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Proselitismo dei movimenti religiosi alternativi tra i migranti (B.Mioli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/08


 

Una realtà in atto e in espansione

La presenza di movimenti religiosi alternativi (così li chiamiamo, ma più di uno merita il nome di “setta”) è consistente e allarmante fra gli immigrati, in particolare fra gli africani sub–sahariani e dell’America Latina, è consistente e allarmante; non lo è meno fra i rom e sinti e fra  altre forme di mobilità umana. Si tratta soprattutto di movimenti evangelici pentecostali ma pure dei testimoni di Geova.

I richiami della S. Sede…

è ben noto che la Santa Sede è intervenuta ripetutamente sul tema delle sette e del proselitismo, come nel Direttorio ecumenico del 1993; la segnalazione del fenomeno ritorna sulle proposizioni presentate al Papa dai Padri dei Sinodi per l’America, per l’Oceania, per l’Europa. Non va poi dimenticato l’intervento personale di Giovanni Paolo II col Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 1991, che ha per tema: “Una sapiente azione pastorale per salvaguardare i migranti dal proselitismo religioso”.

…e della Chiesa italiana

Anche la Chiesa Italiana è intervenuta in materia con la Nota pastorale del Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo del 30 maggio 1993, dal titolo: “Di fronte ai nuovi movimenti religiosi e alle sette”, con due chiari riferimenti al caso degli immigrati.

Nel medesimo anno la Commissione episcopale per le migrazioni ha edito gli “Orientamenti pastorali per l’immigrazione – Ero forestiero e mi avete ospitato”, dove al n. 35 si parla del “mondo delle sette” in questi termini: “Le sette e i nuovi movimenti religiosi sono un fenomeno in piena espansione un po’ ovunque. E loro campo preferito di proselitismo sono proprio i migranti, facili prede di metodi insistenti e aggressivi. è questa una delle più vive preoccupazioni della Chiesa… La proposta umana e religiosa che proviene dalle sette interroga i cattolici e li chiama a misurarsi con l’urgenza d’una testimonianza coerente, capace di tradursi in amicizia, dialogo, solidarietà, fede vissuta”.

Seminari di studio della Migrantes sul tema

Sul tema la Migrantes ha tenuto un seminario di studio a Bassano del Grappa già nel 1998 e lo ha ripreso presso il CUM (Centro Unitario Missionario) di Verona il 29 maggio 2006 e proseguito, in videoconferenza, il 9 novembre dello stesso anno a Roma e a Bologna. Gli atti di questi seminari nelle loro parti più rilevanti sono stati pubblicati, sotto il titolo I movimenti religiosi e alternativi tra i migranti, nella Collana “Religioni e Sette nel mondo” (n. 2, 2008), edita dal GRIS (Gruppo di Ricerca e Informazione Religiosa), della cui consulenza ci si è costantemente serviti. La pubblicazione, oltre che dalla F. Migrantes e dal Gris, è edita anche a cura della Caritas Italiana, dell’Ufficio Catechistico (Settore Ecumenismo e Dialogo) e dell’Ufficio Nazionale Cooperazione missionaria tra le Chiese.

Riprendiamo dagli atti di questi seminari e in particolari dalle diverse sintesi, quanto si ritiene maggiormente rilevante per la pastorale sotto l’aspetto conoscitivo e operativo.

Riflessioni e proposte emerse dai seminari

1. Presa d’atto del fenomeno

Certamente c’è un’opera di propaganda e di proselitismo, spesso martellante e capillare verso gli immigrati cattolici, che fa leva anche sulla loro situazione di sradicamento e conseguente stato di fragilità, di frustrazione, di solitudine e disorientamento. La consapevolezza di questa situazione porta il cristiano alla comprensione verso l’altro considerandolo più vittima che responsabile di una scelta incompatibile con la sua fede cattolica; comporta in pari tempo la consapevolezza della seria responsabilità verso queste “pecore sperdute della casa d’Israele”, l’impegno per conoscere più da vicino il fenomeno, lo sforzo di quantificarlo e di capirne la vera identità e soprattutto una decisa pianificata opera di prevenzione, di ricupero e di contrasto, valorizzando – se presente in loco – il servizio del Gris.

2. Rispetto e comprensione per “l’altra parte”

Qualunque sia il comportamento di chi sta “sull’altra sponda” e la valutazione anche severa della sua posizione, la regola irrinunciabile per il credente e particolarmente per l’operatore pastorale è il rispetto, la cortesia, la disponibilità di fondo all’ascolto e al dialogo, il rifiuto di giudicare le intenzioni o di supporre la mala fede: atteggiamenti che rientrano del precetto fondamentale dell’amore.

