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Una proposta di "europeizzazione" delle scuole nazionali (S.Ridolfi)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/10


La libera circolazione dei beni e delle persone all’interno della Comunità Europea ha richiesto un ingente ed accurato lavoro di osservazione prima e di decisioni poi perché detta libertà si realizzasse al meglio e non si inceppasse a causa di situazioni nazionali non integrabili ad un contesto comunitario. E di strada se ne è fatta.
Ma ancora maggiore riflessione, sperimentazione e decisionalità andavano e vanno sempre concordemente valutati ed adeguatamente messi in opera quando si tratta di formazione scolastica.
L’Europa non può essere vista come una espressione geografica né essa può limitarsi ad essere una semplice comunità di interessi, ma deve riuscire ad unire popoli e nazioni sulla base di valori fondanti e condivisi quali le libertà individuali e dei popoli, la dignità dell’uomo, la corresponsabilità e solidarietà, la formazione della coscienza di vicendevole appartenenza ed integrazione per una pace sicura, un benessere diffuso ed una solida giustizia sociale.
La scolarizzazione è un primo gradino per la formazione conseguente delle giovani generazioni, un gradino necessario in ogni caso e spesso decisivo per la loro ascesa culturale, professionale e sociale nonché per il processo di integrazione nella società locale.
Una proposta antica
L’UCEI (Ufficio Centrale per l’Emigrazione Italiana, oggi MIGRANTES) dedicò la “Giornata Nazionale delle Migrazioni” del 1979 alla scuola di base come presupposto alla integrazione dei ragazzi nella realtà locale lanciandola con il motto “scuola senza frontiere”.

Allo scopo venne organizzato a Roma il 15-17 dicembre 1978 un seminario di studio “la scolarizzazione dei figli dei lavoratori migranti” con funzionari della Comunità Europea, esperti del Ministero della Pubblica Istruzione e degli Affari Esteri assieme a responsabili delle associazioni professionali cattoliche del settore AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), UCIIM (Unione Cattolica Insegnanti Media) e rappresentanti di associazioni degli emigrati come l’ANFE (Associazione Nazionale Famiglie degli Emigrati). In quel Seminario di studio (i cui Atti sono stati pubblicati in un Quaderno di
Servizio Migranti, il 1° della serie!, “La scolarizzazione dei ragazzi migranti in Europa”, ed. UCEI, Roma, 1979) e propose ai partecipanti una concreta scaletta di discussione per procedere verso una europeizzazione delle scuole nazionali “già macchiatesi di nazionalismi”. E veniva chiarito che non si trattava “tanto di ‘cosa’ insegnare quanto di ‘come’ e ‘perché’; non è la quantità delle nozioni quanto la qualità dell’insegnamento che vale” (cit. Quaderno UCEI, pg. V).
E precedentemente nell’ottobre 1978, in seguito a decisioni quanto meno discutibili sulla negazione del sostegno finanziario alle scuole delle Missioni Cattoliche, l’UCEI aveva fatto una dichiarazione sostenendo che “il ragazzo è il punto di partenza e di riferimento per la riforma della scuola che coinvolge le strutture a lui finalizzate” (ivi).
La proposta che si era venuta delineando teneva conto della esperienza delle “scuole europee” - quelle poche presenti in alcuni paesi della Comunità e riservate ai figli degli addetti alle istituzioni comunitarie - che avevano tra l’altro sviluppato la modalità della “lingua di base” (quella materna) e quella “veicolare” (la lingua del paese della scuola), due lingue presenti contemporaneamente in tutto il curriculum scolastico in modo da averne alla fine padronanza facile e sicura.
Una “nota” sulla proposta del processo di europeizzazione delle scuole nazionali, poi sottoposta alla considerazione del citato seminario di studio e che qui di seguito viene riportata, era stata presentata, su richiesta, già l’anno precedente all’Ufficio competente del Ministero Affari Esteri senza per altro averne alcun riscontro.
La proposta indicava il seguente processo di europeizzazione delle scuole nazionali:
1. equiparazione degli anni della scuola dell’obbligo al livello più alto attuale (nella Comunità);
2. armonizzazione sostanziale dei programmi nei singoli anni (della scuola dell’obbligo) sì da permettere i riferimenti;
3. revisione dei modi e dei contenuti di alcune materie, principalmente storia, educazione civica, geografia;
4. introduzione di una lingua comunitaria già nei primi anni delle elementari (la “veicolare”, che per i figli degli emigrati dovrebbe essere la lingua materna perché la “lingua base” è quella del luogo) e alle medie superiori di una lingua straniera a scelta ;
5. istituzione di un nuovo tipo di insegnante, “l’insegnante di lingua”, che di norma dovrebbe insegnare la lingua materna (con conseguente mobilità di maestri nella Comunità):
6. sperimentazione di quanto sopra accennato per un suo graduale passaggio alla scuola normale a mezzo di scuole-pilota, che chiameremmo “scuole biculturali” (la Direttiva CEE del 25 luglio 1977 può aiutare molto in merito) (ivi, pgg. V-VI).
Riscontri consolanti, anche se tardivi
Non può essere qui riportata la ricchezza di osservazioni, revisioni, adattamenti che sorsero in quel Seminario di studio (vedasi al riguardo il citato Quaderno).
Ma è consolante constatare che almeno qualcosa dopo ventun anni viene recepito dalla scuola italiana. La riforma Gelmini in atto prevede infatti una lingua straniera, l’inglese, almeno nei suoi primi rudimenti, già nella scuola materna.
Sia permessa allora una osservazione, quella ossia di constatare quanto le istituzioni siano lente a recepire i fermenti che vengono dalla società e come purtroppo esse si facciano guidare nei loro interventi quasi esclusivamente da concezioni politiche più che da esigenze squisitamente pedagogiche.
“La scuola è di tutti, ma di tutti per uno, il ragazzo” venne allora dato come messaggio fondamentale (pg. 101 del citato Quaderno), ciò che vale ancora oggi.