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Tempo senza orologio: Rom e Sinti (M.Palagi)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/08


 

Precarietà del tempo

Se l’acquisizione del senso del tempo avviene - come sostiene Piaget - contemporaneamente a quella dello spazio, sulla base delle esperienze di vita a cui si trova esposto un bambino, al di là di ogni questione filosofica, se sia il tempo una dimensione interiore, soggettiva, distensio animi, forma intuitiva e a priori, durata, divenire della coscienza o comunque lo si voglia definire, è chiaro che l’esperienza concreta e vissuta, esistenziale del tempo, la sua percezione e il suo uso da parte dei rom ancora in movimento o per lo meno di quelli che ancora viaggiano per una buona parte dell’anno, debba essere molto diversa dalla nostra di sedentari.

Chi vive in modo precario, in luoghi diversi, dai quali deve allontanarsi o per motivi di lavoro e sostentamento o, più spesso, perché viene sistematicamente cacciato, con disprezzo, minacce, violenze, perquisizioni e denunce, è inevitabile che avverta, misuri, viva e progetti il proprio tempo, quello presente e il proprio futuro immediato, in forme che ben poco hanno a che fare con le nostre. E questo vale, è scontato, anche per lo spazio, ma qui il discorso porterebbe lontano e si allungherebbe troppo.

Il tempo dei rom è sempre incerto, imprevedibile, insicuro, minaccioso, discontinuo, poco programmabile, anche se non ha più l’imprevedibilità e l’insicurezza misteriosa e fatalistica dell’ordine naturale o di quello divino, come poteva avvertire un uomo medievale o rinascimentale, ma non è neppure quello meccanico e, ormai, elettronico e quantitativo di oggi. Il tempo dei rom è il tempo dei rom - verrebbe voglia di dire tautologicamente, anche se non è del tutto esatto; è vero però, che i rom sono immersi in una loro specifica “natura”, in un ecosistema costituito dalla nostra società di gagé. Noi e il nostro ordine e quindi anche i modi di misurare il tempo e il senso che questa misurazione ha per noi, siamo la “natura”, la divinità misteriosa che determina tempo, spazio, accadimenti per i rom. Non che i rom accettino passivamente questo tempo, così come non subiscono senza aggiustamenti il nostro spazio, le nostre leggi, la nostra etica, i nostri schemi di vita, ma sicuramente devono farci i conti e resistere per riadattarselo secondo le loro esigenze e modi di vivere e i loro bisogni. Basta anche solo un vigile urbano, o la telefonata di benpensante, per determinare nuovi usi e vissuti di tempi e spazi e “nuove esperienze” da parte loro.

Difficoltà spaziali e problematiche temporali

Il tempo preindustriale è stato lento, non quantificato, molto variabile, indeterminato discontinuo, dipendente dai ritmi della natura: d’estate si ha a disposizione del tempo per le attività del lavoro, della vita quotidiana e familiare, per gli amici un tempo lungo. D’inverno il tempo è breve, ma non è detto che sempre sia così. I lavori agricoli hanno sempre ritmi variabili e irregolari. Se c’è da mettere al riparo il fieno o da vendemmiare e minaccia di piovere, la giornata di lavoro si allunga fino a quando non scompare la luce, ma ci sono periodi in cui si lavora poco e secondo orari del tutto personali, si possono fare lunghe pause, rallentare o accelerare i ritmi, fermarsi a chiacchierare, andare all’osteria, inframmezzare altre attività. D’inverno quando i lavori della campagna sono ridotti, può avvenire che li si sostituisca con lavori artigianali, in casa, anche questi discontinui quanto a tempo di svolgimento. Nell’artigianato era abituale che non si andasse in bottega il lunedì, si lavorasse poco il martedì e si aumentassero i ritmi e le ore di lavoro via via che passavano i giorni della settimana, fino a comprendere, all’ultimo, anche ore della notte. Leopardi ci rappresenta, nel Sabato del Villaggio, un falegname che “s’affretta, e s’adopra” ancora la notte che precede la festa, cioè lavora a ritmi accelerati, perché deve consegnare il lavoro prima dell’alba. A Carrara, durante l’800 e il primo novecento i cavatori facevano sistematicamente la “lunidiana”, cioè si assentavano, nonostante le proteste e le rappresaglie dei loro padroni, dal lavoro il lunedì e ancora oggi, barbieri e calzolai non aprono bottega in questo giorno, anche se ormai, questa chiusura è diventata, con la settimana corta, il corrispettivo del sabato non lavorativo della maggioranza dei lavoratori.

