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Traccia di riflessione per la GMM 2007 (PG. Saviola)
La famiglia, parabola di comunione nella diversità

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/06


TRACCIA di riflessione per la GMM 2007

 

«La famiglia, parabola di comunione nella diversità»

 

Piergiorgio Saviola

 

Mi trovo per caso in una scuola materna multietnica nella zona della Pineta Sacchetti a Roma; è l’ora che arrivano le mamme a ritirare i loro piccoli; sono lì nel grande salone per lo sfogo finale, con tanto di schiamazzi, di ruzzoloni a terra e di canti con stonature ad alto livello; e poi bacini e sventolio di manine in segno di saluto, senza avvedersi di avere la pelle e i tratti del volto diversi l’uno dall’altro. Due mamme italiane sono lì a godersi lo spettacolo e a commentare: “Siamo solo noi adulti a vivere di pregiudizi e di distacchi. Se imparassimo qualcosa da loro… e se portassimo questo stile di rapporto dentro le nostre famiglie e tra le nostre famiglie!”. Quelle due signore italiane si sono distaccate tra loro ed ognuna si è avvicinata ad un’altra mamma straniera per fare con lei il medesimo discorso.

Insomma, in contesto migratorio, c’è quotidiana occasione di fare esperienza di comunione anche tra famiglie tanto diverse fra loro per provenienza, lingua e cultura. Quel nugolo di bambini nella loro semplicità e spontaneità danno lezione ai grandi, perfino ai genitori. C’è un loro modo del tutto istintivo ma profondamente autentico di fare comunione nella diversità; c’è proprio da imparare o almeno da riflettere se questa lezione non possa essere portata fuori della scuola materna, magari anche nei bar e nelle sedi di partito, e perfino nelle redazioni dei giornali, nelle aule parlamentari e, perché no?, nelle nostre chiese e dintorni parrocchiali.

è un discorso molto serio, questo del rapporto fra diversi, un rapporto che può trasformarsi in un incontro oppure in uno scontro, in dichiarata inconciliabilità delle diversità oppure in esaltante esperienza della comunione nella diversità. Non è fatalità se le cose piegano su un versante o sull’altro: è problema di educazione profonda, che ti carica di convinzioni e di energie  per affrontare in modo positivo il dilemma. Comunione dunque nella diversità non è un valore che scatta automaticamente, a un colpo di bacchetta  magica; te lo devi conquistare agendo da protagonista, magari con non poca fatica e mettendo in conto anche qualche parziale fallimento e frustrazione. Ma è così alto il valore, che vale la pena riprendere sempre daccapo.

La Giornata delle Migrazioni 2007 ci dà una spinta in questa direzione.

La famiglia migrante: un tema ricorrente negli ultimi decenni

L’annuale Giornata delle Migrazioni nella seconda metà del novecento ha riproposto per quattro volte come tema centrale la famiglia migrante, mettendo a fuoco di volta in volta una delle sue molteplici caratteristiche o problematiche.

La Giornata del 1969 ha per titolo: “L’uomo ha diritto alla tutela della sua famiglia ovunque vada”. Suona come un richiamo di carattere principalmente etico e politico; ripetuto però a pochi anni dalla conclusione del Concilio, diventa riaffermazione dei valori e dei diritti fondamentali della famiglia a prescindere dalle situazioni esterne in cui si trova a vivere.

Nel 1980 campeggia sui poster illustrativi della Giornata: “Famiglia migrante e comunità cristiana”;  viene messo in risalto lo specifico della famiglia cristiana  che è “Chiesa domestica”, “santuario domestico della Chiesa”, cioè quella dimensione ecclesiale che colloca la famiglia nel cuore  della comunità cristiana, la quale a sua volta si fa carico  della famiglia promuovendone la dignità e la missione, ovunque essa si trovi. L’orizzonte è molto ampio, però con un limite che è la famiglia italiana all’estero, l’unica forma di emigrazione che a quel tempo interessava il nostro Paese.

