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Le migrazioni sono cultura (E. Modica)
L’interculturalità vissuta e promossa dalle religiose

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/08


Sono molte le religiose che hanno un impegno diretto con la mobilità umana, tanto oggi come nella storia della vita religiosa. Possiamo ricordare la Santa Francesca S. Cabrini, madre dei migranti, la Serva di Dio, Madre Assunta Marchetti, Madre Clelia Merloni e tante altre. Attente ai segni dei tempi hanno dato delle risposte secondo le realtà dalle quali si sentivano chiamate in causa in nome del Vangelo. L’azione e la visione della progettualità della Chiesa in risposta alle sfide che l’evangelizzazione è chiamata ad attivare nel sociale, sia tra migranti che in altri contesti specifici, ha sempre potuto contare, qualitativamente e anche in modo espressivo quantitativamente, con la presenza, l’intelligenza e la santità di donne consacrate. Al n. 57 di Vita Consacrata questo aspetto è formalmente assunto dalla Chiesa: “Anche il futuro della nuova evangelizzazione, come del resto di tutte le altre forme di azione missionaria, è impensabile senza un rinnovato contributo delle donne, specialmente delle donne consacrate”.

Il contesto della mobilità umana, in particolare, fin dagli inizi dell’impegno ecclesiale con un’azione specifica per migranti e rifugiati, ha rivelato come necessaria la presenza di donne, laiche e consacrate, per una partecipazione effettiva e un contributo imprescindibile per la causa. Esse vi risposero da sempre, facendosi migranti con e per i migranti. La figura più nota è santa Francesca S. Cabrini, implicata nel mondo dell’emigrazione italiana su autorevole indicazione di Papa Leone XIII, sollecitato dal beato Giovanni Battista Scalabrini, che riteneva fondamentale la partecipazione delle donna nella missione tra i migranti con una fondazione femminile ancora prima che fosse riuscito a concretizzare l’anelito di complementare il progetto missionario che oggi porta il suo nome. Sul ruolo della donna, dalle labbra di Scalabrini, le prime missionarie da lui inviate a servizio dei migranti negli Stati Uniti poterono udire: “...l’opera dei sacerdoti non sarebbe compiuta senza l’opera vostra, o venerabili suore. Vi hanno cose nelle quali voi sole potete riuscire. Dio ha infuso nel cuore della donna un’attrattiva tutta particolare, per la quale esercita un potere arcano sulle menti e sui cuori. Mi confido pertanto che voi risponderete alla grazia di Dio che vi chiama in terra lontana ad una missione sublime di religione e di civiltà”1.

Ben 115 anni dopo, l’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, al numero 80, ribadisce: “Ci pare doveroso ricordare l’apostolato delle religiose molto spesso impegnate nella pastorale tra gli immigrati, con carisma e opere specifiche e di grande importanza pastorale”. Lo stesso documento, al n. 81 fa una sollecitazione: “Oltre a quelli menzionati, anche altri Istituti religiosi, pur non avendo tale fine specifico, sono cordialmente invitati ad assumere parte di questa responsabilità”. Segue poi un’esortazione al n. 82: “Se tutti gli Istituti religiosi sono dunque invitati a tener presente il fenomeno della mobilità umana nella loro pastorale, essi debbono pure considerare con generosità la possibilità di destinare alcuni religiosi o religiose per l’impegno nel campo delle migrazioni. Molti infatti sono in grado di dare un notevole contributo nell’assistenza ai migranti perché dispongono di religiosi con formazione diversificata, provenienti da varie Nazioni, che possono, con relativa facilità, trasferirsi in quelle non loro”.

Una mobilità che diventa ricchezza interculturale

La sollecitazione fatta dalla “Erga Migrantes” è una realtà vera per molte Congregazioni religiose in Italia. Esse dispongono di risorse umane, di religiosi/e con formazione diversificata, provenienti da varie Nazioni, che hanno quindi facilità a lavorare con i rispettivi connazio- nali. Un’altra risorsa, non esplicitamente citata dall’Istruzione, è la conoscenza di tante lingue diverse, per il fatto che i religiosi e le religiose italiani o non italiani attualmente residenti in Italia dispongono di ampia esperienza missionaria in altre Paesi del mondo.

Dunque si tratta di una sollecitazione che la Chiesa fa a tutti gli Istituti di vita Consacrata e alle Società di vita apostolica ad allargare generosamente i confini del proprio impegno, in una vera e propria dimensione missionaria. Questa sfida-risorsa è da tempo(anno 1970) diventata esperienza articolata e sostenuta dalla istituzioni: USMI - Ufficio Mobilità Etnica e ora Migrantes - Conferenza Episcopale Italiana. A diversi livelli esse favoriscono e organizzano incontri, studi e approfondimenti per le Suore che pastoralmente operano con la mobilità umana.