3. Apprezzamento per quanto c’è di positivo in loro

è onesto e doveroso da parte nostra cogliere anche quello che di positivo si riscontra in questi gruppi, come il forte riferimento alla Parola di Dio, la lettura assidua della Bibbia, l’esercizio prolungato della preghiera, il senso forte di appartenenza, lo stretto legame di amicizia e di solidarietà tra i membri del gruppo; aspetti che essi, anche per l’occhio prevenuto con cui guardano le cose nostre, non riscontrano tra i “cattolici”. Però va tenuto  presente che in genere nei MRA c’è un grosso deficit teologico sia per metodologia che per contenuti. Comunque non si può aprioristicamente mettere in dubbio la buona fede e negare che si tratti di vero sentimento religioso, di autentica ricerca del trascendente, di dare senso alla vita, di trovare gratificazioni che aiutino a superare le tante difficoltà legate alla vicenda migratoria.

4. Senza cedevolezze e falsi irenismi…

Questa apertura non deve essere né venire interpretata come cedevolezza o suscitare comportamenti eccessivamente irenici sino alla ingenuità e all’ambiguità; ne potrebbe essere compromessa l’integrità della fede e favorito anche nei nostri fedeli italiani un pericoloso senso di relativismo. Il Vangelo della carità deve andare di pari passo col Vangelo della verità.

Di conseguenza la cessione di ambienti da parte delle parrocchie o di altre istituzioni cattoliche a questi gruppi deve essere fatta con molta cautela. Non si può suggerire un orientamento univoco, data la grande varietà di situazioni. Occorre attento discernimento, da non lasciare comunque  al singolo parroco o ad operatore pastorale, ma al vescovo o a un suo incaricato. Si riscontra che in tale materia sarebbe necessaria una maggiore intesa e sintonia tra le varie diocesi. Si può ipotizzare un “direttorio” nazionale?

5. Assicurare per loro una pastorale specifica…

Anche il penoso fenomeno dell’allontanamento degli immigrati cattolici dalle nostre comunità ecclesiali e l’adesione a movimenti religiosi alternativi che talora meriterebbero il nome di “sette”, conferma l’esigenza di sviluppare per loro una pastorale specifica con propri operatori e strutture, secondo le chiare indicazioni della Chiesa, così da assicurare loro un servizio pastorale fatto il più possibile su misura della loro profonda indole, mentalità, cultura, lingua e tradizione. Non si tratta di “benevola concessione”, ma di risposta a un loro preciso diritto, garantito dalla loro dignità di figli di Dio e da precise disposizioni della Chiesa. E’ importante che ai tanti sradicamenti che lo straniero subisce a causa della sua vicenda migratoria non si aggiunga anche lo sradicamento totale da quell’humus che ha favorito la nascita e lo sviluppo della sua vita cristiana.

6. …da armonizzare con il compito dei parroci

Con tutto ciò non viene diminuita la competenza e la responsabilità delle nostre strutture pastorali italiane e in particolare dei parroci nei loro confronti; questa responsabilità viene ripetutamente richiamata, anche con parole forti, dalla Chiesa. Si deve prendere atto che di fatto, anche dal punto di vista religioso, pastorale e perfino canonico, i migranti hanno una doppia appartenenza e quindi hanno titolo per una duplice cura pastorale, non da porre in reciproca concorrenza ma da armonizzare secondo la logica della pastorale d’insieme. Risulta sempre di utilità tenere presente la “Lettera alle comunità cristiane su immigrazione e pastorale d’insieme Tutte le genti verranno a Te”, emanata dal Consiglio Episcopale Permanente il 21 novembre 2004.

7. Doverosi interrogativi…

L’esodo dalle nostre comunità di questi fratelli nella fede deve metterci in crisi e aprirci, senza indebiti complessi di colpevolezza e di autolesionismo, a una posizione di seria autocritica sul modo tradizionale o piuttosto consuetudinario di impostare la catechesi che forse non si svolge in forma di vera e propria evangelizzazione, di fare comunità cristiana, di svolgere le nostre liturgie. Tanto spesso c’è del convenzionale, del ripetitivo all’insegna della stanchezza, della passività, del “precetto” che vincola. C’è seriamente da domandarsi se nelle nostre assemblee si crea un clima di vitalità autentica, di fresca novità, di entusiasmo. “Sono molto cattolici in Italia – si sente dire da parte loro – ma poco religiosi; c’è molta partecipazione ma poco coinvolgimento”.

8. …e risposte a legittime esigenze dei diversi

Ed è proprio questo che cercano tanti immigrati, spinti dalla loro tradizione oltre che dalla loro particolare situazione di mobilità. Nel Paese di origine era caratteristico dei loro incontri e delle loro celebrazioni la valorizzazione dell’individuo, la bellezza dello stare assieme, del ricercare il rapporto a tu per tu, del soddisfare anche sul piano religioso la carica sentimentale ed emotiva che essi portano dentro di sé: insomma una specie di contagio tra loro quanto a festosità ed entusiasmo, spontaneità e creatività, forte partecipazione da veri protagonisti e non da semplici spettatori e ascoltatori, quali invece sembrano loro i nostri fedeli guidati dal “clero” attorniato dai pochi suoi collaboratori. Insomma per loro non c’è vita e celebrazione autentica se non ci si rapporta con Dio e con i fratelli presenti nell’assemblea con tutta l’espansione delle proclamazioni, del canto e della musica anche rumorosa, della danza e dell’applauso. Il tutto non cronometrato nell’ambito massimo di tre quarti d’ora: “Dio – si sente dire da loro – merita anche due ore e molto di più, soprattutto nel giorno del Signore”. Si sta parlando non soltanto degli acattolici, ma pure dei nostri fedeli che vengono da lontano, che frequentano le nostre assemblee. Non si intende dire che, per attenzione alle loro esigenze, nelle nostre celebrazioni dobbiamo conformarci al loro stile, dobbiamo però conoscerlo, rispettarlo e favorirlo; e nei momenti felici in cui la celebrazione ha una buona presenza di immigrati, inserire qualcosa che sia di loro gradimento, arricchendo di una nota non di semplice folklore ma di cattolicità il nostro rito. Sarà benefico per loro ma altrettanto per i nostri fedeli.

