Un aspetto decisivo del progetto è costituto dalla rilevanza artistica degli arredi liturgici: concepiti come spazi dialoganti, e non come mere suppellettili, sono realizzati secondo un disegno coerente e fortemente innovativo, utilizzando maiolica, legno intagliato ed elementi metallici. Giorgio Quaroni, fratello del progettista, disegna e dipinge il crocifisso in legno appeso sull‘ altare; i fratelli Pietro e Andrea Cascella realizzano le opere in ceramica, Luciano Nioi i pannelli lignei intagliati e le lamine a sbalzo, Enrico Castelli le lampade e la scala metallica per la salita alla torre-tiburio. E‘ evidente come la collaborazione tra architetto e artisti nasca da una condivisione preliminare e profonda di intenti, esito di un percorso comune di riflessione, sperimentato anche in altre opere; anzi, in questo caso l‘architetto è quasi committente diretto delle opere: la responsabilità, ricorda Quaroni stesso, era stata «assunta in proprio dall‘architetto progettista» (Quaroni 1955, p. 31). Secondo la rilettura critica di Tafuri «il senso della trascendenza è già calato nello spazio, nelle "cose", negli oggetti inerenti alle funzioni sacre: ed in questo senso sono senz‘altro integrate alla concezione dell‘interno le figurazioni di Pietro Cascella e di Giorgio Quaroni» (Tafuri 1964, p. 114). Anche Pina Ciampani aveva già rilevato tale intimo legame: «Per l‘arredamento e la decorazione della chiesa è notevole osservare come l‘architetto abbia saputo e potuto fondere in unità l‘opera di diversi artisti. (…) Troppo spesso avviene invece, anche nelle migliori nuove chiese, che i singoli artisti, non guidati da un‘idea comune e da una ricerca di unità e di religiosità dell‘ambiente, facciano delle opere a sé stanti, senza alcun collegamento tra loro» (Ciampani 1959).
La vicenda della posa in opera delle opere d‘arte, tuttavia, non è stata del tutto pacifica. Ricorda Quaroni: «per l‘arredo della chiesa è stato gettato un grido d‘allarme quando, arrivate le casse da Roma, il parroco andò a sbirciare le sculture che apparivano da qualche cassa aperta, correndo dal Vescovo perché aveva ravvisato, nei dettagli, qualcosa di blasfemo: il Vescovo telefonò alla Pontificia Commissione d‘Arte Sacra, e questa spedì immediatamente un suo uomo di fiducia, che però disse di non poter dare nessun giudizio serio finché tutto non fosse stato montato e collocato in opera; cosa che fu fatta, dopodiché dovettero constatare, forse con rammarico, che non c‘era altro che qualche cosa, e questo è il punto, che non faceva per il loro gusto» (Quaroni 1985, p. 147). Il nodo problematico principale è il riferimento all‘arte "primitiva" espresso dalle opere (Casarola 2011), intesa dal parroco come estranea alla cultura cristiana, oltre ad alcuni evidenti difetti di "praticabilità" liturgica dovuta al dimensionamento o alla disagevole struttura degli arredi. La Pontificia Commissione interviene con un sopralluogo dei massimi responsabili, il cui resoconto è riportato nella rivista vaticana «Fede e Arte» (Alfano 1955): riconosciuto il valore architettonico, si esprimono critiche ad alcuni dettagli inutilmente enfatici e al neo-primitivismo degli arredi che viene in parte ritoccato con una policromia meno ostica. La chiesa viene comunque consacrata quattro mesi dopo, ad eccezione dell‘altare maggiore, inidoneo alla celebrazione. Le testimonianze epistolari di Andrea Cascella testimoniano come gli artisti stessi abbiano tentato di condividere la vita del luogo e il selvaggio contesto naturale: «Qui la luna è più grande del vero ed è colorata. Di giorno il paesaggio è bianco, giallo e nero. (…) Il mezzogiorno con il sole alto è allucinante, tutto brucia e si incendia e il sangue si fa pesante» (13 luglio 1955, cit. in Appella 1993, p. 149), o ancora, poche settimane prima dell‘inaugurazione: «Partirò ancora per il vecchio Sud a ricercare qualche cosa metà pagano e metà cristiano, ma soprattutto unico e classico» (20 agosto 1955). D‘altra parte, emerge un contatto schietto e alterno con il clero locale: durante l‘esacerbarsi delle polemiche, Andrea Cascella scrive «Veramente i pretacci del posto sono un po‘ sbalorditi nel vedere le nostre cose dal vivo, ed ora che sono arrivate in luogo le trovano un po‘ "futuriste"» (20 giugno 1955); il clima del villaggio pare più equilibrato poche settimane dopo, forse dopo l‘approfondimento della reciproca conoscenza: «Gioco a carte con il prete la sera e vinco regolarmente (gli ho vinto già più di cento messe)» (13 luglio 1955).