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Dalla paura all'accettazione della diversità: un itinerario possibile


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/02


di Carlamaria Del Miglio
In filosofia della scienza s’intende per paradigma il modo di spiegare i fenomeni al quale s’ispira la comunità scientifica a un certo stadio di sviluppo storico di una determinata disciplina.Per quanto riguarda la spiegazione perseguita dalla ricerca scientifica, essa risulta strettamente legata alle nozioni di causalità (relazione fra la causa e l’effetto) e di determinismo (concezione secondo la quale tutti i fenomeni sono determinati da cause). Indipendentemente o meno dall’evoluzione che le nozioni appena dette hanno subìto nel tempo (dalla causalità semplice a quella multipla e retroattiva; dal determinismo tradizionale all’indeterminismo o incertezza), in ambito psicologico continuano a coesistere e non di rado a intersecarsi tanti modi di spiegazione quante sono le categorie semplici o composite di fattori causali di volta in volta messe a fuoco. Troviamo così spiegazioni di tipo biologico, psicoanalitico, genetico, ambientale, sociale, culturale, ecc.C’è di più. Sempre in psicologia, restano molteplici le vie di approccio alla realtà psichica. Abbiamo così, per limitarci all’essenziale: l’approccio filogenetico imperniato sull’acquisizione della specie e quello ontogenetico imperniato sulle acquisizioni dell’individuo; l’approccio comparativo che mette a confronto le caratteristiche psicologiche delle diverse specie viventi oppure quelle di categorie di soggetti appartenenti alla stessa specie ma che differiscono tra loro per una o più caratteristiche (età, sesso, appartenenza culturale, livello d’istruzione, classe socio-economica, professione, ecc.); l’approccio clinico che studia in modo approfondito il funzionamento psicologico della singola persona. Ciascun tipo di approccio comporta un modo di spiegazione che va ad aggiungersi a quelli che derivano dalla messa a fuoco di una o più categorie di fattori causali.Nel ginepraio delle spiegazioni date a uno stesso fenomeno di ordine psicologico non è facile districarsi, ma la rielaborazione teorica dei dati empirici disponibili a volte consente di impostare in modo nuovo una determinata problematica e/o di scoprire nessi tra spiegazioni diverse. Può realizzarsi per tale via un cambiamento di paradigma o, per essere più modesti, l’introduzione di un nuovo modello esplicativo che allo stesso tempo può essere anche di previsione.E questa la chiave di lettura del presente contributo caratterizzato da un duplice movimento: uno classico che va dall’individuo a una società multiculturale (convivenza di culture diverse in uno stesso territorio) e l’altro di retroazione che da una più o meno ipotetica società interculturale (interazione fra culture diverse che si valorizzano reciprocamente) torna all’individuo.Fungendo da premessa, tutto ciò può anche sembrare scoraggiante, ma si presume che alla fine del discorso sarà tutto più chiaro.La paura è un’emozione. Il termine emozione indica un insieme complesso di fenomeni che si manifestano su almeno tre piani: fenomenico-esperienziale; fisiologico; espressivo-comportamentale. Si tratta in generale di stati affettivi meno duraturi ma più intensi dei sentimenti.Gli autori che sostengono l’esistenza di emozioni di base o primarie ne individuano almeno sei fondamentali: appunto la paura, la rabbia, la gioia, il disgusto, la sorpresa, la tristezza. Ritengono che queste emozioni siano il risultato di un processo evolutivo, filogenetico e ontogenetico, che ha selezionato comportamenti adattivi al fine di mobilitare le risorse dell’organismo per affrontare in modo rapido ed efficace le richieste dell’ambiente2.Reazione emotiva eminentemente adattiva per il ruolo che svolge nella sopravvivenza dell’organismo, la paura assume forme patologiche in alcune circostanze: quando immobilizza il soggetto e lo rende