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Australia: a colloquio con un "esperto" in pastorale migratoria (C. Toso)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/09


Donde vieni dalla Italia e da quanto tempo, P. Tony, sei missionario fra i connazionali italiani in Australia...?
Il mio paese di provenienza è Piazza Brembana, provincia di Bergamo, e sono un tifoso dell’Atalanta. Con un gruppo di bergamaschi di Perth abbiamo sempre festeggiato l’Atalanta ogni volta che ci dava la soddisfazione di battere l’avversaria di turno.
Da alcuni mesi sono ritornato nella sede di Adelaide, a Seaton, dopo un periodo intenso nella città di Perth. Ad Adelaide ho avuto il piacere di incontrarti e scambiare due chiacchere durante la tua recente tourneé che ha avuto luogo dopo il convegno dei Trevisani nel mondo a Wollongong.
In Australia, mia seconda patria, dimoro da circa 25 anni. All’esperienza australiana, devo aggiungere anche le esperienze pastorali a Manila (9 anni- 1982-1991) e in Inghilterra (4 anni - 1965-1969).
Pur occupandomi dell’emigrazione italiana, come del resto la congregazione scalabriniana a cui appartengo, sono stato più volte impegnato nella pastorale diretta agli emigranti di altre etnie. Il coinvolgimento con emigranti di altre nazionalità, e con esperienze storiche diverse, costituisce un osservatorio interessante per sviluppare un senso critico che scaturisce dai vari contesti socio-religiosi di realtà migratorie che si affacciano con una rapidità straordinaria sullo scenario mondiale.
 
Qual è la differenza che riscontri fra il primo impatto della tua esperienza pastorale e l’attuale?
Nonostante le mie esperienze in varie zone, desidero limitare il mio intervento alle migrazioni europee, particolarmente quella italiana, nel contesto australiano.
Negli anni ‘50 e ‘60, le forze dispiegate per l’assistenza agli emigranti italiani accusavano un momento di emergenza. Il mondo cattolico australiano contava 2 milioni e mezzo circa di anime e l’insediamento dei circa 300.000 emigranti italiani provocò una serie di nuove esigenze. Queste esigenze sono state in parte documentate in uno dei miei scritti “Valiant Struggles Benign Neglect. Italians, Church and Religious Societies in Diaspora. The Australian Experience from 1950 to 2000”.
In breve, il compito era di tenere vivo un mondo religioso italiano che gli emigranti avevano portato con sé, come loro bagaglio spirituale.
Il binomio, tanto caro a Scalabrini, di religione e patria coglie gli elementi essenziali della loro valigia spirituale. Gli emigranti italiani e i cattolici australiani divergevano nelle loro aspettative e vedute. Alcuni conflitti con le autorità ecclesiastiche vanno visti sotto questa luce: un lento e a volte sofferto e graduale processo di avvicinamento e di maggiore comprensione fra due visioni ed interpretazioni diverse dell’identità cattolica nel mondo contemporaneo.
A distanza di circa 50 anni si nota un miglioramento. Il lento evolversi di una storia, caratterizzata ora da una convivenza e un rispetto reciproco, sempre piu’ accentuate, ha aperto la porta alla dimensione profetica di questa esperienza. In un mondo che ha tanto bisogno di dialogo e di riflessione sul destino comune del nostro pianeta, la collettività italiana in Australia ha assunto un ruolo storico preciso e provvidenziale per i tanti gruppi di emigranti che li hanno seguiti. Se questo, da una parte, è stato positivo, dall’altra, nella maggior parte dei casi, ha avuto contraccolpi su tutto un assetto religioso-culturale a cui i pionieri italiani avevano tenuto tanto.
Mi spiego. La seconda e terza generazione di oriundi italiani, a cui la prima generazione con un livello scolastico di solito solo primario ha voluto garantire una solida base culturale finanche all’università, si sono impregnate dei valori tipici di una società molto secolarizzata e, nella maggioranza dei casi, noncurante della dimensione religiosa nella vita. Le statistiche parlano di un vero e proprio salto di qualità fra il livello di educazione acquisito dalle nuove generazioni e quello dei loro genitori e nonni.
