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L'immigrato come persona provvisoria
Al traguardo la legge Bossi-Fini

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/02


di Domenico Rosati
Al di là di ogni diversa affermazione, la legge Bossi-Fini si iscrive nell’orbita di quegli strumenti legislativi, adottati o in corso di elaborazione in tutto il mondo occidentale, che si ispirano all’antica quanto velleitaria aspirazione della “immigrazione zero”. Che non vuol dire blocco assoluto degli ingressi ma pretesa di fissarne unilateralmente in modo rigido il “se”, il “quanto”, il “quando” e il “come”, senza troppo curarsi del “perchè”, cioè delle condizioni per cui si determinano i movimenti migratori dai paesi poveri ai paesi ricchi, delle ragioni cioè per cui quelli cacciano e questi attraggono persone in cerca di speranza. Sotto questo profilo a norma che meglio illustra questa tendenza è rappresentata dall’eliminazione dell’obbligo, per il governo, di fissare annualmente i “flussi” delle ammissioni, conferendo all’esecutivo un potere discrezionale che si pensa possa anche non essere esercitato quando si ritenga di aver fatto il pieno. Si tratta, per la verità, di uno strumento ambivalente, che può essere usato per dilatare le maglie della rete per assecondare le richieste di sanatoria che si manifestano abitualmente in situazioni di blindatura delle frontiere. Più queste sono serrate, più si producono infiltrazioni senza controllo, più si fa pressante la domanda di regolarizzazioni a posteriori. Accade negli Stati Uniti, dove il “vallo messicano” è continuamente perforato; non si vede perché non dovrebbe accadere in Europa.Anche sul vecchio continente, a dire il vero, la tendenza è quella del potenziamento delle “difese”. In attesa di norme uniformi per tutta l’Unione, ogni Stato provvede a se stesso con regole imperniate, in un modo o nell’altro, sulla dottrina del contenimento e quindi sul rafforzamento delle misure di ordine pubblico, di vigilanza, di repressione e prevenzione, che hanno la finalità dichiarata di rendere difficili e quindi di scoraggiare gli ingressi legali, immaginando che in un sistema così organizzato sia meno disagevole prendere di petto e stroncare il fenomeno della clandestinità con tutti i suoi corollari di disagio urbano e di criminalità più o meno diffusa.Per l’Italia, le intenzioni in materia erano state chiaramente proposte agli elettori dalla coalizione politica che ha vinto le elezioni del 2001. Alla voce “sicurezza” del programma si leggeva: “Regolamentare l’immigrazione clandestina, fonte di criminalità. Ogni anno le regioni, dopo un’analisi congiunta con sindacati e imprese, definiscono le possibilità di accoglienza. Il governo deve stanziare aiuti finanziari condizionati a programmi concreti e sospendere gli aiuti ai paesi che non reprimono adeguatamente l’emigrazione clandestina. Creazione di una banca dati per l’identificazione attraverso le impronte digitali ed espulsione immediata dei clandestini”. Ancor più chiaro quel che era scritto alla voce “legge e ordine”: “Entra in Italia solo chi vuole lavorare e ne ha la realistica possibilità. Non, come finora, quote di extracomunitari, ma quote di operai, di falegnami, di infermieri, ecc, con in mano un contratto di lavoro”. A queste proposizioni si sono fedelmente attenute, in modo sostanzialmente omogeneo, le componenti della maggioranza nel corso dell’iter parlamentare della legge, ben più rapido di quello che dovettero seguire le proposte della legge Turco-Napolitano, sul cui impianto si innesta la nuova normativa.Forte del consenso popolare ricevuto ed anche, va detto, di una certa rassegnazione di coloro che in ogni campo avrebbero potuto argomentare in contrario (quelli che lo hanno fatto non hanno oltrepassato la barriera della maggioranza) il governo ha potuto portare a casa un dispositivo che, nella sostanza, riproduce e specifica le intenzioni dichiarate in sede elettorale. A differenza della maggioranza