rassegnato invece che attivo; quando si generalizza esageratamente a stimoli inoffensivi (fobia); quando, sia per anticipazione che per il persistere dello stato emotivo (ansia, angoscia), si insedia nel tempo ben al di là del momento in cui l’organismo è effettivamente esposto al pericolo.La paura di cui ci occupiamo in questa sede (e in una prospettiva particolare) è dunque un’emozione cui bisogna anzitutto attribuire un imprescindibile significato biologico. Risulta infatti legata a una stimolazione che ha valore di pericolo per l’organismo (animale o uomo che sia), del quale salvaguarda l’incolumità. I correlati fisiologici, neuroendocrini e comportamentali della paura variano a seconda della specie e dell’intensità dell’emozione. Nell’uomo, in particolare durante una crisi di panico (episodio acuto d’ansia), si registra un aumento della tensione muscolare, del ritmo cardiaco e respiratorio, dell’attività gastro-intestinale.Restando al di qua della crisi di panico, la paura colpisce in misura variabile ogni essere umano, al punto che secondo uno dei primi psicoanalisti che abbia tentato con largo seguito un’integrazione fra psicoanalisi e psicologia infantile, René Spitz (1887-1974), il bambino al terzo mese di vita piange perché riconosce nell’altro da sé il volto estraneo e ne ha paura. Si tratta di un fenomeno che è stato definito come il primo organizzatore dell’Io e del quale è stata sottolineata la grande portata scientifica e culturale. Si può dire in generale che l’esperienza della paura lascia tracce indelebili nella mente umana, tracce che possono riemergere in forma più o meno drammatica sia a livello cosciente che nei sogni4.Si tratta peraltro di un’emozione che nell’essere umano può generare grossi problemi di adattamento. Ad esempio, le fobie prendono origine da paure di cui spesso si è perduto il ricordo cosciente. Esse possono bloccare il normale andamento della vita di una persona limitandone la libertà di movimento e costringendola a cerimoniali inutili, ma vissuti come rassicuranti ed essenziali al benessere fisico e psichico.Molte persone, non essendo consapevoli delle proprie paure, limitano la propria vita sociale e personale, venendo a compromessi con l’angoscia che determinate situazioni scatenano in loro. E bene prenderne coscienza per cercare di ovviare a un dispendio di energie che invece potrebbero essere incanalate in modo produttivo.Nell’uomo la paura, come tutte le altre emozioni, ha innegabili basi biologiche, ma anche basi di tipo culturale. Già presente negli animali (nel ratto recentemente si è individuato il cromosoma 5 preposto a questa emozione specifica), subisce a livello umano delle trasformazioni storico-culturali rilevanti. Questo significa che, pur avendo una base innata comune a tutti gli organismi viventi, l’educazione ricevuta (soprattutto nei primi anni di vita) apporta modificazioni nel comportamento e conduce a manifestazioni molto diversificate. La paura riflette così, oggi come ieri, situazioni spicciole legate alla vita quotidiana del singolo individuo (paura dei ragni, del buio, del vuoto, dei serpenti, paura dello sporco, paura di arrossire, paura di attraversare la strada, di entrare in grandi ambienti chiusi come le gallerie, i supermercati, i cinema), come pure ombre e minacce di portata più vasta, legate ai gruppi e alle comunità (paura dei neri, degli ebrei, delle teste rasate, di ogni tipo di immigrati, degli zingari…).Il sistema nervoso dell’individuo entra comunque in azione sia davanti a stimoli che il soggetto percepisce minacciosi sia in assenza di qualcosa che egli vive come rassicurante e protettivo. Per esempio, l’assenza di una figura materna o comunque protettiva può scatenare reazioni fisiologiche tipiche di emozioni negative quali sono la paura e l’angoscia.L’osservazione degli animali ci dice che di fronte al pericolo l’animale può comportarsi in modi diversi: può cercare di evitarlo dandosi alla fuga; può decidere di affrontarlo, cioè