La Giornata del 1987 è dedicata alla famiglia migrante, ma porta due notevoli novità: l’Ufficio Centrale Emigrazione Italiana (UCEI), organismo ufficiale della Chiesa italiana per la pastorale migratoria, in quell’anno si trasforma  in Fondazione Migrantes, il cui servizio si estende a tutte le forme di migrazione; comprende dunque, oltre alla ormai classica emigrazione italiana nel mondo e all’incipiente immigrazione extracomunitaria tra noi, il mondo dei rom e sinti, dei fieranti e circensi, della gente del mare, insomma tutto il mondo della mobilità umana. L’altra grossa novità è che il Santo Padre per l’occasione non fa giungere la sua parola attraverso qualche suo collaboratore, come può essere il Segretario di Stato, ma personalmente firmando di sua mano il messaggio, consuetudine iniziata l’anno precedente e protrattasi fino al 2005 quando, poche settimane prima di morire, firma il ventesimo e ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale.

Anche quello del 1994 è dedicato alla famiglia in emigrazione, verso la quale  il S. Padre sollecita “una cultura di operosa solidarietà”, a cominciare da una solidarietà interna alla stessa famiglia così da abilitarla, come dice lo sgolan della Giornata, ad essere “la prima comunità educante”, promuovendo “la comunione al suo interno”, in “un clima di dedizione e di serietà, di moralità e di preghiera”. è toccante l’esortazione finale: “Rifulga nelle vostre famiglie il modello della Casa di Nazareth, provata anch’essa dalla povertà, dalla persecuzione e dall’esilio. Costretta dalla minaccia che incombeva sulla vita del Redentore, la Santa Famiglia sperimentò la fuga improvvisa, in un clima drammatico, denso di ansie e di angosce a voi ben note per diretta esperienza”.

GMM 2007: “La famiglia, parabola di comunione nella diversità”

Un titolo piuttosto astruso, che sa di stranezza? Non proprio per chi è dentro alle problematiche migratorie e alla pastorale per i migranti. “Parabola” prende una ricca gamma di significati e non è parola strana per chi ha familiarità col Vangelo, tutto costellato di parabole, da non equivocare con le storie romanzate o le favole di Esopo. La parabola di Gesù è tanto semplice e pittoresca da incantare, ricalca il mondo reale, prende spunto dalla vita quotidiana, per rinviare a qualcosa d’altro, meglio a Qualcun Altro che tutto trascende; si pensi alla parabola del padre misericordioso, della pecora sperduta o della perla preziosa scoperta nel campo.

La famiglia è parabola di comunione perché rinvia a qualcosa di più grande e di più alto di se stessa. Rinvia in primo luogo alla Chiesa che proclamiamo cattolica, nella quale la bellezza della sua comunione universale è esaltata dalla diversità di tanti “popoli, tribù, lingue, nazioni (Ap 11, 9); meravigliosa complementarietà per cui ciò che è personale e originale di ciascuno diventa patrimonio comune, ricchezza di tutti; e se “stella differt a stella in claritate” il risultato  di questa diversità è l’armonia del cielo stellato.

Parabola di comunione anche per il grande mondo che è, almeno allo sguardo umano, fuori della Chiesa e spesso contro la Chiesa, un mondo troppo spesso e in troppe parti del pianeta lacerato  da lotte anche di estrema violenza, causate da diversità di culture, di religioni, di tradizioni che si ritengono inconciliabili tra loro. è il dramma che si è consumato nel decennio scorso, per fare un esempio, in Burundi e Rwanda  fra Utu e Tutsi e continua a consumarsi in Irak e altrove nel Vicino Oriente fra Sciiti e Sunniti; è un dramma che si vorrebbe da più parti estendere e radicalizzare fra le tre religioni e culture che si affacciano nel Mediterraneo, l’ebrea, la cristiana e la musulmana, religioni che, pur nella loro profonda diversità, hanno una  radice comune nel “Padre Abramo”.

