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Noi e loro migranti per vocazione (M.Morando)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/08


    All’epoca in cui milioni di nostri connazionali lasciavano il nostro paese e varcavano i confini per emigrare nel mondo intero, nei paesi che li accoglievano si pensava che le migrazioni fossero solo un fenomeno temporaneo e passeggero. Oggi invece a fronte di oltre tre milioni di Italiani che sono rimasti nei paesi di emigrazione un egual numero di immigrati sono venuti a vivere da noi e l’Italia da paese di emigrazione è diventato un paese di forte immigrazione.  Si fa strada la consapevolezza che le migrazioni siano diventate un fenomeno strutturale e dunque permanente nel mondo globalizzato. Dunque, quello che Gesù ha detto riferendosi ai poveri – in Mc 14,7 – oggi lo si può riferire anche ai migranti: “I migranti li avrete sempre con voi!”. Una constatazione questa che all’orecchio di tanti suona come un campanello di allarme: una presa d’atto del fallimento delle politiche di arginamento e contrasto all’immigrazione. Ma se invece di un fallimento Gesù avesse voluto alludere ad una opportunità e a una promessa?

La prima opportunità di cui oggi prendiamo coscienza è quella offerta alle Chiese di verificare la loro cattolicità. Essa consiste non solo nell’accoglienza delle varie etnie, ma sopratutto nel realizzarne la comunione. Nella Chiesa, il pluralismo etnico e culturale non costituisce un dato di fatto da tollerare perché transitorio, ma al contrario una dimensione strutturale intrinseca da gestire. L’unità della Chiesa non è fatta da un’origine e da una lingua comune, ma dallo Spirito della Pentecoste.

Le nostre comunità, con la presenza di tanti cristiani di origine straniera diventano un ineguagliabile laboratorio di cattolicità. Questa convinzione è espressa in tante lettere pastorali che le conferenze episcopali europee rivolgono alle nostre comunità di Italiani all’estero invitandoli a prendere parte a pieno titolo della missione delle Chiese locali di quei paesi. Non di meno questa convinzione deve animare la nostra Giornata Mondiale delle Migrazioni che ci incoraggia a vivere nel segno della Memoria e dell’Ospitalità.

La Memoria innanzitutto. In tutte le nostre parrocchie c’è un registro dei battesimi e in alcune chiese, accanto al fonte battesimale, capita di trovare un leggio dove si possono vedere le foto e i nomi di quanti, bambini o adulti, sono stati battezzati nell’anno. Alla celebrazione eucaristica di questa Giornata Mondiale dei Migranti e dei Rifugiati tutti quelli che qui sono stati generati alla fede, anche chi è emigrato, bisogna che li sentiamo presenti e in comunione con noi.

Le loro comunità testimoniano di come hanno mantenuto e fatto crescere la fede ricevuta e sono diventati membri attivi di tante comunità cattoliche sparse in tutto il mondo.  La fede poi l’hanno trasmessa ai loro figli anche con l’impegno di mantenere vive la  cultura e le tradizioni religiose della loro terra d’origine. Oggi nel mondo gli oriundi italiani sono più di 60 milioni, e tutti hanno un qualche legame con questo fonte battesimale e con la mensa della nostra celebrazione eucaristica. La memoria, in qualche modo rende presente chi è assente, fa vivere il significato “per noi” della loro esperienza e ravviva la comunione che si può esprimere, anche nell’assenza, attraverso la preghiera e la solidarietà. Per fare memoria dei nostri emigrati può essere quanto mai opportuna ed efficace la lettura di una testimonianza di qualcuno che è emigrato o il riferimento alla storia degli emigrati che sono partiti dai nostri paesi e regioni. E anche possibile far conoscere i bollettini parrocchiali degli italiani all’estero per prendere atto della vitalità della loro vita cristiana e delle iniziative pastorali promosse dai preti italiani che ancora servono le loro comunità. Per esempio il bollettino della Parrocchia italiana di Santa Maria del Monte Carmelo a Toronto ci informa della celebrazione del centenario di fondazione avvenuta il 9 novembre 1908.  Altri anniversari di cui essere fieri sono quelli degli 80 anni della comunità italiana  di Seraing nella regione di Liegi in Belgio, lo scorso settembre e i 50 anni delle Missioni di Montigny en Ostrevent e di Valenciennes nel Nord della Francia.

Memoria e Ospitalità. Le storie dei nostri emigrati con i loro successi e le loro vicissitudini ci devono rendere oggi, particolarmente sensibili verso chi vive la stessa esperienza qui da noi.