di attaccare; può immobilizzarsi mimetizzandosi con l’ambiente naturale circostante, quasi per nascondersi. Si tratta di comportamenti fondamentali che trovano corrispondenza a livello umano e la cui attuazione dipende sempre da fattori contingenti relativi alla situazione e al soggetto: difesa della prole, del proprio territorio, dei propri beni, della propria identità. Talvolta è difficile distinguere la paura dall’aggressività, perché l’aggressività sembra una risposta adeguata a uno stimolo percepito pericoloso per sé, per i figli o per il gruppo.Esiste quindi un’aggressività reattiva che si manifesta quando l’individuo si trova di fronte a stimoli che ritiene pericolosi per il suo benessere o per quello del gruppo. Se questi stimoli diventano inevitabili, le soluzioni possibili nell’uomo sono due: o negarne l’esistenza (soluzione psicotica, altamente patologica) o reagire aggressivamente.La reattività agli stimoli allarmanti può variare sensibilmente da un individuo all’altro: stimoli che non suscitano né fuga né aggressività in alcuni soggetti possono invece risultare scatenanti in altri, sia a causa delle aspettative che dei tratti di personalità. Alcuni soggetti sembrano più propensi a rispondere alla paura e all’insicurezza con l’aggressività eterodiretta, mentre altri si immobilizzano fino a diventare catatonici, oppure si ripiegano nevroticamente su se stessi.L’aggressività appare dunque come una delle possibili risposte alla paura che consente, se eterodiretta, di orientare e circoscrivere le proprie angosce a un nemico esterno da combattere. Colui che aggredisce in risposta all’ansia dà un volto esterno alla sua paura: comportamento in definitiva più sano di quello del nevrotico che tenta di padroneggiare le sue paure aggredendo se stesso o che le nega e non agisce in alcun modo.Molti rapporti umani sono caratterizzati da un’ambivalenza altalenante; mentre alcuni riescono a districarsi tra sentimenti opposti e trovano un certo equilibrio comportamentale, altri non riescono a tollerarli e diventano ansiosi. Lo diventano perché in definitiva hanno paura: non solo quando pensano di essere aggrediti, ma persino quando si accorgono che l’altro sottrae loro tempo e attenzione, nella misura in cui è impegnato nella sua propria vita da realizzare3. Per un numero imprecisabile di operatori sociali o sanitari, caratterizzati nei loro interventi di aiuto da superficialità, impazienza e addirittura da incapacità di ascolto, si tratta di uno spunto di riflessione importante.L’ambivalenza affettiva nei rapporti umani cui si è appena accennato può considerarsi, entro certi limiti, normale. Essa può dar luogo ad alcuni conflitti intrapsichici coscienti come può esserlo il conflitto tra un dovere e un desiderio, tra due desideri contrastanti o tra un desiderio e l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Quando l’ambivalenza è accentuata e la sua origine sfugge alla consapevolezza produce un sintomo nevrotico (per esempio, fobia), nel tentativo di apportare una soluzione al conflitto che si è instaurato. Di fatto, secondo la psicoanalisi, tutti i conflitti derivano da conflitti inconsci dei quali sono l’espressione del momento.D’altra parte la conflittualità è anche uno dei nodi centrali della vita di relazione. Alcuni ne hanno paura e fanno di tutto per negarla e per bandirla dalla loro esistenza, anche al prezzo di costi eccessivi. In molte circostanze, invece, chi affronta e risolve, se possibile, un conflitto interpersonale avvia un processo di cambiamento e di crescita personale. Ma bisogna prendere atto del fatto che non tutti sopportano la tensione di promuovere anche un semplice “chiarimento”.La conflittualità non esiste solo a livello di psiche individuale e nelle relazioni tra singoli individui: ci sono anche i conflitti di culture 1 che consistono in divergenze di credenze, regole e valori legate alle interazioni fra gruppi culturalmente diversi. Come esito di questo genere di conflitti