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Come una musica (L.Residori)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/09


«All’inizio dei tempi regnava il silenzio.
Ma Dio c’era da sempre: era una melodia.
E la melodia era Dio. Si chiamava Prajaprati.
Un rombo immenso squarciò lo spazio.
Divise la melodia in miriadi di particelle.
Come per incanto, queste si raggrupparono
e diedero vita al cielo e alla terra, alla luna e alle stelle,
ai monti e ai mari, agli alberi e ai fiori, agli uomini e alle bestie
e alle note che raccogliamo nei nostri canti».
Può sembrare strano iniziare un articolo di taglio biblico con una citazione dei Rig Veda: ma accanto alla ragione, evidente ad una prima lettura, rappresentata dalla bellezza del brano, ne compare un’altra: il messaggio dei racconti biblici della creazione viene, infatti, illuminato dal paragone con molte altre narrazioni di cosmogonie.
Un racconto di racconti
Ci soffermeremo soprattutto sui racconti dei primi capitoli della Genesi, anche se è importante considerare che non sono questi gli unici contesti biblici che parlano della creazione: basta pensare ai testi sapienziali - Proverbi1 e il Siracide, ma anche Giobbe - ai Salmi, ed alla ripresa del tema nei testi profetici del Deuteroisaia. Proponiamo così solo alcuni tratti essenziali e ci permettiamo di “estrarre” dalla lettura dei due capitoli gli elementi che ci sembrano più connessi al tema della rivista, che lega la creazione alla possibilità di costante novità.
Ormai un po’ tutti sanno, dunque, che Genesi 1 e 2-3 sono nati separatamente e in ambienti diversi: poi qualcuno li ha messi insieme così come noi li leggiamo nella Bibbia. Da una parte, perciò, occorre prendere i due testi singolarmente, e dall’altra, cercarne i legami senza volere a tutti i costi risolvere le incongruenze. Si possono così cogliere i nuovi significati che l’accostamento sprigiona, intuendo l’intenzione che ha guidato il redattore. Non è sufficiente, infatti, e non rispetta l’abilità letteraria della redazione dire che l’intenzione era quella di non perdere nulla e di conservare tradizioni diverse, occorre invece riconoscervi una sapiente opera di compilazione e di architettura che ha saputo valorizzare tasselli diversi per comporre un unico ed organico mosaico.
Un’attenta osservazione dell’insieme ci permette di cogliere la complementarietà dei due testi. Le diversità letterarie e teologiche sono state utilizzate dai redattori per affrontare in modo diverso lo stesso tema. Mentre il primo mostra il creato nella prospettiva dell’ordine divino che tutto regola, il secondo evidenzia piuttosto la relazione tra Dio e l’uomo in cui la libertà umana introduce il disordine. Il primo è universale, generico e solenne, mentre il secondo è specifico: quasi come se entrasse nel dettaglio del sesto giorno. Abbiamo così di fronte l’opera sia nella sua maestosità, sia nella sua complessità e dinamicità2.
Le due unità letterarie quindi stanno bene insieme e si integrano a vicenda: i redattori hanno voluto anzitutto mostrare il magnifico progetto divino e poi, realisticamente, hanno considerato le situazioni negative.
Nel primo racconto della creazione (Gen 1,1-2,4a)3, il narratore che descrive come Dio ha creato l’universo non può essere un testimone oculare. Egli deve così immaginare ciò che nessuno ha potuto vedere di persona: si parla di narratore onnisciente. Si tratta di un modo di raccontare accettato. Questa tecnica è ben nota sia ai romanzieri antichi che a quelli moderni. I racconti biblici fanno proprie le tecniche della letteratura universale.
Lo stile (non il contenuto) di Genesi 1,1-2,4a è poi simile a quello di alcune moderne teorie sull’origine del mondo: a partire dall’osservazione del suo universo, il narratore cerca di capirne e di ricostruirne l’origine. Ovviamente non si può nascondere che il suo linguaggio e modo di pensare non sono quelli degli scienziati, ma dei teologi o dei poeti4.