Il tempo preindustriale dipendeva perciò dalla stagione e dal tipo di lavoro che veniva svolto e, come scrive Edward P. Thompson, era misurato in base ai compiti che venivano svolti ed era “umanamente più soddisfacente del lavoro regolato dall’orologio”, non conosceva la separazione tra “lavoro e vita” e appariva poco produttivo e sperperato agli occhi degli imprenditori di industrie. I rom - parlo sempre e solo di quelli che conosco io - che siano ancora nomadi, seminomadi o stanzializzati, indubbiamente fanno un uso e hanno una concezione del tempo che può richiamare il tempo preindustriale, anche se non penso si possa dire che vivano e sentano come nel ’700. Perché non solo non seguono i ritmi della natura come i contadini (non c’è niente di meno distante dalla natura dei rom), ma non sono neppure indigeni di una foresta equatoriale o nomadi di una steppa, essendo insediati e muovendosi nelle vicinanze o dentro le aree urbane contemporanee e facendo uso sistematico, nella loro vita quotidiana, di tecnologie avanzate per muoversi, lavorare, abitare e comunicare tra di loro, dalle auto, alle roulotte, ai camper, ai furgoni, ai treni, ai telefonini, alle tv, ecc. (trent’anni fa le tecnologie erano meno evolute di oggi, ad esempio non c’erano i cellulari, ma i rom facevano già un uso molto intenso dei telefoni pubblici per restare in contatto tra di loro).

Sono perciò pienamente inseriti nel tempo presente, anche se ne restano volutamente ai margini e lo utilizzano, riadattandolo alla loro cultura e mentalità, come del resto fanno tutte le minoranza o i gruppi marginali che intendano conservare la loro identità di gruppo. Non possono rimanere estranei alle culture della società dominante, ma per salvaguardare la loro identità e diversità devono anche rimaneggiarle, alterarle e assimilarle all’interno della propria e a modo proprio: è quanto hanno fatto e fanno del resto tutti i popoli, ma anche ciascuno singolarmente, a cominciare dagli ebrei e dai greci fino a tutti i popoli colonizzati. Per cui, se è vero che sembrano esserci molte analogie tra il tempo lento, flessibile, non ridotto a denaro, delle società preindustriali del ‘700 e quello dei rom, bisogna però tener conto che loro vivono in una società pienamente industriale e postindustriale e non ne ignorano o respingono affatto le conquiste. In altri termini anche se svolgono lavori che non hanno niente a che fare con le catene produttive delle industrie e neanche con le botteghe artigiane contemporanee, non vivono fuori da questo tempo, non sono degli Amish del Vecchio Ordine (lo dico con rispetto) che abbiano fermato il loro tempo al ’700-’800 per rifiutare la modernità.

Appartengono piuttosto ai cosiddetti peripathetic group, cioè a quei gruppi, non necessariamente rom o sinti, che esistono in ogni tempo e all’interno di ogni società e si accollano il ruolo economico-produttivo di svolgere mansioni, lavori e attività marginali, variabili a seconda dei tempi, di cui una comunità ha bisogno solo ciclicamente, per brevi periodi o in situazioni particolari di sviluppo. Sono quelle attività economiche di nicchia, che per una società stanziale risultano diseconomiche e non permetterebbero a un suo membro di sopravviverci per cui vengono lasciate a “stranieri”, nomadi, marginali, fuori casta, ecc., che, periodicamente, si ripresentano in una determinata zona, offrendo i loro servizi per il tempo necessario a soddisfare le richieste.

