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"Tutti figli di Dio" (Gal 3, 23-29) (M.Compiani)
Traccia di riflessione biblica

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/10


Mettendo a confronto la legge di Mosè e la fede in Cristo, con un crescendo di argomentazioni Paolo richiama ai Galati cristiani l’eccellenza della loro relazione a Cristo. Tale relazione non solo rende «tutti uno in Cristo Gesù» (3,28), ma mostra anche una singolare potenza nel rendere «tutti figli di Dio» (3,26), senza che in ciò abbiano valore distinzioni etniche, civili e perfino sessuali («non c’è giudeo, né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né donna» 3,28).
Indurre le comunità cristiane a riflettere su Gal 3,23-29 nel contesto dell’attuale società italiana, è scelta di indubbio valore che comporta però qualche rischio. Di valore perché spinge i credenti a confrontarsi con aspetti profondi della propria identità, il che costituisce, tra l’altro, una presa di posizione matura e una risposta sapiente alle tante provocazioni e sfide culturali di cui essi sono fatti oggetti. Il rischio scaturisce dal fatto che, in un clima saturo di contrapposizioni socio-politiche, il ricco pensiero paolino sia compreso e utilizzato strumentalmente per avvallare precomprensioni ideologiche più che per animare scelte di fede. L’intento del presente articolo è perciò di offrire alcune linee orientative che permettano di inquadrare questo testo di Galati secondo la prospettiva dell’apostolo stesso e di tutti i suoi scritti.
Prima di tutto, le sorprendenti affermazioni sulla fede di Gal 3,23-29 mettono in luce la prospettiva apocalittica che soggiace al discorso. «L’appartenenza a Cristo» (3,29) opera una «nuova creazione» (cf. 6,15). Mediante la fede suscitata dall’annuncio del Vangelo (cfr. 1,7.8.9.11; 2,5.7.9.14; 4,13), nel credente si concretizza e si rende visibile una nuova identità che lo spinge ad un’unione sempre più profonda a Cristo stesso, a tal punto da esserne «rivestito» (3,27). In tale dinamismo nessun’altra determinazione ha valore, né il ruolo della Legge di Mosè può essere in qualche modo equiparabile.
Qui Paolo offre una valutazione della Legge sostanzialmente negativa. Essa è servita a «rinchiudere sotto sorveglianza» (3,23) l’uomo finché non è giunto il tempo della fede. Il linguaggio di tipo penale suggerisce che all’uomo era impedita una qualunque possibilità di fuga, obbligandolo a una condizione di schiavitù da cui solo la fede in Cristo lo ha riscattato. La metafora del «pedagogo» (3,24-25) applicata alla Legge ribadisce questa valutazione negativa. Più che all’aspetto «educativo» di tale figura, l’immagine fa infatti riferimento alla sua condizione di costrizione e transitorietà. «Rinchiusi sotto il peccato» (3,22), gli ebrei soggiacevano alla vigilanza della Legge la cui funzione evoca l’immagine di un sorvegliante di prigionieri, dal momento che essi non avevano ancora raggiunto una condizione di maturità. La Legge infatti «fu aggiunta per le trasgressioni fino alla venuta della discendenza per la quale è stata fatta la promessa» (3,19), ma «appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto il pedagogo» (3,25).
Nell’ottica paolina la fede in Cristo è paragonabile al raggiungimento della maggiore età: finalmente l’uomo ha potuto conoscere una piena libertà e per mezzo della fede «tutti voi siete figli di Dio» (3,26). Già l’AT celebra Dio come «padre» degli uomini e chiama questi «suoi figli». Dio è definito padre in quanto creatore che nutre e si prende cura di tutte le creature (Is 64,7; Ger 3,19; Sal 68,6; 89,27), e soprattutto mostra la sua paternità nei riguardi di Israele, il «figlio prediletto», o del suo re, attraverso le sue gesta salvifiche (Es 4,22; 2Sam 7,14; Sal 2,7). L’originalità di Paolo sta nella determinazione cristologica: i cristiani ricevono il dono di essere figli di Dio in forza della loro relazione a Cristo. In poche parole: figli nel figlio. Conseguentemente a tale relazione, per i cristiani si configura una situazione che implica un rapporto di nuova figliolanza a Dio: in Cristo essi si scoprono finalmente liberati dal peccato, condizione che la Legge non può in alcun modo garantire.
Il riferimento al battesimo (3,27) spiega il modo con cui, per mezzo della fede, i cristiani diventano figli di Dio. L’immersione battesimale segna l’inizio di un’immersione «in Cristo» (3,26.27.28), un rapporto così profondo e personale da originare un mutamento interiore radicale, a tal punto che tutta la vita del credente ne diventa un visibile riverbero. L’unione a Cristo imprime un dinamismo di conformazione a lui, così che nel Figlio «tutti siete figli di Dio». La locuzione «rivestirsi di Cristo» (3,27) incarna perfettamente tale dinamismo, dal momento che essa esprime efficacemente il concreto cambiamento che investe l’aspetto interiore ed esteriore del battezzato.
Attraverso tre coppie di opposti (3,28) Paolo esplicita la portata di tale cambiamento. In Cristo tutte le differenze sono negate, non perché esse non esistano, ma in quanto tutti hanno la possibilità di essere uniti a lui tramite la fede. Questo punto va indagato e chiarito.
Il pensiero di Paolo si muove su un duplice binario: egli non nega le differenze civili, etniche e sessuali che contraddistinguono i rapporti sociali ed ecclesiali del suo tempo, nega soltanto che esse abbiano valore rispetto all’essere in Cristo. Nessuna condizione, al di fuori della fede permette di entrare e rimanere nell’alleanza stabilita da Gesù. è importante che vengano salvaguardati i due diversi contesti delle affermazioni paoline.