L’interesse primario dello scrittore biblico non è spiegare come le cose sono venute all’esistenza, quanto piuttosto celebrare il Dio creatore, mostrando che è Lui all’origine di tutto. Se la creazione è il primo fatto in ordine cronologico, l’uomo, Israele se vogliamo, arriva però a comprenderlo in un secondo tempo attraverso le esperienze della sua storia. Risulta quindi fondamentale cogliere l’ambiente vitale del testo. In questa sede ci limitiamo a segnalare che il presente testo è stato concepito e scritto durante o, forse, subito dopo l’esilio babilonese tra il 586 e il 536 a.C. circa5. Tra i vari indizi che portano a sostenere questo sta l’influsso su Gen 1,1-2,4a della mitologia mesopotamica. Il mondo primordiale è descritto come un universo completamente ricoperto da acque e immerso nelle tenebre:
«La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2).
La Mesopotamia è appunto una pianura attraversata da due fiumi. Ciò non è tipico invece della terra di Israele dove il caos primordiale viene rappresentato senza acqua, come una terra desertica:
«Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo» (Gen 2,4b-5).
Questo testo è stato scelto per essere la pagina iniziale di una lunga storia, è l’ “ingresso” della costruzione letteraria creata dai sacerdoti, per tenere viva la speranza nel ruolo salvifico di Dio, nonostante le condizioni sfavorevoli. Genesi 1 riparte dalle origini del mondo: il male non fa parte del piano divino. A questo proposito è significativa la densità dell’ “onnipresente” vocabolo ebraico tob che rimanda all’idea di bontà e bellezza difficile da tradurre simultaneamente nella nostra lingua.
Spesso si ripetono le stesse cose con le stesse formule come in una solenne celebrazione litanica. Stando all’ebraico un numero domina sugli altri: il 7, in riferimento ai sette giorni. Alcuni esempi: il v. 1 ha 7 vocaboli, il v. 2 ne ha 14 (7x2); formule significative come: «Dio vide che era cosa buona», «E così avvenne», «Dio fece» ritornano ciascuna 7 volte; il nome di Dio, ’Elohîm ricorre 35 volte (7x5), «cielo», «firmamento» e «terra» ricorrono 21 volte ciascuno (7x3), la parte riguardante il settimo giorno comprende tre affermazioni di 7 parole ciascuna (7+7+7).
La monumentale opera viene, come in una cornice, racchiusa tra un proemio (1,1-2), che presenta la massa informe iniziale, e una conclusione (2,1-4a), che polarizza l’attenzione sul settimo giorno, vertice della creazione.
In questo quadro si staglia la creazione degli umani il sesto giorno. L’umanità (’adam) viene creata maschio e femmina: esiste concretamente come maschio (zakar) e femmina (neqebâ). A loro è affidata la responsabilità del mondo che appartiene a Dio che l’ha creato e non all’essere umano come se ne fosse padrone. Questo compito è espresso nella forma di una benedizione, legata, secondo il linguaggio biblico, alla fecondità. L’uomo creato da Dio collabora con il Dio della vita custodendola e continuandola. «Dio vide […] era cosa molto buona» (Gen 1,31) suggerisce la singolare dignità di ogni persona umana.
è evidente fin da subito che Gen 2,4b-3,24 costituisce un grande “dittico” composto da due parti distinte, ma strettamente congiunte. L’autore vuole rispondere ad un quesito fondamentale sull’esistenza della disarmonia nel mondo e lo fa attraverso i due quadri narrativi: dal confronto tra le due scene il lettore può riconoscere ciò che ha determinato il passaggio alla disarmonia6.
Noi ci limitiamo qui alla presentazione della prima tavola del “dittico”, Gen 2,4b-25, dove vengono sottolineati gli elementi positivi della realtà umana, la bontà del Creatore e una buona relazione possibile7.
Tre sono i fondamentali legami di armonia descritti:
- uomo - Dio;
- uomo - terra e animali;
- uomo - donna.
A differenza di Genesi 1 l’universo è un deserto senz’acqua e l’uomo si presenta come la prima realtà creata, quando ancora non c’era niente (il paragrafo 3 è dedicato al confronto tra i due racconti della creazione). Non si parla mai della creazione del cielo e del mare, non si menzionano gli astri, Dio si occupa solo della terra e degli esseri viventi che la popolano.
«Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo» (Gen 2,4b-6).
