossessionati dal futuro, quelli che volevano calcolare tutto. Le migrazioniCerchiamo ora di ragionare attorno alle migrazioni per capire se questo schema interpretativo può essere applicato al dramma di popoli che possiedono solo la propria speranza. Le migrazioni attraversano la Storia e il viaggio è una concezione dello spazio e una sorta di condizione di vita che caratterizza i secoli. Chi ha paura delle migrazioni ha paura delle culture. Ecco perché le migrazioni sono una risorsa.Esse producono conflitti, ma il conflitto, se non degenera in violenza, è sempre un’opportunità.Cosa sarebbe la nostra cultura se gli uomini arabi non si fossero mossi dalle loro città? Cosa sarebbe la nostra cultura senza Averroè?Molti studiosi sostengono che la cultura arabo-islamica è quella che per prima è riuscita a produrre una concezione umanista e universalista, proprio grazie al suo ruolo di mediazione e collegamento tra realtà diverse.La stessa cosa è accaduta per la cultura ebraica, che ha percorso le strade dell’Europa, fuggendo da persecuzioni, ma nello stesso tempo è stata in grado di contaminare e quindi far crescere le culture con le quali veniva in contatto.E la stessa cosa vale per il cristianesimo. Il punto centrale è ritenere, appunto, i conflitti delle opportunità. Abramo era un emigrante. E questa categoria vale per definire molti popoli e molte persone che vengono comunemente definite pellegrini. Era gente che abitava una terra ostile, perché per esempio povera di acqua, ed erano costretti alle migrazioni.Così nel mondo si sono creati luoghi di incontro (e volte di scontro), ma in ogni caso luoghi di scambio, crocevia di saperi e di culture in Asia, Africa, Europa, piattaforme girevoli che hanno prodotto, sul lungo periodo, più beneficio che problemi. La Mecca era in primo luogo un crocevia di carovane, centro commerciale, oltre che luogo di scambio culturale e spirituale. I porti del Mediterraneo davano impulso alle grandi civiltà della Storia. Basta essere capaci di leggerle le opportunità. Ebrei, arabi, cristiani si sono messi d’accordo su regole civili di convivenza all’interno delle comunità.Ma la politica e lo scontro degli interessi ha spaccato le regole e prodotto le guerre. è accaduto lungo i secoli e purtroppo sta accadendo ancora oggi, quando molti hanno paura delle migrazioni.Le grandi città del passato, da Bassora a Baghdad, dal Cairo a Granada, da Fez a Gerusalemme a Damasco, ancora oggi mantengono le antiche vestigia di questo passato di grandi opportunità, nonostante tanti avvenimenti che le hanno messe a dura prova.L’Europa ha saputo farne tesoro? Oppure le conquiste marittime, il commercio e gli scambi culturali sono stati causa di colonialismo, che hanno minato le basi della convivenza e del progresso tra i popoli?Non è facile rispondere a questa domanda, ma è chiaro che spesso noi europei abbiamo minato le basi delle convivenza, forse perché c’è un retropensiero che ci fa essere comunque superiori.Bisogna ricordare le parole di Giovanni Paolo II, un uomo che incarna nella sua vita una concezione positiva della migrazione: “L’esperienza mostra che quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici e umani” (Messaggio per la GMM del 1993).Da qualche anno in Italia sono arrivati soprattutto musulmani, gente che fugge da situazioni politiche e umane terribili, dove è stato sempre l’orrore a guidare la vita e a determinare la morte. Basta pensare ai curdi, che continuano a riversarsi sulle nostre spiagge.Gente per cui la terra promessa è sempre la terra degli altri e le regole del gioco sono stabilite sempre e comunque dagli altri.Non è facile decidere di partire sulla base di queste premesse. Bisogna avere grande forza d’animo e grande capacità di rischiare. Ma anche grande fiducia nel mondo e negli uomini. Chi siamo noi per spezzare sogni e schiantare animi che hanno già tanto sofferto? Che significato hanno le nostre politiche se non danno una mano a chi è più sfortunato? Noi dovremmo proteggere chi è diverso, ma che ha contribuito nel passato a dare fondamento anche alla nostra società e cultura?Invece accade che noi temiamo e demonizziamo la diversità culturale, per non dire di pelle o di religione. Così escludiamo questa gente.Così abbiamo inventato la categoria della marginalità, che legittima atteggiamenti di chiusura, che giustifica i pericoli sociali che molti intravedono nella gente che arriva da noi. è quasi normale l’emarginazione, perché essa protegge da una parte i diversi, e dall’altra anche noi, la nostra società che ha eletto l’emigrazione, in particolare l’immigrazione, nel pericolo per antonomasia. è brutto dirlo, ma la nostra società teme il pluralismo. L’emarginazione come fenomeno normale - la creazione di una zona grigia di compensazione di paure, dove abbiamo infilato gente che non riteniamo cittadini, ma nemmeno