Gli esempi sono ricavabili dalla storia dei rom, anche se valgono per qualsiasi peripathetic group e se oggi proprio i rom hanno abbandonato molti dei loro lavori considerati “tradizionali” e si dedicano ad altre attività sempre marginali. Musica e giochi circensi per le feste patronali dei paesi, produzione, stagnatura e riparazione di paioli di rame, ferratura e allevamento di cavalli, produzione di cesti e oggetti di legno per la cucina, vendita al minuto di cianfrusaglie e mercerie necessarie, ma di difficile reperimento in un paese senza negozi, arrotatura di coltelli e lame, e oggi, vendita di fiori ai ristoranti nella stagione turistica, raccolta di ferrivecchi ecc., non sono attività lavorative che si possano svolgere restando fermi in un luogo e indefinitamente, ma richiedono soste più o meno brevi e molta mobilità. Non è vero perciò che i rom siano stati costretti dalle leggi di ieri e di oggi a diventare e restare nomadi; è la loro collocazione e il ruolo marginale che occupano nei processi economico-produttivi e dei servizi della nostra società che li ha resi nomadi. Anche se oggi, la diffusione dell’automobile, dei furgoni e di camion, di cui i rom fanno larghissimo uso, rende queste attività di servizio meno dipendenti o del tutto sganciate dal nomadismo.

è però probabile che si siano messi in moto, almeno per quanto riguarda i rom, processi non solo economici e tecnologici, ma sociali, culturali, che spingono verso la sedentarizzazione; si tratta di espliciti processi di “inserimento-assimilazione”. A priori la nostra società dominante sa già, ha già deciso come devono cambiare i rom e cosa devono diventare, quando invece il punto di arrivo dell’integrazione che va vista come forma di innesto, è un frutto assolutamente nuovo e imprevedibile, ma per ottenerlo occorrono rispetto, conoscenza e pazienza.

Una “giornata tipica” di rom e sinti

Proviamo a definire le caratteristiche del tempo dei rom, che vivono ai margini della società industriale e svolgono/offrono servizi di nicchia . La giornata dei rom è divisa nettamente in due parti, al mattino si va a lavorare fuori dal campo, spesso prendendo il treno o l’autobus per cambiare ogni giorno zona e si chiede l’elemosina, si legge la mano, si fa il giro dei “benefattori”. Sono attività riservate alle donne e ai bambini. Gli uomini, che hanno perso la possibilità di svolgere molti dei lavori artigianali a cui si dedicavano, perché non sono più richiesti (chi fa stagnare più un paiolo?) raccolgono ferro, lavorano presso qualche sfasciacarrozze, si adattano a lavori saltuari, cercano di barattare qualche oggetto di rame con rottami metallici, restano disoccupati.

La seconda parte della giornata inizia normalmente dopo le due di pomeriggio, quando chi è andato fuori dal campo inizia a tornare. Ma il ritorno non è contemporaneo per tutti i membri della famiglia e non avviene sempre alla stessa ora, ma dipende da dove si è andati a chiedere l’elemosina, dai trasporti pubblici, dalla stagione, dal tempo atmosferico (se è freddo si torna prima, se piove si sta a casa). Questo, pomeridiano, è il tempo della famiglia, del gruppo e del campo. è il tempo della convivialità, dai ritmi molto lenti, non utilitaristici, non soggetti alle regole del profitto come per i sedentari. Nella vita quotidiana al campo, ha larga parte, qualsiasi sia la stagione, lo stare seduti tutti assieme intorno al fuoco (oggi che alle roulotte si sono venute sostituendo baracche, precarie costruzioni in muratura o container, è più facile che ci si raccolga al loro interno, intorno a stufe autoprodotte e alimentate con la legna dei pallet, reperita dagli uomini), con la famiglia, i parenti, gli amici, mentre le donne cucinano, a parlare di tutto e di niente, a scambiarsi notizie, a meditare a voce alta, a raccontare storie e leggende, esperienze di vita, ricordi, a socializzare e commentare i grandi avvenimenti della cronaca politica o le curiosità, a contemplare, a rinsaldare rapporti personali. è questo il momento in cui le giovani generazioni vengono educate, il momento della trasmissione dei saperi della comunità, la vera scuola dei rom. Perché tutti indistintamente, uomini e donne, bambini e giovani, possono entrare e uscire liberamente dal cerchio intorno al fuoco, ascoltare e intervenire, imparare, insegnare. In questo modo si ripetono, garantiscono e rafforzano i valori, i principi morali, le esperienze, i modelli di comportamento della comunità e le nuove generazioni li apprendono attraverso questo scuola che non ha un tempo separato e diverso da quello della vita e della famiglia, come avviene per la scuola dei gagé. L’ozio, per il rom, non è il padre dei vizi, ma della conoscenza, della convivialità, dell’intessersi delle relazioni sociali, dei progetti di lavoro comune, del reciproco arricchimento culturale e sociale, delle novità e del rinnovamento.