La prima generazione ha investito parte dei propri sacrifici per mantenere i propri figli o nipoti all’università o istituti superiori e ora, a ciclo compiuto, non mancano altre preoccupazioni: quelle derivate da una sensibilità religiosa (quella dei genitori) abbandonata e a volte derisa, nella sua espressività e nel modo di viverla, dai figli e nipoti. Questi, usciti dal sistema scolastico australiano impregnato di empirismo e di scarsa dialettica religiosa, fanno fatica, pur non mancando le eccezioni, a identificasi con il retaggio culturale e religioso dei loro genitori o nonni e a mantenere una loro identificazione con la Chiesa. Il grado di confittualità, che in un primo tempo si era manifestato solo con l’ambiente australiano, è ora entrato di prepotenza nei nuclei familiari, e a volte anche nelle associazioni che si battono per una visione cristiana della vita come, per esempio, la “Federazione Cattolica Italiana” (FCI), i “Trevisani nel mondo” o i vari gruppi di preghiera.
La differenza è vistosa: mentre in un primo tempo gli sforzi delle varie congregazioni italiane, impegnate nell’assistenza pastorale agli emigranti, era rivolta a mantenere una fede, diciamo pure, “italica”, ora lo sforzo è rivolto ad un’opera che non è di restaurazione di glorie passate ma di riflessione sul come i sentimenti religiosi della prima generazione possano essere ripresi ed utilizzati, dai loro discendenti, nella riformulazione di un loro senso di appartenenza alla Chiesa e alla società australiana.
Il rischio di voltare le spalle a questa sfida è reale: le insofferenze e le chiusure sia da una parte che dall’altra parte sono reali.
 
Noti differenze di situazioni socio-culturali-religiose fra gli italo-australiani residenti nelle differenti località di codesto continente, anche riguardo la percentuale di pratica religiosa domenicale?
Non esistono differenze sostanziali, anche se è necessario distinguere fra gli italo-australiani nati in Italia e approdati in Australia, sia da giovani che da adulti, e i loro discedenti.
Per i primi non esistono differenze fra gli italiani di Perth, pur essendo la capitale più isolata del mondo, e gli altri residenti negli stati dell’Est. La loro è una religiosità che si è nutrita e che si esprime, tuttora, con caratteristiche ben conosciute: il culto dei santi e dei morti, mantenendo le usanze del paese o della regione di provenienza. Infatti, le feste religiose, pur attirando altre persone, sono pennellate nostalgiche di quanto avveniva in paese. Le stesse celebrazioni dei funerali o di S. Messe per un “paesano o congiunto”, anche se morto in altre nazioni, assumono le tonalità di un raduno fra parenti, quasi sempre dello stesso paese.
è un retaggio culturale che è sopravvissuto all’usura del tempo, agli inevitabili conflitti iniziali che si sono ripetuti altrove, specialmente in Nord America, e che hanno caratterizzato quest’anima italiana.
A livello strettamente personale, ritengo che tutto questo sia provvidenzialmente finito in paesi anglosassoni per dare una scrollatina a un mondo basato su regole e prescrizioni ma privo di sentimenti religiosi e di esuberanza espressiva!
Per gli appartenenti a questa categoria, una minoranza che si attesta tra il 20 e il 25%, seguire la pratica domenicale rimane una costante e si concentra nelle parrocchie che tradizionalmente hanno avuto sacerdoti o servizi liturgici nella propria lingua.
Questo dato deve essere inquadrato nella “nuova stagione” della partecipazione alla S. Messa domenicale. Sulla base di statistiche recenti, la partecipazione alla S. Messa domenicale dei Cattolici australiani (ora circa 6 milioni) ha subito, negli ultimi 40/50 anni, un capovolgimento enorme: la maggioranza celtica, che negli anni ‘50 e ‘60 toccava il 50-60%, è ora crollata ai minimi storici (13%), mettendo in luce il fatto che gli emigranti nati altrove, ivi inclusi gli italiani, superano in percentuale (+ 21%) coloro che sono nati sul territorio australiano. Questi ultimi, in buon numero, hanno frequentato le scuole cattoliche e utilizzato le varie infrastrutture create dalla Chiesa Cattolica in Australia!
