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Migrazioni nel progetto culturale


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/03


LETTURA DELLE MIGRAZIONI IN CHIAVE CRISTIANA
di Francesco Bonini
Nel suo primo intervento del 2003 Giovanni Paolo II, ha nuovamente rivolto un pressante appello per la pace, all’inizio di un anno caratterizzato da venti di guerra. I credenti, ha detto, non perdano la speranza, anche quando si moltiplicano gli ostacoli e gli attentati alla pace. Sono passati quarant’anni da un documento attualissimo e sorprendente, la Pacem in terris di Giovanni XXIII: “come allora, pure oggi è richiesto a ciascuno di dare il proprio contributo per promuovere e realizzare la pace, mediante scelte generose di comprensione reciproca, di riconciliazione, di perdono e di fattiva attenzione a chi è nel bisogno. Sono necessari concreti “gesti di pace” nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle comunità, nell’insieme della vita civile, nei consessi sociali nazionali e internazionali. Non bisogna mai smettere di pregare per la pace”.Un clima incertoNon sembri semplicemente un catalogo di buone intenzioni. Si tratta più in profondità di un programma d’azione, che dovrebbe qualificare, tanto sul piano sociale e politico, quanto su quello esistenziale, i cristiani e i cattolici in particolare, in questo complesso passaggio storico.C’è infatti, nella cultura e nella politica italiana, ma più ampiamente si potrebbe dire occidentale, la percezione di un malessere che le iniziative belliche dell’unica superpotenza, lungi dal mascherare, mettono invece in maggiore evidenza. L’impressione, soprattutto in Italia e in molti paesi europei, è quella di una situazione malferma, un futuro avvolto nell’incertezza. Lo dimostra il moltiplicarsi di interrogativi su un possibile declino, di cui molti avvertono i sintomi, in particolare nell’allungarsi delle distanze sociali.Venendo più in particolare al nostro Paese le analisi sociali sottolineano una “galleggiante stazionarietà”, una situazione di stallo, confermata dagli indicatori sulla dinamica del Pil, dei consumi, dell’occupazione, degli impieghi, ma anche dei comportamenti collettivi. Tutto questo comporta un progressivo abbassarsi degli orizzonti: “fa pensare a molti che il declino sia inevitabile, visto che l’autonoma vitalità dei tanti soggetti economici e sociali non ha capacità reali di fare da contrappeso” ai deficit sistemici, come si legge nel più recente rapporto ISTAT.Si abbassano gli orizzonti insomma e il rischio è che di conseguenza si rinchiudano i cuori, mentre il sistema tollera, proprio per questo processo di “imbozzolamento” come prima reazione ad una situazione di stagnazione, un tasso crescente e tendenzialmente permanente di violenza diffusa, molecolare, non registrata per questo dalle cronache o dagli indicatori.Insomma - e le analisi sembrano non lasciare dubbi - le pile sono scariche e una situazione di stallo e un clima di delusione caratterizza il Paese, senza che peraltro questo generi forme di mobilitazione o di iniziativa politica.Questo tuttavia non significa accoccolarsi nella contemplazione della crisi. Proprio i periodi di crisi (e se restiamo semplicemente al linguaggio dei numeri stiamo vivendo una crisi economica a livello mondiale paragonabile soltanto, per intensità e durata, con quella del 1929) sono il momento per realizzare forme di investimento anticiclico, come dicono gli economisti. Sono il momento per costruire qualcosa di nuovo e di durevole.E sulla natura di questi investimenti che occorre riflettere. Non si tratta soltanto di investimenti per stimolare l’innovazione e creare infrastrutture adeguate per l’attesa, auspicata ripresa economica. Il processo di investimento deve essere più ampio e riguardare i grandi nodi, culturali, morali e alla radice spirituali, cruciali per lo sviluppo della civiltà.In questo senso la mobilitazione per la pace, nel senso ampio ricordato con le parole di Giovanni Paolo II, nel quadro dell’enciclica Pacem in terris, può essere particolarmente significativo. Operare per la pace significa, come insegnò (e seppe testimoniare) Giovanni XXIII, impegnarsi sui quattro pilastri, che sono anche esigenze umane essenziali, della verità, della giustizia, della libertà e dell’amore. Viene disegnato così un circuito virtuoso, che richiama l’essenziale della dottrina sociale cristiana, come modalità di intervento e di testimonianza nel mondo complesso e sviluppato, nel mondo globalizzato dalla fine del XX secolo.Il tempo dell’investimentoLa Chiesa italiana ha dato già ormai da diversi anni il nome di “progetto culturale” a questo tempo dell’investimento, come dinamismo spirituale, etico e culturale, come necessaria, strutturale risposta alle molteplici sfide di questo momento storico complesso (e accelerato) di transizione.Progetto culturale significa identificare il terreno della cultura - intendendo questa espressione nel significato più ampio, ma nello stesso più esigente e concreto - come decisivo oggi anche in relazione con le scelte sul futuro dell’uomo. Qui la Chiesa è chiamata a rilanciare e riformare la sua pastorale, qui in particolare i laici sono chiamati ad una testimonianza più consapevole, più aperta, più intensa. Obiettivi del progetto culturale sono infatti rendere più adeguata la proposta pastorale e più estroversi i laici nella società.Molto è stato fatto negli ultimi anni in termini di iniziative di elaborazione, di studio, di approfondimento, ma anche di incontro, di proposta, di impegno concreto, nelle diverse situazioni diocesane e locali, come sul piano nazionale, nei diversi ambiti pastorali, tra cui ha avuto un posto importante proprio quello delle migrazioni.Il progetto culturale ha rappresentato, negli anni dal convegno ecclesiale di Palermo, una risorsa, da un lato come appello preciso a leggere con strumenti