Tempo per il cambiamento e la solidarietà

La cultura dei rom è la cultura del cambiamento e non della tradizione statica; se c’è una tradizione a cui si resta fedeli è quella del continuo rinnovamento, della continua acquisizione di nuovi elementi culturali e materiali dal mondo dei gagé che viene via via attraversato. Anche se si tratta di elementi assunti sempre in modo proprio, deformandoli, selezionandoli, mescolandoli secondo le proprie necessità, combinandoli con altri precedentemente accolti, in modo da marcare la coscienza della propria diversità e della continuità nel perpetuo cambiamento. Come un popolo “raccoglitore”, il rom tende ad appropriarsi di quanto l’ambiente esterno gli offre di valido, e non sempre il migliore, per la sua sopravvivenza; non solo quindi dei prodotti materiali e della terra, ma anche di quelli tecnici e culturali; di qui la sua tendenza a rinnovare mestieri e lingua, religione e costumi, tradizioni. Ma tutto questo può avvenire perché il suo tempo ha questa dimensione conviviale e diversa da quello dei gagé. Questo è il vero tempo dei rom.

Lo stesso lavoro artigianale che si svolge sul luogo di sosta o nel campo (battere il rame, ad esempio, confezionare i fiori da vendere la sera, ecc.) ha questa dimensione colloquiale, di scambio di relazione. Viene svolto, in mezzo ai figli, che lo interrompono continuamente, ma anche lo imparano osservando e imitando, e si siedono, conversano, accettano un caffè, discutono danno consigli, litigano, fanno affari. Il lavoro deve tendere a produrre la sicurezza della sopravvivenza col minimo dispendio di energie, anche se tutto questo può apparire agli occhi di un sedentario poco produttivo e tempo sottoutilizzato. è questa dimensione conviviale dell’esistenza familiare e di gruppo e quindi dell’uso del tempo che ha reso fino ad oggi difficile per un rom assoggettarsi ai tempi e ai modi rigidi della produzione di una società industriale e di interiorizzarli.

Sono i tempi ampi, soggettivi ed emotivi, della solidarietà, valore fondante per chi vive per la strada o nella marginalità, che lo impediscono. Quando ad esempio c’è un familiare che si ammala ed è in pericolo di vita, doveroso è un andare a sostenerlo, a fermarsi presso di lui per circondarlo fisicamente, in modo da rafforzarne magicamente la sua resistenza al male. Questo vale però, anche per molte altre scadenze e ricorrenze dei rom, quelle riguardanti i passaggi importanti della vita di ciascuno e di quella collettiva, la nascita, la morte, il matrimonio, le feste, le carcerazioni. I tempi dei gagé, che sono quelli della produttività, dell’efficienza, del profitto e dell’accumulo, del successo, si scontrano inevitabilmente con quelli esistenziali, simpatetici, conviviali e solidaristici dei rom. Ma se i rom sono sopravvissuti come culture e gruppi autonomi lo devono anche al fatto di non aver rinunciato ai loro tempi, che ne hanno impedito la scomparsa per assimilazione da parte della società circostante incommensurabilmente più forte e pervasiva. Ma per altri versi ancora, almeno a un osservatore esterno, un gagiò che ha interiorizzato il tempo efficientista e quantitativo delle rivoluzioni industriali e della postmodernità i tempi dei rom possono apparire strani.