Gli italiani nel mondo sono gli immigrati di ieri e gli stranieri sono gli immigrati di oggi. Sia gli uni che gli altri sono stati spinti da condizioni di estremo bisogno e dall’ineguale distribuzione della ricchezza nel mondo.

La memoria deve dunque accompagnarsi all’ospitalità offerta a chi, immigrato, spinto dalla stessa fede e dallo stesso Battesimo, viene a cercare il suo posto attorno alla nostra mensa eucaristica.  Se si spezza la catena della solidarietà verso gli immigrati, diventa evanescente anche la memoria dei connazionali emigrati. In questa giornata dobbiamo assumere uno sguardo che ci aiuti ad abbracciare la nostra storia, i 150 anni del nostro esodo all’estero e gli ultimi 30 anni di immigrazione in Italia. Se la nostra deve essere una storia unitaria e di salvezza, questo è un compito ineludibile.

Ogni migrante, infatti, è al contempo emigrato e immigrato, secondo che lo si consideri dal paese che ha lasciato oppure dal paese d’approdo. Ma il migrante cristiano vuole guardare al suo esodo innanzitutto dal punto di vista della sua fede. “Conquistato da Cristo” il migrante è chiamato a scoprire nella sua condizione di migrante  una “vocazione” ad una peculiare ed esclusiva “missione”. Lo spiega il Papa nel suo Messaggio per la 95a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, dove ci offre come punto di riferimento “San Paolo migrante, ‘Apostolo delle Genti’ ”.

Da migrante per condizione – era nato infatti da una famiglia di ebrei emigrati a Tarso di Cilicia – Paolo divenne “migrante per vocazione”. “Dopo che sulla via di Damasco avvenne il suo incontro con Cristo (cfr Gal 1,13–6), egli, pur non rinnegando le proprie “tradizioni” e nutrendo stima e gratitudine verso il Giudaismo e la Legge (cfr Rom 9,1–15;  10,1; 2Cor 11,22; Gal 1,13–14; Fil 3,3–6), senza esitazioni e ripensamenti si dedicò alla nuova missione con coraggio ed entusiasmo docile al comando del Signore: “Ti manderò lontano, tra i pagani” (At 21,21). La sua esistenza cambiò radicalmente (cfr Fil 3,7–11). Divenne migrante “per vocazione”, nel senso che fece del suo essere migrante la condizione essenziale della missione, rendendosi in ciò particolarmente vicino alla “chiesa della diaspora”, costituita dai migranti, senza tuttavia cessare di tessere un profondo legame di comunione e di solidarietà, anzitutto con la Chiesa madre di Gerusalemme” (cfr Messaggio).

Le comunità di emigrati italiani nel corso della loro storia in terra straniera hanno appreso che talvolta, l’attaccamento alla Chiesa Madre e alle proprie origini e tradizioni, se assolutizzato, può divenire un ostacolo al pieno inserimento nelle chiese locali in cui sono chiamati a vivere una vera comunione ecclesiale.  Invece l’apostolo Paolo, ci ricorda Benedetto XVI, “ci offre nelle sue lettere una visione di Chiesa non esclusiva, bensì aperta a tutti, formata da credenti senza distinzioni di cultura e di razza: ogni battezzato è, in effetti, membro vivo del Corpo di Cristo”. In ogni Chiesa, dunque, siamo chiamati a vedere i tratti del volto della Chiesa Madre e i lineamenti del “Corpo di Cristo” di cui per il Battesimo siamo divenuti membri.

Allo stesso modo i confini degli stati da cui proveniamo o in cui viviamo, devono apparire non come barriere che separano, ma come i lineamenti dei nostri volti. Essi rivelano le diverse ricchezze delle culture e dei linguaggi attraverso i quali siamo chiamati a comunicare con gli altri, fino a diventare un solo popolo, un solo “corpo”.

Gli emigrati o gli immigrati dunque, o semplicemente i migranti tout court, “saranno sempre con noi”! Le “E” e le “I” che marcano il prima o il dopo partenza, il qui o l’altrove, il luogo di provenienza o il punto di arrivo, sono aboliti, perché, come afferma Paolo: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo ne donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28 e Col 3,11). Importante è che i “migranti”, li facciamo veramente stare “con noi”: gli emigrati nel mondo, tramite una rinnovata memoria che nutre la simpatia e l’ammirazione per la loro impresa, gli immigrati, tramite una fattiva ospitalità, che, come ci dice il Papa, “è ancella della carità”. La loro presenza, soprattutto quando sono poveri ed emarginati, non sia tollerata come un’inevitabile fatalità, ma piuttosto come una opportunità e una avvincente promessa.