Gli emigranti europei che solo “ieri” (anni ‘60 e ‘70) erano tacciati di assenteismo dalla parrocchia, ora sono passati in prima fila! E anche se le statistiche riguardano tutti gli emigranti nati altrove, ritengo che il dato sopra riportato sia applicabile alla nostra collettività di lingua italiana. Non tutte le collettività di emigranti esibiscono la stessa passione per la Chiesa. Il primato spetta ai vari gruppi di emigranti asiatici, molto assidui, mentre sono un fanalino di coda alcuni gruppi di latinoamericani.
Diverso è analizzare il modus operandi dei discendenti degli emigranti italiani. è già stato accennato che la società australiana è secolarizzata, ostica e chiusa di fronte alla dimensione religiosa della vita. Stampa, televisione, radio e cultura generale non offrono spunti, se non per demolire, la religione. Quando non osteggiata, la dimensione religiosa viene relegata alla dimensione del privato. Anche l’euforia creata dalle celebrazioni della Giornata Mondiale della Gioventù è stata subito soffocata da una serie di accuse di pedofilia rivolte a membri del clero. Le luci accese dalla GMG si sono affievolite in fretta!
Una volta staccata la spina dall’ambiente familiare in cui sono cresciuti, le nuove generazioni si affidano a quello che il mondo della comunicazioni propina loro in continuità. La stampa cattolica è handicappata per una serie di ragioni: mancanza di professionalità, frantumazione di sforzi a livello diocesano. Mi riferisco alle maggiori diocesi, come Adelaide, Sydney, Perth… le cui testate non hanno se non un impatto limitatissimo su tutto il pubblico cattolico. Se non per casi o problematiche gravi e controverse, difficilmente il punto di vista delle Chiese cristiane riceve attenzione dal mondo televisivo. La vasta rete di scuole cattoliche, su cui per decenni la Chiesa Cattolica faceva affidamento per l’educazione cristiana della gioventù, ora, per una serie di ragioni storiche, si rivela inefficiente. Anzi praticamente nulla secondo una indagine credibile commissionata dalla Chiesa Cattolica: Spirit of Generation Y. Final Report of a 3 year Study.
Questo discorso va esaminato e approfondito. Si tratta di cercare, nel contesto socio-culturale australiano, lo spazio necessario per una pastorale che non sia campata in aria, ma che si cali “intelligentemente” nel tessuto delle realtà. Impresa non facile. Si può aggiungere che anche i grossi movimenti laicali che, per esempio, caratterizzano la realtà sociale cattolica in Italia stentano a far presa in Australia. Tra gli stessi oriundi, le forme di associazionismo prevalentemente utilizzate dai loro genitori e nonni (che ora accusano stanchezza, o addirittura sbandamento) non sono state adottate, e non sono state rimpiazzate da forme associative alternative, dove la consapevolezza delle proprie origini potrebbe essere coltivata e tramandata.
Sono queste alcune delle ragioni, secondo le quali non è possible enunciare rosee previsioni sulla tenuta di un retaggio storico-culturale e religioso che si rifaccia all’esperienza italiana. La politica governativa rivolta alla valorizzazione delle diverse culture, chiamata appunto multiculturalismo, in ambienti ecclesiastici non ha fatto premere l’acceleratore verso una dimensione cattolica ed universale. Il ritornello che si sente spesso ripetere è che gli emigranti devono inserirsi nel cattolicesimo della maggioranza anglo-celtica (mainstream Catholicism). Se questo poteva essere vero fino a due o tre decenni fa, ora anche per la Chiesa, per i motivi statistici sopra riportati, diventa una affermazione sempre meno basata sulla realtà dei fatti. Stranamente, il Cattolicesimo australiano, nonostante i tentennamenti da parte di molti, anche delle stesse autorità ecclesiastiche, va assumendo sempre più i colori dell’arcobaleno, della cattolicità universale. Questo è un percorso pastorale nuovo, dove le istanze della diversità, se accettate e valorizzate dalla Chiesa nel loro provvidenziale ruolo, possono offrire notevoli spunti per una nuova visione della Chiesa stessa e per un aggancio reale con gli oriundi delle varie comunità etniche.