si può avere l’emergenza di sottoculture, si possono generare pressioni di isolamento o di assimilazione da parte di gruppi culturali maggioritari, come pure possono essere messe in atto da gruppi minoritari strategie di scontro e di contrattazione per il riconoscimento della loro specifica identità.A prescindere dagli esiti solitamente a lungo termine che può avere un conflitto di culture, si verificano comunque tra i gruppi interazioni sociali 1, cioè processi interpersonali tali che gli individui a contatto modificano temporaneamente i loro comportamenti gli uni di fronte agli altri per stimolazione reciproca continua. Si tratta di un fenomeno di grande rilievo per molteplici motivi, ma soprattutto perché l’individuo, ogni individuo, si sviluppa e si organizza sempre nel gruppo. L’appartenenza al gruppo consente infatti la comprensione e l’anticipazione delle attività altrui; permette anche di modificare il proprio comportamento, tenendo conto del punto di vista dell’altro. L’estraneo, il diverso culturalmente, l’appartenente ad altri gruppi, in particolare se poco frequentati e poco conosciuti, può costituire un problema, far paura, obbligare a ripensamenti, a prese di coscienza della diversità che è comunque a doppia via, anche se è più facile sottolineare solo la diversità dell’altro e non la propria.Bisogna chiamare in causa a questo proposito i meccanismi di difesa 1, cioè i diversi mezzi impiegati dall’Io per dominare, controllare, incanalare i pericoli interni ed esterni, supposti o reali. Essi sono numerosi e differiscono fra loro per il grado di coerenza con la realtà così come viene percepita dall’individuo che li mette in atto in modo più o meno consapevole. La proiezione e l’introiezione, in particolare, sono i meccanismi che più spesso vengono utilizzati quando l’individuo ha a che fare con un estraneo o con un gruppo di estranei che conosce poco o male e da cui si sente, a torto o a ragione, minacciato, a volte in assenza di qualsiasi motivazione concreta.La proiezione 1 è l’operazione mediante la quale un soggetto localizza fuori di sé, in persone o cose, ciò che rifiuta o non vuole riconoscere come proprio. Il meccanismo proiettivo agisce così nella paranoia, allorché il soggetto riferisce ad altri sentimenti, qualità, desideri intollerabili che misconosce o rifiuta in se stesso. Ecco perché agisce contro, sotto l’apparenza di un’azione di difesa dai suoi nemici. In modo analogo, nella fobia il soggetto si comporta come se il pericolo dell’angoscia che lo minaccia non provenisse dal suo interno, dalle sue pulsioni, ma dall’esterno, dalle cose o dagli altri. In questo caso egli reagisce con tentativi di fuga o mettendo in atto meccanismi di negazione.L’introiezione 1 è un meccanismo inconscio di incorporazione di un oggetto che consiste nel far entrare il mondo esterno e nel far proprie le qualità reali o supposte dell’oggetto (persona o cosa). Può accadere che le idee o i principi degli altri e il mondo esterno invadano il soggetto che li integra senza trasformarli e assimilarli in modo personalizzato. Pertanto questo meccanismo di difesa può avere connotazioni positive, di costruzione e formazione dell’Io grazie all’incorporazione, ma può anche avere connotazioni negative, quando il soggetto non assimila, nega le differenze e non trasforma in modo personalizzato ciò che incorpora.In sostanza, facendo esplicito riferimento al “diverso”, individuo o gruppo che sia, la persona che vive paure, ansie e fobie proprie le attribuisce, mediante la proiezione, all’estraneo che poco conosce. Può così giustificare il suo rifiuto, l’avversione che prova o l’aggressività che mette in atto nei confronti dell’estraneo. In alternativa, può anche permettersi di ignorare la diversità per giustificare in tal modo il suo non voler “conoscere” e approfondire il nuovo, il non noto, il “diverso”.Mediante l’introiezione, invece, l’altro viene “fagocitato”, ma non riconosciuto e rispettato nella sua diversità