Fin dall’inizio dell’emigrazione italiana, numerose religiose hanno accompagnato passo passo gli italiani che a partire dalla fine ’800, lasciavano i loro paesi verso altri Continenti, specie le Americhe. Sono state donne che si sono distinte per generosità, abnegazione e spirito di sacrificio. Hanno saputo, inoltre, gestire, con estrema serenità e fiducia in Dio, le forti precarietà di vita ed interagire con equilibrio per farsi accettare, comprendere e apprezzare dalla comunità ospitante, nonché dalle istituzioni, prevalentemente o anche unicamente gestite da uomini. Storicamente la presenza femminile nella pastorale in contesto migratorio, più che dare priorità alle strutture, sia pur urgenti, hanno mirato a salvaguardare la dignità umana di questi trapiantati esposti ad ogni forma di difficoltà e di sfruttamento. La loro opera si è resa subito visibile e credibile per la particolare attenzione posta ai bisogni della prima accoglienza, senza trascurare l’aspetto della evangelizzazione e la catechesi, portata avanti con tenacia e costanza. Oggi in Europa, nonostante il loro numero sia diminuito notevolmente, ci sono ancora 166 suore che lavorano tra i migranti italiani.

La principale sfida che interpella particolarmente le religiose nella Chiesa e di fronte al fenomeno migratorio - qui ed ora, realtà così ricca e così nuova - è la formazione alla missione perché oggi la missione si presenta come una dimensione trasversale della fede, prescindendo dalla territorialità. La missionarietà come intrinseca alla vita religiosa, e quindi la missione a “casa nostra, nella nostra terra”. La mobilità umana ha portato vicino quello che era lontano. Il mondo invisibile è arrivato e si mescola con le realtà visibili, anche se non sempre riconoscibili, della realtà multiculturale italiana ed europea, davanti alla quale la vita religiosa internazionalizzata è chiamata a rispondere perché diventi sempre più una realtà interculturale. La posta in gioco si misura nelle relazioni, non solo istituzionali, ma soprattutto interpersonali, dentro e fuori dai “conventi” e dalle parrocchie.

Significato e significati della sfida interculturale

Le migrazioni prefigurano ed attuano il passo biblico del profeta: “Tutte le genti verranno a te” (Ap 15,4). Così come la Chiesa e i discorsi spirituali abbondano nell’esprimere l’immagine paradigmatica di una “Chiesa pellegrina” in questa terra chiamata a valorizzare e riscoprire la sua dimensione di popolo in cammino, figli in marcia alla casa del Padre, così la missionarietà chiede dalla vita religiosa l’anticipazione di questa realtà tramite gesti concreti di interrelazione, accoglienza della diversità, apertura alle culture e alle mentalità altre affinché là dove si rendono presenti le religiose siano capaci di moltiplicare questi valori e questa visione perché tutte le realtà ecclesiali e aggregative si lascino interpellare ed apprendano dalla parola e dall’esempio della vita religiosa. Non si tratta solo delle religiose immigrate, ma delle comunità italiane, francesi, portoghesi, ed altre che, accogliendo e lasciandosi trasformare dallo Spirito che fa nuove tutte le cose, integrano nei loro saperi e nelle loro modalità di servire e di interagire, la ricchezza di quello che l’interculturalità intra-congregazionale, operata dell’accoglienza di consorelle immigrate, ha realizzato.

Le nuove presenze etniche non si possono più ignorare né nella società né all’interno delle Congregazioni. Senza volerlo esse cambiano il volto della vita religiosa, cambiano la struttura interna delle Congregazioni, risvegliano il bisogno di una nuova riflessione missionaria.

La Vita Religiosa (VR) apostolica vive dentro questo tipo di storia ed il contesto multiculturale, plurietnico e interreligioso la permea influenzandone gli sviluppi, lo stile di vita, il pensiero e le relazioni. La missione della VR stessa richiede di essere presenti nella storia con la propria identità di essere memoria evangelica, assumendosi tutta la responsabilità di questo tempo e di abbracciarlo in un gesto profondamente amante e solidale.

Grazie alla ricchezza dell’immigrazione, all’arrivo di suore immigrate e all’esperienza interculturale si può dire che la VR femminile, oggi in Italia, ha il volto di una donna matura, forse un po’ avanti nell’età, con la bellezza propria di chi negli anni ha conosciuto le gioie della maternità spirituale, ma anche sofferenza e martirio; ha il volto di una donna che ha vissuto l’emigrazione in primo piano o direttamente o attraverso i suoi figli; la VR ha gli occhi luminosi propri di chi ha il cuore pieno di speranza; quindi quanti sono nel mondo della mobilità umana possono essere, e sono, quel segno di stabilità all’interno della struttura instabile e fluttuante della migrazione. Donne di speranza che ricordano al migrante quale è l’amore con cui il Padre lo ama e la speranza a cui è chiamato: la vita piena e abbondante in Dio.