Può sembrare, a un’osservazione esterna - anche perché non mi sembra che la questione del tempo dei rom sia stata analizzata e studiata con l’ampiezza di quanto è avvenuto per altri gruppi umani -, che manchi loro il senso della profondità prospettica e storica del tempo. Non avendo l’abitudine a quantificarlo, a misurarlo e a datarlo con i nostri parametri, ma con altri metodi e strumenti concettuali, su cui appunto occorrerebbe fare chiarezza mettendosi nei loro confronti in situazione di attenzione e ascolto, i concetti di lontano o vicino, di passato, di oggi e domani, ci appaiono indeterminati e relativi: un avvenimento recente, può essere avvertito e detto come se fosse lontano, nel tempo, di anni, in base ai sentimenti e le emozioni del momento. Ad esempio: di una persona amica, la cui conoscenza risale a pochi anni o anche mesi prima, si dichiarerà che la si conosce da tempi immemorabili e se si tenta di quantificarli, vengono fuori cifre fantasiose e improbabili; ma non si tratta di una falisificazione e neanche di una enfatizzazione retorica, bensì di una convinzione profonda; l’amico è come se lo si conoscesse da sempre, perchè, oggi, lo si avverte come presenza indispensabile e questa indispensabilità viene estesa a un arco di tempo della propria vita lungo, in modo da fornirne la prova e la conferma. è una quantificazione sulla base del principio della qualità e non del nostro tempo meccanico. La stessa idea di anno (o di mese e, a volte, di giorno della settimana), come unità di misura astratta e quantitativa del tempo, non ha molto senso presso i rom. Il loro è, da questo punto di vista, un tempo dettato da altre quantità e ragioni e misurato dalle emozioni e, direi, governato dal presente.

E il futuro?

Se la ricostruzione e il senso del passato personale e familiare, ci sembrano caratterizzati dalla discontinuità e dalla soggettività, neanche il futuro appare quantificabile. Un impegno, un appuntamento per domani è solo una probabilità. Se alla richiesta da parte di qualcuno di fare con lui qualcosa di importante subito, si risponde - “ora non posso, ma domani sì” - non è detto affatto che questo domani venga ricordato e impegni. Possono passare giorni o anche che non se ne parli più. è il tempo presente che domina con la sua forza cogente, ma anche con la sua emotività; passato e futuro, sono entità astratte che, se non vengono misurate e quantificate, e i rom, in genere non lo fanno, diventano evanescenti, instabili e inservibili. In genere presso i popoli che non hanno interiorizzato il nostro modo di misurare e vivere il tempo, cioè che non hanno la nostra “cultura”, questa forme di discontinuità, di uso e di sentimento diverso del tempo, sono normali e diffuse, espressione non di mancanza, minorità o arretratezza come spesso si vuol pensare, ma di effettive diversità culturali e dei modi di vivere tempo e spazio, rispetto ai nostri. Nella raffinata architettura sociale del mondo dei rom, questo loro tempo li struttura, li definisce, li tiene uniti, dà loro identità, permette la pratica della solidarietà, e con tutto questo li distingue dai gagé. Indubbiamente questa sfasatura tra il nostro tempo e quello dei rom produce difficoltà di rapporto, pregiudizi e incomprensioni che vanno tutti a danno della parte più debole, a cominciare dal lavoro: gli “zingari” appaiono essere dei fannulloni, senza voglia di lavorare. Lavorano invece, ma secondo i loro tempi conviviali, non secondo il nostro principio che il tempo è denaro.