è però il caso di guardare anche più vicino, a quanto avviene in casa nostra, dove si riscontra in molteplici ambiti della società civile un pullulare di sentimenti e risentimenti, di giudizi e pregiudizi, di intolleranze e di rifiuti del diverso che, voglia o non voglia, sono espressione di un vero e proprio razzismo xenofobo. Con sarcastica ironia qualcuno dei promotori di questa ben poco santa crociata contro il diverso ha inventato lo slogan: “Non sono io ad essere razzista, sono loro ad essere diversi, loro che vengono da fuori e  non sono dei nostri!”. Ne consegue in piena logica l’altro slogan, mormorato talora fra i denti, altre volte gridato a squarciagola: “Fuori lo straniero!”, non lo svizzero naturalmente né il giapponese o lo statunitense benché anche loro stranieri e per di più extracomunitari.

Per la nostra comunità cristiana, che è “comunione dei santi” è, per coerenza col Vangelo, chiamata a testimoniare anche nella sfera del secolare l’anelito e l’effettiva ricerca di comunione, andando pure – quando necessario – contro corrente. è doveroso fare un sincero esame di coscienza e interrogarsi se simili sentimenti si colgano soltanto al bar, in piazza, nei comizi od anche nel luogo sacro, o almeno in sacrestia e dintorni. Inganniamo noi stessi se ci riteniamo a posto come cristiani per il fatto che siamo puntuali alla messa della domenica, ci scambiamo tra noi con  espansione il segno di pace, ci accostiamo poi con una certa disinvoltura alla mensa eucaristica,  anche se persistiamo senza troppi problemi ad essere freddi e indisposti alla comunione con chi, appunto, “non è dei nostri” (Mc 9, 38). Gesù ha messo i suoi discepoli a tacere quando hanno usato questo modo di dire.

è temerario ritenersi della Famiglia di Dio se, pur declamando a parole che siamo tutti fratelli, nei fatti discriminiamo l’uno dall’altro. Non so come non ci venga un fremito di paura (o perlomeno di santo timore, se c’è ancora un pizzico di fede), al sentire l’avvertimento di Gesù: “Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8,11). Il più bel commento a queste parole sono il proclama di S. Paolo: “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Viene quasi spontaneo proseguire questa solenne sequenza: “Non c’è più cittadino né straniero, italiano né immigrato, comunitario né extracomunitario”. Si è consapevoli che si sta facendo un discorso ad alto livello, su basi di fede; però, nella misura che tale discorso avrà presa nella nostra coscienza personale e nella nostra comunità ecclesiale, si può stare certi che il migrante con la sua famiglia diventerà parabola di comunione, convincente e stimolante anche per chi non ha il dono della fede e per tutta la nostra società, tanto più che quanto proposto dal Vangelo corrisponde al più genuino senso di civiltà e di umanesimo.

Un’ultima nota. Questa parabola di comunione la possiamo riconoscere anche in quelle famiglie che vengono originate dai matrimoni misti? Sappiamo quanto la S. Sede e la Chiesa italiana inducano ad essere cauti, molto cauti in questo campo, particolarmente nel caso che si tratti di matrimoni tra cattolici e musulmani. Ci sono di mezzo non preconcetti e diffidenze, ma le supreme esigenze della fede, la pratica esterna della vita cristiana, l’educazione dei figli, le difficoltà per una armoniosa convivenza, un concetto radicalmente diverso di matrimonio, la saldezza stessa della vita coniugale. L’esperienza poi continua a dare amare conferme della fondatezza di questi timori e giustifica la prudenza della Chiesa nel dissuadere  tale tipo di unioni coniugali. Tuttavia non mancano i risvolti positivi per cui il coniuge cristiano, come dice il S. Padre nel Messaggio del 1994 con esplicito riferimento alla Familiaris consortio (n. 78), “deve essere sostenuto in ogni modo nel suo impegno di offrire all’interno della famiglia una genuina testimonianza di fede e di vita cattolica”.