adeguati i cambiamenti, ad andare alla radice dei processi di una storia accelerata, dall’altro ad avere, nei confronti dei cambiamenti in atto, un atteggiamento adeguato, che non è di accettazione acritica, né di chiusura aprioristica, ma piuttosto di confronto attivo, per potere disegnare originali percorsi di risposta.Si è capito quanto anche la stessa comunità ecclesiale sia investita dai processi che sono stati appena ricordati, quanto siano evidenti la stanchezza, la routine, le difficoltà. Ma si è toccato anche con mano quante siano le risorse vive e presenti.Certo moltissimo c’è da fare, anche solo per fare sì che tutti i soggetti che fanno ricca, ma anche articolata e piena di sfaccettature la comunità ecclesiale italiana, sentano l’esigenza e nello stesso tempo costruiscano gli strumenti per lavorare insieme. Non si danno infatti risposte semplificate a questioni complesse, ma non si possono neppure dare risposte settoriali a problemi che appaiono oggi sempre più interconnessi.Eppure c’è bisogno di risposte, o comunque almeno di percorsi di risposta credibili e concretamente percorribili per vincere quella sensazione di stallo, quel clima di impotenza, che così ampiamente si percepisce e genera disillusione e una progressiva fuga dalle responsabilità. D’altro canto per potere offrire risposte, o comunque percorsi di risposta credibili, occorre anche andare al di là dei luoghi comuni, di una (supposta) razionalità globalizzata, così pervicacemente veicolata dal sistema della comunicazione e del consumo globalizzati. Ritorna un atteggiamento, un abito culturale e spirituale che caratterizza il cristiano da sempre ed in ogni situazione: non possiamo accontentarci. Basti ad esempio l’atteggiamento di fronte alla globalizzazione, dove è emersa una posizione originale, anche se certamente scomoda per molti. Se affermare l’impegno ad essere “profetici” può apparire a prima vista troppo gravoso oppure cadere nella retorica, questa constatazione, non possiamo accontentarci, ne esprime comunque l’esigenza. E situa, posiziona i cattolici risolutamene dalla parte dell’uomo, delle sue esigenze più elementari e nello stesso più alte, che sono i valori, non declamati, ma verificati nel concreto della situazione storica. Questi non possono mai essere ridotti ad espressione economica, non possono mai essere sottoposti a compressione materialistica.Migrazioni e progetto culturaleL’accelerazione dei processi e delle dinamiche che caratterizza la fine del XX secolo evidentemente ha come suo principale aspetto il fenomeno della mobilità, delle migrazioni, che caratterizza per la prima volta nell’età contemporanea anche il nostro Paese, non più all’esterno, ma all’interno dei propri confini. Dobbiamo affrontare, come ci ricorda il testo degli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano un capitolo sostanzialmente inedito del compito missionario: quello dell’evangelizzazione di persone condotte tra noi dalle migrazioni in atto. Ci è chiesto in un certo senso di compiere la missione ad gentes qui nelle nostre terre.è proprio, in termini assolutamente pratici ed evidenti a ciascuno, la sfida di cui prima si è detto. La potremmo articolare in tre punti, strettamente compenetrati.Uno è evidentemente la risposta alle emergenze: sono i gesti semplici e concreti dell’accoglienza, del sollievo alle situazioni più evidenti di bisogno. Certo uno dei rischi per le istituzioni ecclesiali oggi più che mai, proprio qui, in Italia e nell’Occidente è quello di essere utilizzate e limitate al ruolo di “agenzie di soccorso”. La risposta all’emergenza non basta, anzi, non ha significato se non è testimonianza. Emerge così il dinamismo spirituale e culturale che oggi ci è richiesto con nuova, particolare evidenza.Un altro punto è allora della consapevolezza, del respiro culturale, nel senso di umano, etico che i cattolici sono chiamati a testimoniare oggi sulla scena del mondo, a partire proprio dai rapporti sociali “corti”, quelli cioè che riguardano la quotidianità.Siamo così ad un altro punto, la qualità spirituale, in modo che il Vangelo sia incarnato nel nostro tempo per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienza integrale di tutto ciò che è autenticamente umano. In una società in cui anche in contesti piuttosto omogenei, come l’Italia, emergono diverse etnie e diverse religioni, sia pure con rispetto e attenzione per le loro tradizioni e culture, non occorre certo uno scipito sincretismo, ma semmai un dippiù di capacità, passione, desiderio di testimoniare il Vangelo, cioè di identità, nel senso aperto e liberante che per noi ha questa espressione.Ritorniamo così a questo pressante appello per la pace, intesa proprio come l’equilibrio dinamico cui porta l’affermazione e la testimonianza dei valori ed in particolare dei quattro pilastri che Giovanni XXIII ricordava come autentici fondamenti: verità, giustizia, libertà, amore. Impegnarsi in “concreti gesti di pace” significa, ai diversi livelli, schierarsi risolutamene dalla parte dei più deboli e nello stesso tempo essere testimoni credibili del Vangelo sia incarnato nel nostro tempo per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienza integrale di tutto ciò che è autenticamente umano.La realtà del fenomeno migratorio, nelle sue molteplici espressioni, è infatti un po’ la parabola, ma anche la pietra di paragone, della situazione odierna, tanto sul piano interno che internazionale, del grande cambiamento culturale, ma anche sociale. Sollecita risposte adeguate, che partano dall’uomo e così possano vincere l’idolo sottile delle nostre società avanzate: un materialismo sempre più inappagante…Ne scaturisce così una operosità originale, che si prodiga sulle frontiere del bisogno, ma non è mai una semplice rincorsa di emergenze: è sostenuta da un costante discernimento e da un sempre nuovo dinamismo di testimonianza evangelica.