Le differenze etniche «non c’è giudeo né greco» non sono un impedimento all’adesione al Vangelo: esse non tolgono nulla, al contrario legittimano e rendono perfino necessarie diverse modalità di evangelizzazione per tutti i vari destinatari del Vangelo (cf. Rom 9-11)1.
Allo stesso modo le differenze civili «non c’è schiavo né libero» non hanno alcun valore rispetto all’essere in Cristo, anche se è evidente che una società, come pure la comunità cristiana, ha il compito di cercare un proprio ordine e necessita di organizzazione. A tal proposito Paolo non fa mancare le proprie esortazioni (cf. Rom 13,1-14; 1Cor 11,1-16; 12-14; 2Cor 8,1-24). Nemmeno le differenziazioni sessuali sono abrogate da Paolo, come dimostrano i suoi insegnamenti in tale ambito (1Cor 5,1-13; 7,1-16; 7,25-40; 11,1-16; Ef 5,21-33), né egli intende annullare il disegno sull’uomo e sulla donna delineato in Gen 1-2. Piuttosto, rimarcando quanto finora sostenuto, Paolo afferma che perfino l’essere uomo o donna è ininfluente rispetto all’unione nella fede con Cristo: un pensiero coraggioso rispetto alla poca considerazione che in genere la donna godeva nell’antichità.
Dunque null’altro che la fede permette di essere in Cristo trasformando il credente in «nuova creatura» (Gal 6,15), novità che si rende visibile in ogni battezzato: giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna.
Nella vita del credente, quali ricadute ha tale assolutezza della fede?
1. Il testo di Gal insegna che le differenze non vanno negate, ma al contrario riconosciute. Al contempo però, esse vanno inquadrate all’interno di un discorso di fede. Concretamente, per quanto riguarda la convivenza civile e l’impegno ecclesiale, la fede spinge il credente e cercare vie di incontro e di comunione. Proprio la gratuità generale dell’accesso alla fede impone al cristiano una sensibilità «universale»: non sono sufficienti, né tantomeno valide, ingenue rappresentazioni di utopistiche forme di società rinnovate, bisogna che maturi una vera presa di coscienza che sappia costruire ponti in grado di favorire una fraterna apertura verso tutti. In una società così conflittuale, come la nostra ciò può davvero dimostrarsi un segno profetico dell’essere «nuova creatura» (Gal 6,15).
2. In una società multietnica e multiculturale, al momento di operare scelte concrete che ne condizionano la vita sono prevedibili tensioni e sfumate prese di posizione anche in coscienze credenti. Coniugare concretamante le esigenze di ordine, di sicurezza e di giustizia con le legittime aspirazioni di cittadini dalle più disparate estrazioni culturali è infatti impresa difficile, un impegno che può condurre a soluzioni dagli equilibri instabili. Rifiutando prese di posizione precostituite, al credente il testo di Gal ricorda che proprio come il suo essere in Cristo è dinamismo in crescente evoluzione, così anche l’incontro con Cristo nei fratelli è dinamismo mai realizzato una volta per sempre. Legiferare per il bene comune è fondamentale e presuppone una conoscenza profonda della realtà, nonché una coscienza retta che con convinzione intenda agire secondo giustizia ed equità. Ciò non può tuttavia prescindere dal senso di umanità e fratellanza che sempre deve concretizzarsi nella capacità di un incontro capace di ripetersi e rinnovarsi continuamente.
3. è sempre più necessaria una profetica testimonianza che sappia anche cogliere puntualmente le questioni nodali dell’attuale società italiana. Al credente, l’insegnamento di Paolo ricorda che ciò esige la previa presa di coscienza della propria identità di fede. Si tratta di meditare con serietà, e nella preghiera, su cosa significhi oggi essere nuova creatura in Cristo e come sia visibile questo essere «rivestiti» di lui. L’appartenenza a Cristo è per il cristiano la più alta garanzia di libertà: egli non teme alcuna differenza, perché nessuna differenza minaccia la sua relazione a Cristo. Anzi, la fede stessa gli dona la lucidità per avvicinare, comprendere ed accettare le diversità e ricondurre al Crocifisso risorto tutte le sfide della vita.
4. Infine, alcune domande che provocatoriamente possiamo formulare partendo dal brano di Gal: come rapportiamo il nostro «essere in Cristo» con «l’essere nel mondo»? I credenti di oggi hanno consapevolezza della preziosità e della bellezza della fede in Cristo, così da lasciarsi plasmare da lui? Sono disposti a vivere il loro «essere in Cristo» senza lasciarsi sedurre da altri «pedagoghi»? Quanta maturità di fede mostrano nella loro vita e testimoniano all’interno del tessuto sociale? Essere «rivestiti» di Cristo implica visibilità. Dov’è oggi maggiormente necessaria una testimonianza di fede coraggiosa?
Con Paolo non dovremmo mai dimenticare che: «tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,28)2.
 
 
 
1 Paolo non dice: «non c’è più giudeo né greco…» come traducono alcune versioni (cf. CEI74, TOB92) ma «non c’è giudeo né greco» (cf. CEI 2008). L’aggiunta del più muta il senso del discorso di Paolo lasciando intendere di un tempo in cui queste differenze avrebbero avuto valore rispetto all’essere in Cristo. Invece a questo livello di appartenenza alla fede la negazione paolina è assoluta.
 
2 Breve bibliografia: A. VANHOYE, Lettera ai Galati, ILBNT 8, Milano 2000, 95-105; A. PITTA, Lettera ai Galati, SOC 9, Bologna 2000, 216-231; G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, II, Roma 1980, 9