La Chiesa mater et magistra anche per la famiglia migrante

Che verso la famiglia in condizione di mobilità la Chiesa rivolga, oltre che le sue attenzioni sul piano socio–caritativo, anche  il suo servizio di magistero, lo testimoniano tutti i suoi documenti sulla pastorale migratoria. Si è già accennato ai due messaggi per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato di Giovanni Paolo II dedicati alla famiglia, ma sul tema egli ci ha lasciato diversi altri interventi. Abbondanti spunti sulla famiglia in emigrazione sono contenuti nella Costituzione Apostolica Exsul Familia Nazarethana (già il titolo è assai significativo), come pure  in quel gioiello di lettera ai vescovi di tutto il mondo che si intitola “Chiesa e mobilità umana”; fondamentali anche le due Istruzioni pontificie, quella legata al Motu proprio Pastoralis migratorum cura del 1969 e l’altra più recente del 2004 Erga migrantes caritas Christi. Merita attenzione anche la Carta dei diritti della famiglia, emanata dalla S. Sede nel 1993, che si sviluppa in 12 articoli, dei quali l’ultimo è tutto riservato alla famiglia migrante. L’articolo merita di essere citato integralmente:

“Le famiglie degli immigrati hanno diritto alla stessa protezione di quella concessa alle altre: le famiglie hanno diritto al rispetto della propria cultura, a ricevere sostegno e assistenza per la loro integrazione nella comunità alla quale recano il proprio contributo; i lavoratori migranti hanno diritto di vedere la propria famiglia riunita il più presto possibile; i rifugiati hanno diritto  all’assistenza… onde facilitare la riunione delle loro famiglie”.

Questa carta è stata recepita anche dal Direttorio per la pastorale familiare della Chiesa italiana, la quale torna sull’argomento anche negli altri documenti dedicati specificamente alle migrazioni: Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà del 1990 e Orientamenti pastorali per l’immigrazione del 1996. Nella Lettera alle comunità cristiane su migrazioni e pastorale d’insieme del novembre 2004 la famiglia torna ad essere indicata come uno dei punti privilegiati su cui deve convergere l’attenzione di tutte le forze ecclesiali e di ispirazione cristiana.

Come realizzare vicinanza e solidarietà con la famiglia migrante?

In primo luogo va messo ogni impegno perché sia la famiglia stessa a valorizzare le sue risorse interne per crearsi una posizione dignitosa e costruttiva al di dentro della società civile ed anche ecclesiale. Tuttavia rimarranno sempre ampi spazi in cui può inserirsi la Chiesa stessa con quella molteplicità di servizi che essa ha a disposizione per le famiglie autoctone; possono inserirsi  la comunità ecclesiale, i gruppi di impegno parrocchiale e le singole famiglie, con quella fantasia creatrice che apre strade sempre nuove per venire incontro alle immancabili difficoltà e soprattutto per far sentire il calore di quella carità che allarga il cuore e dà il gusto del vivere.

Basti un esempio. Mi è capitato a metà settembre, passando per Verona, di far visita ad amici, una giovane coppia e la loro bambina ancora nelle elementari e insieme a lei un’altra bambina, cinese, ancora più piccola. Le due stavano giocando all’impazzata, scorazzando di stanza in stanza. Su richiesta dei coniugi italiani la cinesina si precipitò al piano superiore gridando a mamma e papà di venire giù. Mentre essi scendevano dalle scale gli amici italiani mi confidarono che quell’incontro serotino delle due famiglie era ormai rito quotidiano lì nel loro appartamento o in quello della coppia cinese. Si sentivano, per così dire famiglia unica, così affiatati tra loro adulti come lo erano tra loro le due bambine, e così da sei anni. E non è mancato l’aiuto reciproco,  tanto meno sono mancate le confidenze reciproche. E così i due coniugi italiani, cristiani convinti ed entusiasti, hanno raccontato ai due amici cinesi, nati e cresciuti nell’indifferenza religiosa, qualcosa della loro fede e vita cristiana, mentre la bambina praticava la scuola materna parrocchiale dove, col consenso compiaciuto dei genitori, ha imparato le preghierine, qualche semplice formula del catechismo e racconti sulla storia di Gesù. Conclusione: la domenica successiva al nostro incontro la bambina ha ricevuto il battesimo; la mamma sta facendo il conteggio alla rovescia per accostarsi anche lei al fonte battesimale; pure suo marito, pienamente rispettoso delle scelte fatte in casa sua, comincia ora ad aprire la Bibbia e ascolta volentieri i discorsi religiosi che si fanno in quella famiglia allargata, anche se riconosce schiettamente che per lui, ammaestrato in Cina nell’ateismo di Stato, i tempi saranno più lenti. Francamente poche volte mi è capitato di trovare famiglie in così piena comunione nella loro diversità.