E sotto gli occhi di tutti che in Italia, la fascia giovane della VR ha il volto della multiculturalità. La considerevole presenza di soggetti giovani, che approdano in Italia dai Paesi economicamente più poveri, si iscrive soprattutto nelle seguenti motivazioni:

- la maggioranza delle giovani sono in Italia per essere introdotte nell’iter formativo-carismatico; e, per alcune congregazioni piccole, le giovani sono una speranza e una ricchezza, ma anche una possibile ipoteca sul futuro delle persone e della congregazione stessa;

- altre sono studenti presso le università pontificie o gli Istituti di Scienze Religiose, con la prospettiva di migliorare ed approfondire la loro formazione spirituale e culturale, in vista di un ritorno alle loro Chiese locali;

- poche religiose non italiane, in contrasto alle molte presenze, sono inserite nelle attività apostoliche, nonostante una mentalità molto diffusa “dell’importazione di mano d’opera”. Queste sono “oggetto” di una cura particolare da parte delle Congregazioni, perché chiamate a superare non solo le difficoltà di stile di vita e di cultura, ma anche difficoltà di espressione linguistica e di approccio comunicativo con l’ambiente in cui operano.

Come intendere i percorsi di inserimento nei contesti locali, dove la ricchezza della storia culturale e religiosa delle suore immigrate potrebbe essere il contributo maggiore per la loro stessa missionarietà e per l’edificazione di una Chiesa capace di includere i suoi figli che hanno ricevuto la fede in altre terre, dove il Vangelo li ha raggiunti? Certo, la sfida è pastorale, ma la sfida è anche intra-culturale. I tessuti socio-ecclesiali si rinnovano e si diversificano, certamente, nella misura di uguale flessibile fecondità dei suoi agenti, immigranti e autoctoni insieme. Senza l’interculturalità di questi, quelli, anche quando arrivano con buona volontà e voglia di sgobbare facendosi parte viva della Chiesa locale, non ce la farebbero.

Ed è un dato importantissimo, evidente su cui non si può chiudere gli occhi, quello di comunità religiose e di Chiese locali, di pari passo alla società, non più mono, ma pluriculturali: albanesi, polacche, rumene, messicane, indiane, nigeriane. Questo è un blocco per i processi di costruzione della Chiesa oppure un’opportunità? L’esperienza dei cristiani è che attraverso la costituzione di comunità internazionali si può arrivare a vivere in comunione, ciò che è diverso dalle convivenze culturali. L’internazionalizzazione - in quanto dono che spinge a superare gli stretti confini della comunità, della Chiesa locale - può far aprire menti cuori e programmi all’universalità della Chiesa e della missione. E questo che la Vita Consacrata afferma e spera dalla Vita Religiosa: “essere artefici ed esperti di comunione, di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio” (Istruzione Vita consacrata n. 25).

Tale testimonianza, ad ogni livello, esige il passaggio dalla tolleranza attuale alla convivialità, richiede conversione, vorrebbe dire che implicitamente o esplicitamente viene fatta la scelta del “lasciarci ferire dall’altro”, ossia apertura al cambiamento, forza interiore, essenzialità, dialogo su cui Levinas ha aperto ampiamente la strada, indicandola alla teologia dell’alterità. Levinas sottolinea che “l’epifania dell’altro esige il superamento di sé”. La sfida sta nell’essere cristiani della tenda dell’incontro, accogliendo anche l’eventualità dell’ignoto, incontro a quanto Dio promette. E la testimonianza di Abramo alle grotte di Mamre, e non solo.

La cultura dell’altro non è solo un abbigliamento contingente, ma è l’umanità che veste i valori e la dignità di ogni uomo o donna che appartiene a quella cultura. Questo dato ha portato scosse profonde in alcune Congregazioni; ma il rischio di irrigidimento in tante altre è sempre in agguato. Nella società in generale - e non diversamente lo è per le comunità religiose - i membri arrivano dai quattro venti, perciò non è possibile continuare a vivere come se la realtà fosse ancora monoculturale. Le religiose straniere, con la loro semplice presenza, possono favorire processi interculturali, possono svolgere in un certo senso il ruolo di bussole, di segnale indicatore del livello dei processi di adattamento e di integrazione del e con il migrante della loro stessa lingua e cultura, delle forme della fede e della convivialità, dei cambiamenti di mentalità e di traguardi da raggiungere, solo per citarne alcuni. Questo percorso è da verificare anche all’interno delle comunità religiose.