di centrosinistra che, a suo tempo, aveva cercato il compromesso con l’opposizione (ad esempio accantonando la proposta di concedere il voto amministrativo agli immigrati integrati), la maggioranza di centrodestra non ha accettato modifiche, se non quelle derivanti da istanze oggettive o da richieste della componente centrista/cattolica della maggioranza stessa. Ma il cuore del progetto non è stato scalfito. Ragioni oggettive hanno impedito che si desse seguito all’idea di istituire in modo lineare un reato di immigrazione clandestina, non presente negli ordinamenti europei, che avrebbe oltretutto intasato le prigioni. E l’eccezione introdotta per le “colf”, le “badanti” e gli infermieri ha certamente aperto una breccia per il transito di altri soggetti fuori quota. Una sorte non felice è toccata invece alla proposta di mantenere l’istituto dello “sponsor”, attraverso il quale realizzare un contatto umano, e non solo cartaceo, tra chi domanda e chi offre lavoro. Malgrado il diverso avviso di molti soggetti che ne avevano fatto esperienza non negativa, si è evitato di dare un giudizio di merito sui risultati (ed eventualmente sugli abusi) di tale percorso e si è passati a sostituirlo con una sorta di percorso ad ostacoli nel quale tutto è rimesso al funzionamento delle meccaniche istituzionali, nei luoghi di reclutamento all’estero e di inserimento in Italia. L’innovazione più significativa della legge è senza dubbio l’ istituzione del “contratto di soggiorno” in base al quale l’ingresso e la permanenza in Italia sono possibili solo per chi eserciti un’attività lavorativa, anche a tempo determinato. Chi perde il lavoro ha un breve termine per trovarne un altro; se no, torna in patria. Presentata come una trovata originale e risolutiva, questa norma ha almeno due precedenti importanti: quello della legislazione del “ventennio italiano” che, per frenare l’afflusso di persone nelle grandi città lo condizionava all’esistenza di un contratto di lavoro e di un contratto d’affitto; e quello della legislazione tedesco-occidentale degli anni sessanta e settanta, imperniata sulla figura del “lavoratore-ospite” (gastarbeiter), ingaggiato a tempo determinato come fattore di flessibilità in una fase di impetuoso sviluppo economico. Il tema della casa torna anche in Italia come onere per il datore di lavoro, sul quale gravano anche le spese per il rimpatrio dell’addetto licenziato oltre al dovere di sorveglianza sulla regolarità della posizione dei dipendenti extracomunitari, a scanso di pene pecuniarie e detentive. Grande enfasi è stata posta dai sostenitori della legge sulle scelte compiute a proposito della effettività dell’espulsione dei non aventi diritto al soggiorno/lavoro. In effetti si riproduce il meccanismo dell’espulsione amministrativa, affidata cioè alle autorità di polizia, con tempi assai ristretti per l’intervento della magistratura e con la…complicazione per cui l’immigrato che si ritenga ingiustamente espulso, può fare bensì ricorso contro il provvedimento, ma deve farlo dal paese in cui è andato a stabilirsi dopo l’espulsione. Su un’opzione di questo genere pesa, come è naturale, un’ipoteca di dubbia costituzionalità che non può essere affrontata, come pure si è fatto, esprimendo la volontà di cambiare… la Corte Costituzionale.Per i ricongiungimenti familiari, è prevalsa la tesi per cui il cittadino extracomunitario regolare, può far entrare in Italia il coniuge, i figli minori o quelli maggiorenni che non possano provvedere al proprio sostentamento e, inoltre, i genitori ultrasessantacinquenni che nessun altro figlio sia in grado di mantenere. Dove è chiara l’intenzione limitativa, ma meno chiara la possibilità concreta di accertare, nei paesi d’origine, le condizioni economiche effettive dei nuclei familiari dell’immigrato regolare. La questione dei ricongiungimenti, ad di là del sapore non gradevole di ogni contrazione dei diritti della famiglia (con la ovvia eccezione di quelle unioni che si