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La dimensione comunitaria della fede cristiana (E.Castellucci)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/07


“Nessun uomo è un’isola”: la famosa frase del poeta inglese John Donne (+ 1631) vale certo per tutti gli uomini, ma vale in particolare per i battezzati; si potrebbe dire: “nessun cristiano è un’isola”. Non è infatti possibile vivere la fede cristiana solo come un fatto privato, intimo, riservato.

In altre grandi religioni l’aspetto comunitario è meno sottolineato o è addirittura assente: pensiamo ad esempio al buddhismo, o all’ultima fase dell’induismo (quello della Gita), che propongono come via fondamentale di liberazione dal dolore e di conquista della felicità il distacco graduale da tutto e da tutti, l’indifferenza di fronte alle passioni e alle gioie, alle sensazioni interiori e persino a quelle corporee. In queste millenarie tradizioni religiose una vita di comunità viene proposta come modalità per alcuni - i monaci - non come cammino per tutti; e la vita comunitaria, in questo caso, è semplicemente la cornice che serve a rendere più facile la pratica dell’ascesi. In un’altra grande religione, l’islam, la comunità (’umma) è l’insieme di tutti i credenti che nel mondo professano la fede coranica e ne mettono in pratica i precetti; l’essenziale però consiste nell’adesione individuale, senza mediatori (non esiste una vera e propria “Chiesa”, non esistono sacerdoti, non c’è un culto, ecc.), alla religione di Allah e al suo profeta Muhammed.

Nell’ebraismo e ancora più nel cristianesimo, invece, la dimensione comunitaria appartiene essenzialmente alla professione e alla pratica della fede. L’Antico Testamento contiene innumerevoli passaggi nei quali Dio si rivolge al “popolo”, lo chiama, lo esorta, lo sgrida, lo consola… e anche quando parla con qualche personaggio (Mosé, Davide, un profeta, ecc.) lo fa per arrivare a tutto il popolo. Il Dio biblico non si accontenta di raggiungere il cuore di ciascuno, ma vuole che ciascuno si converta fino a formare un popolo, una comunità. Nel Nuovo Testamento è Gesù che incarna questa caratteristica di Dio, poiché è lui stesso il volto, la parola, la presenza di Dio: per questo già dall’inizio della sua missione egli si circonda non di semplici individui sparsi, ma di una vera e propria comunità, quella dei Dodici. “Ne fece Dodici” (Mc 3,14): con questa curiosa espressione, l’evangelista Marco vuol farci capire che fin dall’inizio Gesù raccoglie attorno a sé una comunità; vive con loro, cammina con loro, mangia e dorme insieme a loro: e dopo che questa comunità si sfalda, in occasione della sua crocifissione, l’esperienza della risurrezione la porta a ricomporsi immediatamente (cf. At 11,15-26); la Chiesa non è altro che la comunità dei Dodici, con Maria, che si dilata nella storia.

I discepoli di Cristo formano comunità

Perché Gesù non si è accontentato di provocare l’adesione di fede nei singoli, e ha voluto comporre una comunità? Il motivo profondo sta addirittura nelle due verità centrali della fede cristiana: la Trinità e l’Incarnazione. Nella sua stessa natura, Dio è comunità: non è un monaco, non è un essere isolato e solitario; Dio esiste come unità trinitaria, cioè come comunità, famiglia, relazione. Il Dio cristiano - a differenza dell’Assoluto buddhista, del Brahman indù, ma anche di Allah - è segnato dalla relazione nella sua stessa natura. Per questo Giovanni l’ha potuta esprimere sinteticamente con l’affermazione “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16). Un Dio che è amore - e non semplicemente pensiero, azione, spirito, movimento - è proteso fuori di se stesso: infatti decide di dare origine al cosmo e all’uomo, per espandere l’amore, donarlo a qualcuno, esserne ricambiato. Fino alla decisione più costosa, quella di farsi carne, assumere la condizione ferita della sua creatura, condividere tutto con lei - persino la morte vergognosa della croce - e farla risalire a Dio nella risurrezione. Ecco dunque il motivo profondo per cui non esiste cristianesimo senza esperienza comunitaria: Dio stesso è comunità, e ha voluto fare comunità con l’uomo.

La risposta da parte dell’uomo a un Dio che è amore non può che essere quella dell’amore. Infatti il nucleo della predicazione di Gesù, ossia il Regno di Dio, ha come legge l’amore (cf. Mt 22,34-40 e par.). Se il centro della predicazione di Gesù fosse stato - supponiamo - la mortificazione o l’ascesi, allora non sarebbe necessario un percorso comunitario per essere cristiani: si potrebbero benissimo praticare la mortificazione o l’ascesi da soli. Ma poiché il centro è l’amore, è evidente che il cammino cristiano è comunitario: non si ama da soli, e quindi chi segue Gesù intraprende un cammino intrecciato con quello di tanti altri fratelli e sorelle che hanno scelto di rispondere con l’amore all’amore di Dio.