Il migrante, icona per i credenti

Le religiose provenienti da altre nazioni possono aiutarci ad imparare i modi di salutare del migrante che appartiene alla sua cultura, le distanze da tenere nella conversazione, il concetto di privacy, come anche convivere con il clima emotivo dell’altro in momenti particolari della vita del migrante (lutti, malattie, compleanni), il modo di vivere e di celebrare la fede.

Le migrazioni sono un percorso, come singolo e come popolo, sono singole storie ad emigrare ed allo stesso tempo si pongono come un fenomeno; ed occorre imparare la flessibilità di sapere essere o stare  l’uno accanto all’altro, di accogliere il percorso fisico e interiore di questa storia, che è presente anche nella storia di ogni missionario, di ogni uomo o donna credente che si mette al servizio del Vangelo nella Chiesa.

Le migrazioni sono uno o più strappi. Servono pertanto uomini e donne che siano costruttori di ponti per fare comunione e per non cadere nell’omologazione. Questo tipo di mentalità che dà spazio (anche fisico) al migrante e lo rispetta, lo stima… porta alle strutture religiose ed ecclesiali vita nuova: perché porta ad una rimessa in discussione del modo di gestire il potere, la formazione, la responsabilità, la gestione delle risorse, le priorità. Il moltiplicarsi delle nazionalità sarà una sorpresa non sempre gradita, ma di fatto è sempre determinante sulla qualità evangelica delle relazioni in loco.

In questo senso la pastorale migratoria in rapporto all’ecclesialità presenta un panorama specifico. Non si tratta di essere tra i migranti per tenerli nell’isolamento, in cui vivono già a livello di società (vedi pregiudizi). La pastorale tra i migranti esiste per l’edificazione della Chiesa stessa, così come le comunità religiose, rispettando il proprio carisma, alimentano una esigenza costitutiva della Chiesa, cioè la sua missionarietà. I migranti e le suore straniere nelle Congregazioni o nelle comunità precedentemente solo con suore italiane spingono ad un cambiamento, quello stesso che movimenta la Chiesa ad uscire da sé, ad essere sé stessa in relazione, costringendo ad una rivisitazione del Battesimo, per riscoprirlo. Certo, và superata la convinzione che l’altro e il diverso rappresentino un pericolo identitario, carismatico, istituzionale, sociale. Lo straniero anche in questo caso non rappresenta un turbamento per la tradizione della fede cristiana-cattolica, bensì motiva ed esige un ripensamento della qualità pratica di questa stessa fede. Perciò l’immigrato e la suora immigrata non sono una minaccia, o semplici destinatari, ma uomo o donna interlocutori nella fede.

Conclusioni

La partecipazione delle religiose, sia straniere sia italiane in percorsi pastorali, con la loro proposta di una visione di fede sulla presenza delle migrazioni nel contesto italiano od europeo è opportunità di auto critica in vista della chiamata a vivere concretamente la cattolicità, superando il limite insito anche nella vicenda migratoria e trasformandola in evento di salvezza. Si afferma la legittimità di una pastorale specifica che fa perno sulla lingua e sulla tradizione propria dei migranti, affinché essi siano messi nelle stesse condizioni degli altri fedeli nel ricevere la cura pastorale della Chiesa che è Madre per tutti, autoctoni ed immigrati.

I campi di azione per le sorelle di altra madre lingua sono amplissimi. La catechesi e l’evangelizzazione, la tratta delle straniere, i minori non accompagnati, la pastorale giovanile, l’assistenza ai detenuti stranieri, la presenza morale e fisica ai migranti degenti in ospedale, l’evangelizzazione nel mondo del lavoro, il catecumenato, il dialogo interreligioso il dialogo per la vita, e le opere, lo scambio teologico e la condivisione dell’esperienza religiosa. Tutti ambiti in cui avere il polso del nostro metro di misura sulla capacità di condividere i beni umani e spirituali, ambiti per muoverci dal centro verso i margini, verso la frontiera, in questa terra ricca di storia, crocevia di popoli; qui ed ora; allora ogni comunità religiosa può essere una tenda della riunione in cui tutti i popoli dicono all’Agnello: “Vieni Signore Gesù!” (Ap 22,20).

 

 

 

1 Giovanni Battista Scalabrini, Appunti del discorso alla Madre Cabrini e 6 compagne nella consegna del Crocifisso a Cotogno, 19/03/1889; in “Scritti”, vol. I, p. 135.