combinano al solo scopo di aggirare le regole d’ingresso) perde tuttavia di importanza in un contesto legislativo che prende in considerazione soltanto la figura dell’immigrato/lavoratore e fissa per lui un percorso di permanenza drasticamente agganciato al perdurare del rapporto di lavoro. In questa luce si comprende che le restrizioni ai ricongiungimenti familiari non sono collegate alle disposizioni specifiche, ma alla struttura fondante del sistema degli ingressi. Il che sposta l’attenzione dal tema del ricongiungimento a quello dell’integrazione. Altre questioni hanno attirato l’interesse dell’opinione pubblica, come quella dell’introduzione dell’identificazione mediante le impronte digitali, della quale è stato lamentato il carattere discriminatorio in quanto il trattamento sia riservato ai soli immigrati, mentre non c’è difficoltà ad adottare a scala universale una tecnica del genere. Ci si può chiedere allora perché non accelerare i processi di generalizzazione delle impronte anche per togliere spazio alle proteste che da molte parti si sono levate in proposito. E ci si può persino consolare di fronte al fatto che altrove il tasso di discriminazione raggiunge livelli più allarmanti, come negli Stati Uniti dove il prelievo dattiloscopico pare essere riservato a coloro che provengono dai paesi dell’ “asse del male”, e dunque agli islamici di ogni ordine a grado. Ma la nota critica sul caso italiano resta giustificata se si considera la misura adottata in relazione alla impostazione già di per sé restrittiva del provvedimento ora varato.Anche sul diritto d’asilo l’indirizzo seguito è quello della restrizione e della discrezionalità, che si manifesta soprattutto attraverso le procedure accelerate introdotte per l’esame delle domande e per il rischio che l’intreccio di esse con l’applicazione dell’espulsione amministrativa dei clandestini porti ad esiti di violazione di un diritto umano fondamentale, riconosciuto dalle convenzioni internazionali e inciso nella stessa Costituzione italiana. Una legge specifica sull’asilo e sulla così detta “protezione umanitaria” avrebbe evitato interferenze negative; ma qui la responsabilità va addossata alla maggioranza della passata legislatura che non seppe, non volle o non potè, dar corso conclusivo ad un testo di legge organico sul quale si era manifestata un’ampia convergenza di consensi.Alla luce delle considerazioni che precedono, una valutazione concentrata sull’architettura tecnica della legge porta a confermare quanto, alla vigilia del dibattito parlamentare, e con intenti nettamente costruttivi fu scritto nel contributo della Fondazione Migrantes e di Caritas Italiana e cioè che, senza discutere l’intento dichiarato di contrastare alcune forme drammatiche e patologiche dell’immigrazione, in particolare i traffici illeciti, alcune delle misure programmate avrebbero potuto addirittura “nuocere all’immigrazione regolare, senza tuttavia risolvere con la dovuta efficacia i problemi legati a quella irregolare”. Non si vedono infatti motivi per cui dovrebbe essere attenuata la preoccupazione già espressa nel senso che lo stretto collegamento tra il titolo di soggiorno dello straniero ed il contratto di lavoro “proietta un’immagine strumentale dello straniero, ridotto a soggetto utile solo se e fino a quando produce ricchezza”; o per non confermare il giudizio critico su una “ visione dello straniero utile come mero fattore di produzione e non come persona umana con legittimi affetti e responsabilità familiari di cui rispondere”.Riserve ulteriori sono state formulate nel corso del dibattito parlamentare, a partire da quella per cui il carattere restrittivo delle nuove regole non ridurrebbe ma allargherebbe l’estensione della clandestinità, nella quale inevitabilmente cadrebbero, con tutte le conseguenze di esposizione alla pratica criminale, gli immigrati che perdono lavoro, non lo ritrovano in tempo utile, ma vogliono restare o comunque non rimpatriare. Poiché sarà la