La mentalità del narratore è mesopotamica, scavare canali per far salire l’acqua e irrigare il suolo è il principale lavoro umano. La formula iniziale assomiglia a quella di antichi poemi accadici come Enuma Elish, ma mostra un vistoso superamento della molteplicità di divinità. Si capisce quindi come l’autore abbia in mente questo modello letterario, non uno schema filosofico o scientifico. Inoltre il poema mesopotamico si soffermava lungamente sulle vicende degli dèi, fino ad arrivare alla creazione dell’uomo. In Genesi 2 non avviene così, tuttavia resta la mentalità mesopotamica con l’idea che l’uomo sia polvere proveniente dal suolo. Nella lingua ebraica il vocabolo ’adam, uomo (designa l’essere umano), è affine a ’adamâ, terra-suolo. Il verbo jasar, plasmare, formare, fa di Dio un vasaio. E ben dimostrata la convinzione degli antichi secondo cui l’uomo aveva qualcosa in più della materia terrena. Il racconto biblico segue la stessa linea, ma con una interessante novità: la terra plasmata riceve da Dio il soffio della vita.
Poi Dio viene presentato come un contadino che pianta un giardino: per gli orientali la natura non può offrire di meglio, luogo abbondante d’acqua e di cibo, fresco e fertile.
«E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”» (Gen 2,18).
L’autore crea una formula originale per qualificare l’aiuto: kenegdô, come-di fronte a-lui, si pensa ad una realtà capace di relazione alla pari, in grado di “guardarlo negli occhi”. Gli animali non sono in grado di rispondere a questa esigenza fondamentale, potremmo dire originaria, alla luce del v. 18.
A differenza dell’autore sacerdotale, il resto della creazione è tutto in funzione dell’uomo. L’uomo viene posto di fronte agli animali con un atteggiamento di sapiente superiorità: dà il nome a tutti gli esseri viventi e questo è segno di conoscenza e di dominio. La catalogazione degli esseri è una primordiale forma di scienza. Dio lascia in suo potere la ricerca scientifica e lì l’uomo si dimostra capace, ma rimane insoddisfatto.
Con la creazione della donna l’intento è di evidenziare la dignità dell’umanità femminile, non di spiegare come si è formata. Le immagini che adopera sono tratte in genere dalle comuni rappresentazioni mitiche, ma sono state adattate al nuovo messaggio.
Il sabato ed il giardino
Come dicevo, dato l’argomento che qui interessa, mi permetto di estrapolare dal contesto e riunire insieme i due temi “finali”, cui si aprono entrambi i racconti: rispettivamente il sabato e la custodia del giardino. è all’interno di questi, mi pare, che si colloca l’idea dell’umano, cioè di uomini e donne, che ricevono da Dio la creazione insieme alla chiamata ad esserne partecipi. I due contesti lo dicono in modo diverso, ma, si potrebbe dire, complementare.
Quanto al sabato, si vede subito che la differenza tra i primi sei giorni e il settimo è importante. Tutto tende al sabato, momento abituale della liturgia settimanale. Dio cessa di lavorare (il verbo ebraico šabat offre l’etimologia al nome del giorno festivo) limitando la propria signoria con il settimo giorno. La signoria umana, dono di Dio, va esercitata “secondo” Dio: prima con la parola (i sei giorni iniziali), poi dandosi un limite (il settimo giorno). Il sabato costituisce il momento sacro per eccellenza, compimento di tutta l’opera: tempo di riposo e pace, festa e gioia.
«Il Sabato […] è una profonda e cosciente armonia tra l’uomo e il mondo, una simpatia per tutte le cose e un partecipare allo spirito che unisce ciò che è al di sotto con ciò che è al di sopra. Tutto ciò che nel mondo è divino viene posto in comunione con Dio. Questo è il Sabato; la vera felicità dell’universo»8.
Dio riempie il settimo giorno con la sua presenza, è sospesa ogni attività divina, perciò lo consacra e benedice (Gen 2,3). Dio abita il tempo prima di abitare in un luogo sacro. Perciò anche se il tempio non c’è più (esilio o primo post-esilio) Israele può continuare a incontrare e venerare il suo Dio.
Se abitare il tempo può essere cifra dello stare umano nel mondo, non meno evocativo e potente è il tema del giardino:
«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
L’uomo ha il compito di coltivare e custodire. Il primo, ‘abad, designa anche il culto, esprime il modo in cui l’uomo serve Dio. Il secondo, šamar, osservare, si ritrova nei testi normativi in riferimento alla legge di Dio. Il giardino diventa quindi un simbolo della relazione amichevole con Dio.