A raccontare fatti del genere di pura cronaca quotidiana senza lasciar spazio alla fantasia non si finirebbe più. E altrettanto se dall’ambito del rapporto tra famiglie si passa alla comunità parrocchiale, felicemente definita  “famiglia di famiglie”. Anche qui un solo caso che mi ha toccato personalmente. Alla fine della conversazione in un gruppo che si definisce “Movimento di spiritualità familiare” ho accostato alcune coppie che dai tratti somatici non mi parevano proprio italiane: una coppia filippina che frequenta abitualmente “Couple for Christ”, e un’altra boliviana che al suo paese era animatrice dei “Corsillos de cristiandad”. Ho subito percepito che la sensibilità acquisita nelle due esperienze le ha spinte a inserirsi nel gruppo italiano di spiritualità familiare, dove però hanno portato qualcosa di proprio e di caratteristico di altri due mondi così lontani dal nostro: anche qui una piena comunione di famiglie arricchita e non turbata dall’introduzione di queste diversità.

Le parrocchie poi dispongono di altre strutture e aggregazioni, come i Centri per la vita, i Consultori familiari e i predetti Movimenti di spiritualità familiare che sono di vivissima attualità anche per le famiglie immigrate, siano esse della nostra stessa fede o di altra fede.

Quando poi si parla di dialogo fra culture e religioni diverse, non si deve pensare solo a quanto si muove ad alto livello fra addetti ai lavori ed esperti in materia; c’è quel dialogo non meno importante e non sempre fatto di formule e parole che si svolge dal basso, nei normali rapporti di vita quotidiana dove la convivenza pacifica e l’armonizzazione delle diversità si fa più spontanea e concreta, ma capace di elevarsi anche alle alte vette che comunemente riteniamo riservate alla teologia.

Anche al di dentro della famiglia comune si può gustare la profondità della parola di S. Paolo: “Voi siete concittadini di santi e della famiglia di Dio”, si può cogliere l’esemplarità dei due coniugi Aquila e Priscilla che in contesti culturali e religiosi diversi del bacino del Mediterraneo hanno saputo fare meravigliosa opera di evangelizzazione e di sostegno alle Chiese nascenti.

In questo ambiente semplice ma carico di fede si può percepire in profondità e fare una certa esperienza non esprimibile a parole che la famiglia cristiana è icona, starei per dire è parabola, della Trinità, grazie al reciproco e fecondo rapporto tra coniugi da cui scaturisce il rapporto col terzo protagonista della vita familiare, il figlio.

A tal proposito mi piace concludere con una battuta che l’indimenticabile Vescovo Tonino Bello ebbe nel suo intervento a Giovinazzo, nel Barese, in un convegno dei missionari italiani di oltralpe  proprio sul tema della famiglia emigrata: “La famiglia è l’agenzia esterna della Trinità, e deve impegnarsi a promuovere, anziché screditare, il buon nome e gli interessi della Ditta”.

Parole che possono sembrare poco riguardose verso la Santa Trinità, che però hanno riscosso un caloroso applauso; danno infatti plastica evidenza a un principio di fede e un’esperienza vissuta almeno in quelle coppie per le quali essere cristiane non è una semplice etichetta di comodo o un abito da indossare solo il giorno di festa.