e unicità. Pertanto non c’è scambio e arricchimento reciproco, in quanto viene negata e quindi persa anche la diversità di chi introietta.L’itinerario espositivo sin qui seguìto, caratterizzato dal fatto di avere come punto di partenza la paura ancestrale del diverso da sé, mantiene tutta la sua validità teorica e pratica. Sul piano pratico, in particolare, il già detto potrebbe essere utilmente sintetizzato con due proverbi abbastanza noti: Chi ha paura non vada alla guerra e Chi fa il bene per paura poco vale e poco dura. Questi due proverbi possono infatti fungere da specchio concavo in grado di riflettere, ingrandita, l’immagine della propria personalità sullo sfondo della propria realtà esistenziale.Per affrontare le problematiche della diversità esistono tuttavia altri punti di partenza. Ne scegliamo uno interessante almeno quanto il punto di partenza della paura già sviluppato. Esso è il “cambiamento”, che ha la particolarità di chiamare immediatamente in causa due nozioni strettamente legate fra loro da un rapporto dialettico: la nozione di “uguale” e quella di “diverso” 7.In psicologia l’ “uguale” (a se stesso) corrisponde alla triplice nozione di identità (culturale, sociale, individuale), inseparabile dalla differenziazione, l’equivalente psicologico di “diverso” (da se stesso).L’identità culturale riguarda l’eredità sociale che il gruppo di appartenenza del soggetto valorizza e trasmette in forme esplicite e implicite. L’identità sociale, che si esprime mediante la partecipazione ai gruppi e alle istituzioni, deriva da un processo di attribuzione e di assunzione di ruoli. L’identità culturale e sociale fanno parte integrante dell’identità individuale (o personale) del soggetto. Quest’ultima deriva dall’esperienza del sentirsi esistere (coscienza di sé) e del sentirsi riconosciuto dagli altri come essere identico a se stesso nella propria realtà fisica, psichica e sociale. Il fatto di essere riconosciuto dagli altri come individuo è importante al punto che l’identità personale viene generalmente considerata un prodotto emergente della socializzazione primaria (quella che si realizza nei primi anni di vita) e secondaria (quella che si verifica in seguito). Consiste in un processo dinamico che trova un riscontro importante nel linguaggio del bambino che pronuncia il pronome “io” verso i ventiquattro mesi.Dal canto suo il termine differenziazione in psicologia, analogamente a quanto si verifica nel campo della biologia e della sociologia, indica il passaggio evolutivo da uno stato omogeneo a uno stato eterogeneo. Si tratta più precisamente di un processo di complessificazione e affinamento che (prima dell’involuzione senile e in assenza di patologie) riguarda ogni funzione psichica e la stessa acquisizione-percezione dell’identità personale, alla quale imprime un dinamismo che rende fittizia l’idea che il soggetto possa restare uguale a se stesso solo perché vive il senso della propria continuità psicostorica.Nel soggetto psicologico l’antitesi tra l’essere “uguale” e “diverso”, tra il senso dell’identità personale e l’evoluzione emotiva, cognitiva e comportamentale si compone dunque in termini di cambiamento 5. Si tratta di una tendenza presente in tutti gli individui, sani e malati, con la differenza che in questi ultimi viene ostacolata da conflitti emozionali o da un’immagine di sé distorta.Il cambiamento inteso come trasformazione evolutiva dell’individuo verso la realizzazione delle sue potenzialità (autorealizzazione) è sempre il risultato di due forze: una propulsiva e l’altra di resistenza. Quest’ultima, secondo la psicoanalisi, sta al centro della cura in quanto la terapia consiste proprio nel vincere l’opposizione al cambiamento che connota il sintomo nevrotico.In prospettiva psico-sociale, il cambiamento è il risultato delle interazioni dell’individuo con il gruppo. Le interazioni consentono infatti l’introiezione nel singolo dei pensieri, delle emozioni e dei presupposti degli altri