 
Visitando le Comunità delle principali località australiane noto una certa rassegnazione da parte delle prime generazioni nei confronti dei figli e nipoti, e anche di qualche sacerdote, a riguardo del venir meno della pratica religiosa, delle crisi coniugali e familiari, e soprattutto di una certa mancanza di orgoglio delle proprie radici culturali di origine. Qual è la tua valutazione in merito?
La rassegnazione è uno dei sentimenti prevalenti e più diffusi nella prima generazione di italiani emigranti in Australia. Ma non è l’unico.
Il ciclo della loro stagione lavorativa volge al tramonto, anche se non è ancora terminato per alcuni dei pionieri che sono ormai settantenni od ottantenni. C’è sempre qualche lavoretto da fare in giro per la casa propria, dei figli o di qualche paesano o conoscente. Da non dimenticare le donne per le quali ci sono i nipotini a cui badare, nel periodo pre e post-scuola. è un’intera generazione (la terza) che usufruisce del contributo notevole di affetto e di ammirazione dimostrata dai loro nonni. Questi, forse inconsapevolmente, tramandano alla terza generazione alcuni valori che non hanno saputo o potuto dare ai loro figli, almeno in ugual misura: la vicinanza fisica, la disponibilità a giocare e trascorrere molto tempo in loro compagnia, l’insegnamento di alcune, forse uniche, parole dialettali o italiane. è così che i loro nipoti apprendono ed iniziano ad aprire lo scrigno di alcune componenti culturali tipicamente italiane.
La seconda generazione, inesorabilmente assorbita dall’ambiente australiano, non si sarebbe incamminata per sentieri che loro stessi non conoscono!
Che questo colmi il vuoto sociale e culturale, lasciato dalla seconda generazione cresciuta con orientamenti diversi da quelli sognati dai loro genitori ora diventati nonni, è una domanda a cui è difficile rispondere. In pratica, raggiunta una certa soddisfazione per le proprie esigenze di stabilità economica, non nascondono il desiderio che anche i loro figli e nipoti riescano a costruire relazioni durature, famiglie sane che, agli occhi della prima generazione, possano coronare con successo la loro avventura migratoria.
E anche a coloro, sempre parlando della prima generazione, a cui l’emigrazione ha regalato esperienze negative, sotto l’aspetto affettivo e relazionale, rimane in fondo al cuore un anelito che non viene nascosto. Mi confidava un connazionale recentemente: Vede, Padre, in Italia mio padre ha avuto otto figli e ci ha allevanto come Dio comanda. Io sono emigrato in Australia. Ho avuto un solo figlio che mi ha abbandonato, al momento in cui mia moglie ed io ci siamo separati!
La loro è una rassegnazione in cui si mescolano l’evidenza dei fatti, di fronte alle svolte improvvise ed impreviste della seconda generazione, e briciole di speranza rappresentate dalle nuove generazioni che avanzano.
Lo stesso discorso si ripete, anche se con sottolineature diverse, per gli operatori pastorali, sia sacerdoti che religiose, rimasti sul campo. è passata sostanziamente la stagione delle proposte pastorali (es. “No Weary Feet. The History and Development of Mission Work among Italian Migrants in Australia”) quali le missioni volanti. Queste hanno raggiunto connazionai in tutti gli stati dell’Australia e della Nuova Zelanda: ben 1303 missioni per un totale di 1850 settimane in 50 anni; la rete di Villaggi Scalabrini per gli anziani; la presenza, anche se limitata, di una stampa cattolica con le testate attuali “Rintocchi”, “Il Campanile” e altre iniziative minori.