prova del tempo e dell’esperienza a fornire i dati di collaudo e di verifica, su questo versante non c’è che da attendere. Ma altri ed assai più intriganti ed attuali sono, al di là delle tecniche, gli spunti di preoccupazione e di allarme: quelli che derivano dalla cultura di fondo che ispira il provvedimento. Una cultura probabilmente non maggioritaria ma che ha trovato nella circostanza un momento significativo di egemonia. Nel dibattito parlamentare si trovano tracce rilevanti di un modo di vedere le cose, di una visione del mondo, che descrive, nella sostanza, lo straniero come un intruso da cui difendersi con ogni mezzo. Il presupposto non dimostrato è che l’immigrazione altro non sarebbe che una manovra organizzata da una parte politica, la sinistra, per introdurre nel paese una massa di diseredati allo scopo di scardinarne la legalità, mettendo in discussione i principi e i valori della comunità. Un disegno che si sarebbe compiuto con la concessione del voto agli immigrati al fine di cambiare gli equilibri politici e che, intanto, esporrebbe il paese alla illegalità diffusa, al dilagare della criminalità, all’aumento dello spaccio di droga, alla vergogna della prostituzione, al commercio illegale; il tutto a danno dei lavoratori italiani e in spregio dei cittadini onesti. Ma non sono soltanto le voci sopratono degli esponenti leghisti a potenziare i fattori di apprensione che pure esistono nella società, come accade tutte le volte che il contatto con l’altro è imposto dalla realtà delle cose. Anche intellettuali sofisticati, come il prof. Giovanni Sartori, hanno recentemente teorizzato che la xenofobia, come paura del diverso, dell’estraneo, non è un sentimento da reprimere perché, in fondo si tratta di un atteggiamento naturale; e che la difesa dell’identità è comunque una legittima difesa.Non è questa l’occasione per verificare se una siffatta tendenza culturale abbia avuto sempre corretta risposta dai soggetti e dalle agenzie più coinvolti nelle strategie dell’accoglienza. Né si può negare che a tale deriva non abbiano saputo opporsi adeguatamente anche am-bienti presuntivamente ostili a tale visione del mondo, nella quale la difesa del gruppo, o del popolo, o della stirpe, o della comunità chiusa, prevale sull’appartenenza all’unico genere umano. C’è tuttavia sufficiente materia per alcuni rilievi che vanno oltre la legge e investono il modo d’essere delle comunità e la loro vita di relazione. Sotto questo profilo si può tranquillamente ribadire che il tratto più negativo di questa legge non è nelle tecnologie giuridiche che adotta ma nel messaggio che lancia contro una ragionevole politica di integrazione, cioè contro l’unico modo possibile per governare i fenomeni migratori senza esorcizzarli o subirli come calamità ineluttabili. La politica non è riuscita, nell’episodio della legge, a dissolvere la percezione per cui gli stranieri sono un pericolo e dunque meno ne arrivano e meno si trattengono, meglio è. La deriva culturale in atto fa di più e di peggio: consiglia di blindare non solo le frontiere ma anche i sentimenti e i pensieri. Il contesto internazionale alimenta tali spinte. Non sono in giuoco solo le dimensioni e la qualità dell’accoglienza ma, se è lecito usare quest’espressione, anche il livello di civiltà della società italiana. Il rischio è che possa instaurarsi uno spirito di resa di fronte alla determinazione con cui si esprimono le voci più forti del coro.Esistono in Italia di energie in grado di rilanciare con vigore il tema culturale dell’integrazione? Finora s’è lavorato su un’ipotesi di accoglienza, circondata da cautele che non la vanificassero. Ora molti segnali mostrano che la prospettiva va mutando. Se non avviene una diffusa presa di coscienza del carattere “di civiltà” che il tema delle migrazioni suscita, un eccesso di passivo allineamento, convinto od opportunistico che sia, può offrire agli alfieri di tale cultura persino la gratuita certificazione di essere nel giusto.