Riflettendo su questi forti legami tra i discepoli di Gesù, che neppure la morte ha spezzato perché Cristo è risorto, Paolo e Giovanni ci hanno regalato le due immagini più forti della Chiesa come comunità: il corpo con le membra (cf. Rom 12,4-6; 1 Cor 12,12-27) e la vite con i tralci (cf. Gv 15,1-11). L’immagine della Chiesa come corpo di Cristo mette in luce soprattutto il fatto che i battezzati sono non semplicemente quelli che si ispirano a Gesù, ma quelli che sono misteriosamente inseriti in lui, fanno una cosa sola con lui, proprio come le membra con il corpo; di conseguenza, le relazioni tra di loro devono essere improntate all’aiuto reciproco e alla carità, non all’invidia o alla concorrenza (cf. 1 Cor 12-14). L’immagine della Chiesa come insieme dei tralci uniti alla vite che è Gesù sottolinea a sua volta che il battezzato è dentro alla realtà di Cristo e che ne riceve vita e forza; ma come i tralci sono tanti e sono collegati tra di loro attraverso la vite, così i cristiani sono strettamente uniti tra di loro attraverso Cristo.

I discepoli di Cristo vivono comunitariamente

Che cosa significa concretamente vivere una fede cristiana comunitaria? Significa partecipare alla vita parrocchiale o alla missione cattolica o ad un gruppo o movimento riconosciuti dalla Chiesa. Una partecipazione che - guardando il Vangelo e la pratica delle prime comunità (cf. soprattutto At 2,42-46) - possiamo indicare in tre direzioni: la testimonianza della fede trasmessa dagli Apostoli; la partecipazione attiva alla celebrazione liturgica e in particolare all’eucaristia domenicale; la pratica dell’amore verso i fratelli di fede ma anche verso gli altri, specialmente i più svantaggiati.

Il primo aspetto consiste nell’ascolto della parola di Dio e nella sua trasmissione agli altri, dentro e fuori la comunità. Un cristiano non può accontentarsi di pensare a Dio così come “gli detta il cuore”, perché esiste sempre il rischio che si crei un dio a propria immagine e somiglianza, come fanno tanti; egli deve invece cercare sempre, insieme ai fratelli di fede, il volto di Dio così come Dio stesso lo ha voluto rivelare, specialmente nella Scrittura. Ma la Scrittura non è fatta solamente per essere letta dagli individui, ma per essere proclamata nella comunità. Momenti di catechesi, gruppi biblici, incontri guidati sulla Bibbia o su testi del Magistero, occasioni di comunicazione della propria fede ed ascolto reciproco: tutto questo tessuto di relazioni attorno ai contenuti della fede non può mancare per chi vuole camminare dietro a Gesù nella Chiesa.

Il cristianesimo non è però solo “parola”, ma è “parola ed evento” strettamente legati: Gesù ha allora lasciato ai suoi discepoli anche i sacramenti - in particolare il Battesimo e l’Eucaristia - perché la sua comunità doveva sperimentare di essere unita non solo dalla fede ma anche dalla grazia, dall’azione continua ed efficace dello Spirito Santo nella Chiesa. E specialmente l’Eucaristia domenicale il momento del riconoscimento dei cristiani: è infatti l’occasione nella quale essi sperimentano che fanno comunità non perché sono i migliori, i più capaci, i più buoni o i più bravi, ma perché si nutrono tutti di quello stesso pane che è il corpo di Gesù, e per questo essi diventano “un solo corpo” (cf. 1 Cor 10,16-17).

Il cristianesimo, infine, è anche una prassi, che ha come stile e contenuto l’amore. Non basta, per vivere da cristiani, ascoltare e comunicare la parola di Dio o partecipare alla Messa: questi sono due aspetti essenziali, che però rimarrebbero astratti se non sfociassero nella pratica della carità. E la stessa parola di Dio che, come sopra accennato, ruota attorno all’amore; è la stessa eucaristia che spinge ad amare: parola ed eucaristia sono come la “carica” che si deve poi esprimere nella vita quotidiana, a tutti i livelli.

I laici cristiani, che hanno famiglia e lavorano, non possono certo dedicare tutta la giornata e nemmeno la maggior parte di essa ad occuparsi di estranei che hanno bisogno. Ma già dentro la propria casa - anzi, occorre proprio partire di lì - si comincia a tradurre l’amore; e poi nel luogo di lavoro, praticando uno stile di attenzione agli altri, onestà e pazienza; e poi nel gruppo, nella parrocchia o nella missione si trovano tante persone che attendono un sorriso, un’attenzione e a volte anche un aiuto più consistente; infine anche fuori dell’ambito ecclesiale vi sono certamente situazioni nelle quali è possibile prestare un’opera di volontariato, anche minima, che esprima la premura del buon Samaritano verso lo straniero (cf. Lc 10,25-37). La testimonianza più incisiva e provocatoria del cristiano, infatti, appare proprio quella della carità verso tutti, come ci ha detto con grande profondità il Papa Benedetto XVI nella sua prima Enciclica “Deus Caritas est”.