Giungiamo a questo punto ai fatidici versetti 16 e 17. Questo passaggio non è da leggersi come un divieto, ma piuttosto come un avviso. Il comando non è dettato da invidia o malignità, ma dal desiderio che l’uomo viva; è preceduto dal dono dell’intero giardino completamente a disposizione dell’uomo e da una larghissima concessione, «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino» (v. 16), quindi anche dell’albero della vita, si tratta di una “rivoluzione” rispetto alla comune mentalità degli altri popoli; è infine seguito da un elemento tipicamente sapienziale: al comando si affianca la “spiegazione”, «nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (v. 17), l’imperativo è accompagnato dall’indicativo. E Dio che parla eppure lo fa evitando di mettere in gioco la sua autorità!
«Il testo genesiaco ci pone perciò di fronte a una questione fondamentale: la cupidigia. Lavorare e custodire il creato ha senso soltanto nel quadro di un rispetto assoluto del dono ricevuto (il creato stesso) e del donatore (Dio). Il valicare tale limite, mangiare cioè del frutto dell’albero, sarà causa di morte per l’umanità. […] Queste osservazioni hanno un impatto evidente in relazione al problema ecologico. Credo che nel mondo occidentale il vero problema che ci affligge non sia tanto il cosiddetto “relativismo” in campo etico-religioso, quanto piuttosto la cupidigia eretta a sistema di vita, il desiderio cioè di mangiare “il tutto”»9.
Le note dei nostri canti
Certo molte altre cose si potrebbero dire sui testi di creazione, ma i temi che qui abbiamo raccolto restano fondamentali e non a caso, appunto, il redattore finale li ha posti all’inizio. La memoria del sabato è anche possibilità di abitare poeticamente la terra, con la seria leggerezza di chi non ne è padrone. Così come la custodia del giardino fa di donne e uomini, reciprocamente le une di fronte agli altri, non esecutori passivi, ma artigiani accolti volentieri da Dio nella creazione di cui solo Lui è artefice.
A questo punto, si potrebbe recuperare più largamente, senza pretese, il sottofondo “a orecchio” del titolo, richiamato dalla citazione dei Rig Veda: «anche i silenzi lo sai hanno parole... io ci sarò, come una musica, come domenica...». Di sole e d’azzurro, cantata da Giorgia, non è un testo di teologia biblica, ma, come si dice, una musica leggera. La capacità evocativa non viene certo a mancare e nel nostro caso risuona, assieme all’idea di “esserci” e di musica, in quella di domenica: non corrisponde immediatamente al sabato, ma ne ricorda molte dimensioni, fra cui quelle della gratuità e della tensione verso un compimento - cieli nuovi e terra nuova la cui venuta ci è chiesto di attendere e insieme affrettare (2Pt...), non per disprezzare questa terra, ma per lavorarne i solchi affinché mostrino tutto il loro possibile splendore.
 
 
 
1 Cfr. P. Beauchamp, La personificazione della Sapienza in Pr 8,22-31: Genesi e orientamento, in Libro dei Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, a cura di G. Bellia - A. Passaro, Piemme, Casale Monferrato 19991
2 Cfr. R. Alter, L’arte della narrativa biblica, Queriniana, Brescia 19901, 177-178
3 Tra gli studiosi c’è chi considera Gen 2,4a l’inizio del secondo racconto di creazione e non la conclusione del primo. Cfr. J.L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco, EDB, Bologna 20001, 32-33
4 Cfr. J.L. Ska, La Parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella Editrice, Assisi 20032, 21-22. Cfr. C. Doglio, Il poema “sacerdotale” della creazione (Gen 1,1-2,4a), in «Parole di vita» 52/1 (2007) 21-35
5 Cfr. Ibid., 23
6 Ad esempio l’insistenza sulla nudità serve ad indicare il capovolgimento della situazione (Cfr. Gen 2,25; 3,10-11; 3,21).
7 Cfr. C. Doglio, Il secondo racconto della creazione, in «Parole di vita» 52/2 (2007) 6-15
8 A. J. Heschel, Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 19872, 50
9 L. Mazzinghi, “Dominate la terra!”: la vocazione dell’uomo e il problema ecologico, in «Quaderni della Segreteria Generale CEI» n. 15 (2008) 25.