Senso della storia

Ai rom “manca” - si dice - anche il senso della storia, sono un popolo senza storia e senza memoria del proprio passato. Anche questo può apparire strano ed essere spiegato, pregiudizialmente, con il loro analfabetismo, ma sarebbe un grave errore farlo, perché anche la mancanza di storia e di memoria è il prodotto della cultura dei rom, un tassello indispensabile della loro costruzione sociale. Non vogliono e non devono ricordare. è per sopravvivere, come fino ad ora, che hanno bisogno di non conservare la memoria del loro passato o di conservarla in forma mitiche, leggendarie, indeterminate e generiche. Perché una società che vive nella precarietà come la loro, minoranza debole e indifesa, in un territorio, quello dei gagé, ostile, pieno di pregiudizi, non ha che un’arma di difesa, quella della solidarietà interna. Ma per mantenerla senza dotarsi di un’organizzazione qualsiasi - un re, un presidente, un parlamento o altro che possa essere - e volendo restare privi assolutamente di capi e strutturazioni, diventa necessario garantire la permanenza della sostanziale eguaglianza di tutti. Ma non c’è un’istituzione dei rom che la proclami, o la voglia o la promuova. Può invece avvenire e avviene che, come in tutti i gruppi umani, ci, sia quello più bravo, quello più capace, quello più scaltro, quello più abile negli affari o nel parlare, quello che fa più soldi e quello che diventa autorevole perché ha più saggezza ed equilibrio da farlo ricercare nei momenti di crisi interne. Gli equilibri difficili dell’eguaglianza vengono continuamente messi in difficoltà dall’emergere di qualcuno. Ma - e qui sta l’estrema raffinatezza di questa struttura sociale “egualitaria” (anche se non certo tra uomini e donne) - se è inevitabile e perfino utile alle società rom che emergano persone abili, che in determinate situazioni facciano da guida agli altri, non è bene che questa diventi una situazione permanente e che si stabiliscano dei capi istituzionalizzati. Una famiglia, grazie a un suo membro più capace, può quindi acquistare prestigio, autorevolezza, potere e ricchezza, ma i rom per evitare che si possano stabilire gerarchie al loro interno, hanno elaborato la norma che dei morti non si deve parlare e che i loro averi devono essere bruciati o comunque accantonati e non utilizzati.

Se dei morti non si può più parlare, si inizia a perderne la memoria immediatamente dopo la morte e questo vale anche e soprattutto per chi è stato autorevole e ha avuto prestigio e potere nel suo gruppo. Neanche la sua memoria può essere lasciata in eredità alla famiglia che non avrà più modo di vantarsene e di sfruttarla per garantirsi eventuali posizioni di privilegio. Se poi, come avveniva (oggi un po’ meno, segno che anche i rom qualche cedimento alla nostra cultura lo stanno facendo), anche i suoi beni, la sua roulotte, il suo denaro, i suoi oggetti venivano dati alle fiamme, alla famiglia, ricca e autorevole fino a quel momento, non restava niente, diventava l’ultima del gruppo a cui gli altri membri dovevano però offrire solidarietà concreta e quindi anche mezzi minimi per riorganizzarsi e riprendere la vita quotidiana. Si tratta di una specie di giubileo alla rovescia rispetto a quello ebraico, ma non meno importante nella vita di questi uomini e donne. Liberazione e restituzione per Israele, mentre i rom azzerano proprietà, memoria e storia per preservare l’unità e l’eguaglianza al loro interno, una forma altra di giustizia, perché ricchezza e prestigio sono potere che mette in pericolo l’unità. Contemporaneamente però, devono praticare in modo concreto e immediato, nei confronti dei familiari del defunto, la solidarietà che è uno dei loro valori fondanti per cui è necessaria questa distruzione di memoria e beni.

Concludo con la citazione di uno scritto di Raimon Panikkar: “Se vogliamo entrare in un mondo di diverse culture dobbiamo accettare che le altre culture vivano in un altro modo, vedano la realtà in un’altra forma e abbiano criteri e di bellezza e di verità e di bontà e del mondo possibilmente diversi dai nostri”1.

   

1 Citazione tratta dall’articolo di padre Agostino Rota Martir, Signore liberaci dai progetti, su “Mosaico di pace”.