che in tal modo ampliano il mondo di lui ben al di là di ciò che uno sforzo senza aiuto potrebbe raggiungere.Tra le forze che sollecitano l’adulto verso più elevati livelli di consapevolezza, bisogna annoverare la motivazione alla conoscenza. Essa affonda le sue radici nella curiosità che troviamo sviluppata, soprattutto in età giovanile, in tutti i vertebrati superiori, sotto forma di esplorazione dello spazio e degli oggetti circostanti. A differenza degli animali, la curiosità umana non si esaurisce nel gioco e nelle continue domande rivolte dal bambino agli adulti: in condizioni di normalità, essa permane in qualche misura e variamente indirizzata lungo l’arco dell’intera esistenza. La sua matrice sessuale (secondo Freud) può essere infatti sublimata e incrementata, per sfociare in vari interessi di studio e di ricerca. Viceversa può essere repressa, con la conseguente inibizione di qualsiasi interesse conoscitivo.Un’evenienza, quest’ultima, da scongiurare, perché conduce a un sicuro impoverimento e ottundimento della persona, con le conseguenze fortemente negative di chi agisce in modo automatico e stereotipato in ogni ambito di vita.Il diffuso malessere che sembra caratterizzare le società occidentali può essere interpretato come il “male oscuro” dell’era post-moderna con esiti (secondo alcuni) persino letali per la nostra civiltà, oppure può essere interpretato come una crisi di crescita collettiva vissuta in modo conflittuale e prolungato. L’incapacità degli addetti ai lavori (la comunità scientifica) di individuare in modo univoco la natura e le cause del male lascia ampio spazio all’ipotesi che sia in corso una vera e propria crisi di crescita della società.Precisamente in questo ampio spazio si colloca il paradigma della diversità 7. Si tratta in sostanza di ipotizzare che l’irruzione della diversità nella realtà culturale abbia avviato un processo di differenziazione pervasivo che coinvolge i meandri più profondi della soggettività individuale e in particolare i processi di costruzione dell’identità personale legati all’appartenenza culturale.Il passaggio da una convivenza fondata sull’unicità e sulla coerenza del codice culturale a una convivenza caratterizzata dalla varietà delle proposte, dei codici, degli orientamenti e degli stili di vita5 incontra forze di resistenza che agiscono a tutti i livelli, incluso quello istituzionale, ritardando la risoluzione della crisi.Durante ogni processo di sviluppo (individuale o collettivo) la crisi è un momento acuto di squilibrio che può protrarsi nel tempo, ma che precede comunque un cambiamento decisivo. Sapere che questo cambiamento consisterà nel passaggio da una società multiculturale a una società interculturale apre agli individui, alle comunità (inclusa quella scientifica) e alle istituzioni la possibilità di gestire in modo non conflittuale la paura del nuovo e di allentare a tutti i livelli le resistenze alla risoluzione della crisi.Si tratta in definitiva di ravvisare nella diversità del culturalmente diverso non un elemento di disturbo da annientare, assimilare o emendare, ma una ricchezza da accogliere e valorizzare, fermo restando che l’onere del cambiamento non è esclusivamente a carico del soggetto che si deve integrare, ma anche a carico del contesto sociale di accoglienza.In pratica la soluzione della crisi in atto sta nelle mani di chi è in grado di scegliere operativamente la diversità senza disperdersi. Nell’ampio ventaglio delle scelte possibili, a un estremo si colloca quella teorica (il paradigma della diversità) e all’altro estremo quella di vivere con i diversi. In ambedue i casi e in tutti i possibili casi intermedi si promuove, con diverso impegno e diverso merito, il passaggio dalle logiche della società multiculturale a quelle della società interculturale, vale a dire il passaggio dalla tolleranza e dal rispetto verso chi è diverso culturalmente alla prospettiva più ampia e articolata della solidarietà e della condivisione.