9. Cercare i contatti

L’appuntamento con i cattolici stranieri non è solo per le celebrazioni; ci sono diverse altre occasioni, va inoltre ricercato anche l’incontro personale, in circostanze speciali e possibilmente la visita in famiglia: è importante rompere il ghiaccio, accorciare anzi annullare le distanze, far sentire il calore dell’amicizia. è un potente preventivo per chi è tentato di lasciarsi distrarre e sedurre da altre proposte. Ed anche chi fosse irretito, soprattutto nei primi tempi, facilmente non rifiuta questo gesto di attenzione, che per lui potrebbe essere la spinta a far ritorno.

Allo scopo vanno valorizzate e moltiplicate le “Feste dei popoli o delle genti” (ne parla anche la recente Istruzione Pontificia “Erga migrantes caritas Christi”, n. 72) facendo tutto il possibile perché siano essi, gli immigrati, ad avere parte attiva della preparazione e gestione della festa. Iniziative come queste hanno il valore aggiunto di mettere in contatto cordiale e festoso stranieri e italiani, riducendo o eliminando il fossato di separazione, dannoso anche agli effetti della fedeltà all’ortodossia cattolica.

10. E per chi ritorna?

Si dovrà fare molta attenzione al fenomeno inverso, quello del “ritorno”: tanti infatti sono ancora a metà strada, sono stati trascinati e forse abbagliati, ma l’abbaglio potrebbe essere di un momento e, se giunge loro una parola amica, un gesto invitante, possono decidersi a “rimanere o rientrare nell’ovile”. Si tenga conto che anche gli “inveterati” tanto spesso vedono esaurita la loro esperienza religiosa, ne sono saturi e si allontanano, ma con senso di frustrazione e di stanchezza, non di positiva ricerca della giusta strada; per ritrovare la strada dell’ovile, hanno bisogno di qualche iniziativa tipo Buon Pastore.

Quelli che sono “rientrati” possono essere mediatori efficaci per fare a loro volta la parte del Buon Pastore e attivarsi perché anche altri, che hanno condiviso la medesima negativa esperienza, prendano la strada del ritorno.

11. Valorizzare il contributo dei laici

è questo un campo qualificato in cui valorizzare l’opera dei laici. I movimenti religiosi alternativi non hanno una gerarchia, anche se di fatto tra loro c’è spesso qualcuno che domina, impone e perfino seduce. Gli aderenti a questi movimenti vivono fianco a fianco nel lavoro e altrove con chi è cattolico anche convinto: la loro parola insistente, il racconto della propria esperienza personale, magari l’insinuazione o l’accenno a fatti, obiettivi o mistificati, a sfavore della Chiesa cattolica, e poi il volantino o il piccolo che hanno spesso a disposizione, pronti a distribuirlo: tutto questo può portare con una certa facilità “i nostri” a una “conversione alla rovescia”. Per l’opera di prevenzione e di ricupero non bisogna contare esclusivamente o quasi sul clero e i religiosi; bisogna far leva su questo grande potenziale che sono i laici anche italiani ma soprattutto immigrati: molti di loro forse avevano già un ruolo attivo, ad esempio di catechisti, nel loro Paese di origine.

Ne consegue anche la necessità di non lasciare questi laici all’improvvisazione, anche se carichi di buona volontà. è necessaria una preparazione, un contatto per chi ha già esperienza in questo campo. Occorre aprire nelle diocesi maggiormente interessate qualche corso di “formazione dei formatori”, di “animatori di comunità”. C’è qualche bella esperienza a riguardo, molto incoraggiante.

Una domanda: i gruppi di Rinnovamento nello Spirito, dove sono presenti, non potrebbero fare opera di mediazione e di ricupero nei confronti degli aderenti ai MRA di tipo evangelico–pentecostale?

Una parola conclusiva

è inquietante per noi l’interrogativo: “i figli della luce” non si accorgono di tutto questo? Dov’è la loro vigilanza? Dov’è nei pastori l’ansia per queste pecore già sperdute o che rischiano di diventarlo proprio in casa nostra, dopo tanto sudore e sangue effuso dai nostri missionari nelle terre di missione? è però incoraggiante la constatazione che in alcune diocesi è in atto una seria mobilitazione dei nostri operatori pastorali, che può fare da stimolo anche ad altre diocesi e può essere l’inizio di una pastorale concordata a livello nazionale anche in questo settore.