uomini, a tutti gli effetti - ci mette il cuore in pace. Siamo tranquilli e speriamo così di annullare le turbolenze della vita, che sono tuttavia le uniche che stimolano ad andare avanti.Ma non è la sedentarietà la condizione dell’uomo. Essa non è fissata per via genetica. A ben vedere è esattamente il suo contrario. Come ha fatto Abramo che è andato, è partito per cercare una terra. I processi migratori rappresentano una costante storica, che cambia anche il valore del concetto di patria: non più terra e confini, ma ragione e anima. Quando ce ne renderemo conto?La globalizzazioneQualche mese fa negli stessi giorni si sono svolti a New York e a Porto Alegre due riunioni importanti: il World Social Forum e il World Economics Forum. Da una parte i contestatori globali, dall’altra la classe dirigente globale. Eppure l’orizzonte sembra unico e la contrapposizione è più immaginaria che reale.Il movimento comunemente definito “no-global” sembra essersi lasciato dietro di sé molta simbologia e molti miti. Così come anche il club dei potenti, dai Capi di Stato ai top-manager ai guru della finanza, sembra aver chiuso nell’armadio una certa supponenza di, comunque, avere sempre ragione.Sicuramente hanno influito i fatti dell’11 settembre che hanno suggerito a tutti gli attori della scena mondiale maggiore serenità, pur nella fermezza, e il pensiero che una divisione tra i soggetti della società civile e della politica, un arroccamento su questioni ideologiche e di principio, sia la strada peggiore che oggi il mondo possa intraprendere.E questa l’età della globalizzazione e si discute come usarla bene. In essa non vi è iscritta una storia unica. Essa non ha uno sviluppo deterministico previsto da calcoli matematici circa la quantità e la qualità. Il punto centrale è come evitare che la globalizzazione sia fonte di risentimento, sia innesco per vari fondamentalismi: o contro il modello economico liberale, normalmente identificato con il modello americano, o contro le esigenze dei popoli da parte di un’economia che ha come fine solo la massimizzazione del profitto e l’efficienza nelle rendite.L’indeterminatezza ha creato qualche problema soprattutto nel movimento dei “no-global”. Un parte di esso ha puntato su concetti quali l’autarchia, la separazione, il ritorno ai miti delle piccole patrie, dell’economia di nicchia. Alcuni dei “no-global” sono più protezionisti dei signori dei WTO (Organizzazione mondiale del commercio), per la difesa dei formaggi o delle verdure o della carne. è mancato in una parte del movimento la capacità di vedere la globalizzazione come dimensione mondiale che mette insieme, ma allo stesso tempo salvaguardia, tante totalità parziali, nazionali e regionali. è mancata insomma la ricerca delle opportunità della globalizzazione. La parte invece più accorta del movimento, rappresentata soprattutto dai movimenti del mondo cattolico internazionale, si è posta il problema della realtà e ha concluso che spesso nell’analisi circa la globalizzazione c’è un elevato coefficiente di immaginazione.Cioè al cuore della globalizzazione si mette soprattutto il suo lato immaginario, popolato di gnomi cattivi, di mostri generati dalle cause e dai fini dell’economia. Insomma non si analizza la globalizzazione, ma i suoi effetti psicologici e si fatica a convincersi che bisogna invece mettere insieme eredità e innovazione, continuità e cambiamento.Sul tema della globalizzazione è molto importante il punto di vista dell’osservatore, cioè il punto da dove l’osservatore guarda, sia esso un top-manager o un animatore sociale delle periferie africane. Esso condiziona la visione e naturalmente induce a formulare previsioni e prospettive diverse per il futuro.Chi magnifica solo i vantaggi della globalizzazione e chi altrimenti ne constata solo le drammatiche sofferenze non fa un buon servizio all’umanità. Entrambi si troveranno a camminare su un versante perdente, perché o troppo entusiasti o troppo pessimisti.Le sfidePer loro la scelta è solo tra rivoluzione e conservazione.Mentre la globalizzazione può essere una sfida positiva per trasformare i disagi, un sistema che aiuta allo stesso modo ricchi e poveri, una rete di poteri, di soggetti collettivi che dialogano e collaborano al servizio della crescita delle capacità di tutti.Dietro a questi fatti vi sono evidentemente e chiaramente delineate alcune visioni dell’uomo e del rapporto tra gli uomini.La cosa importante è metterle in chiaro, “narrarle”, cioè offrirne insieme i dati oggettivi e un criterio di lettura.Questo è il compito dei media. Perché il problema sono le parole, che spesso sono state rese ambigue dall’uso che se ne fa. Le parole non devono sbalordire, ma informare e chiarire, che vuol dire illuminare la vita con il vigore del linguaggio e con la forza degli argomenti: la più grande sfida che si offre ai cristiani di oggi.