Agli operatori pastorali, stanchi e carichi di inevitabili malanni, viene forse ora richiesta, più che in passato, un supplemento non tanto di energia fisica, quanto di capacità riflessiva. Diminuisce il lungo periodo del “darsi da fare”. A questa feconda stagione deve seguire uno sforzo di riflessione sul senso e significato di una emigrazione italiana che, storicamente, ha causato, almeno in un primo tempo, un sussulto all’interno della Chiesa Cattolica in Australia e della società australiana in genere. è il tema della diversità che implica l’ascolto ed il dialogo, non certo per seguire la moda del momento, ma per capire e carpire i segnali che il Signore della storia ci pone sotto gli occhi. La pastorale migratoria stenta ad entrare nella consapevolezza delle Chiese locali. Senza una riflessione sistematica e convincente, la Chiesa australiana ha quasi il diritto di rimanere sulle posizioni acquisite, senza operare quelle svolte necessarie per far fronte (tra prima e seconda generazione) a metà della sua popolazione?
 
L’ultima domanda riguarda la non conoscenza della lingua italiana e il non uso di essa, anche all’interno delle Associazioni, oltre che nei Clubs dove le informazioni sui programmi sono scritte tutte in inglese. Che ne dici in merito?
L’emigrazione italiana in Australia appartiene a quella categoria di emigrazioni chiamate permanenti. La parola “permanente” ha la necessità di una ulteriore qualificazione.
Nel caso degli emigrati italiani (300.000) approdati in Australia, circa 70.000 hanno deciso, per varie ragioni, di ritornare in Italia. “Avevo nostalgia delle campane del mio paese!” dichiarò uno di questi durante il viaggio di ritorno sulla nave. La stragrande maggioranza di questi emigranti coltivava un rapporto particolare col proprio paese e le sue tradizioni. La lingua e la cultura italiana, intese con la “L” e la “C” maiuscole, non rientravano certo nel loro abito mentale! Questa è la ragione essenziale per cui la lingua, come strumento di trasmissione culturale, non ha ricevuto quella attenzione che le era dovuta. Son mancati, a mio parere, anche interventi tempestivi da parte delle autorità civili o enti preposti a tale scopo: il settore culturale e linguistico, proposto dalle “Dante Alighieri” o da autorità consolari, non ha riscosso il sufficiente appoggio di una comunità italiana che, soprattutto negli anni ‘50 e ‘60, pensava a incrementare una rete di associazioni e di club in collegamento con paesi o regioni italiane. Questo spiega perché, anche nelle due metropoli di Melbourne e Sydney, la comunità italiana, a differenza di quella greca, non abbia mai pensato seriamente a creare una scuola italiana. Sono nati un po’ dovunque corsi in lingua italiana, ma non una scuola italiana!
Ma anche i corsi di lingua italiana sono stati considerati solo sotto l’aspetto strumentale, perché esistesse almeno una infarinatura, nelle nuove generazioni, della lingua parlata dai loro genitori o nonni. Il legame con la cultura italiana, con la Latinitas, nella stragrande maggioranza dei casi, non è stato affrontato. Questo perché il mondo interiore dell’emigrante italiano tipico non faceva riferimento ad un retaggio linguistico-culturale dell’Italia, né di allora né tantomeno di adesso.
I risultati sono ora evidenti: i primi a bistrattare la lingua italiana sono gli italiani stessi insieme ai loro oriundi. I vari bollettini diramati dal mondo associazionistico sono caratterizzati da errori grammaticali grossolani; anche nei vari programmi radio in lingua italiana ci si potrebbe aspettare qualcosa di più sia da parte degli annunciatori che da parte degli ascoltatori. Anche l’avvento delle moderne tecnologie, che hanno rivoluzionato il mondo dei media portando la parola scritta e programmi televisivi nelle case degli italiani in Australia, non ha risvegliato la voglia, se non in casi eccezionali, di riappropriarsi della propria lingua e della propria cultura. è un vero peccato perché, pensando alle origini della presenza italiana in Australia (1800-1850), sono stati numerosi i connazionali che, a quel tempo, sollecitati dagli insediamenti anglosassoni son venuti appositamente in Australia per far gustare ad un pubblico non-italiano, attento ed interessato, le opere classiche italiane!