(7 novembre 2014) - Sentirsi a casa anche a migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese non è facile. Specie per chi la propria casa lha dovuta abbandonare per costrizione e non per scelta; per chi, profugo, ha visto abbattere in un istante sogni e persone e con essi il progetto di una vita. Anche Tatà aveva un progetto e non era certo quello di fuggire dal Mali per arrivare, a soli 19 anni, in provincia di Ragusa.
Il primo momento in cui Tatà, dallalto dei suoi due metri, capisce di potersi sentire a casa anche qui in Italia si materializza in Stefano Solarino, un ragazzo come lui, di appena pochi anni più grande. È tra i coordinatori del Centro di prima accoglienza che si trova a Comiso ed è gestito dalla Fondazione San Giovanni Battista in collaborazione con la cooperativa Rel-Azioni.
Tatà è venuto qui dal Mali nel 2014, anno segnato dalla crisi economica. La sua preghiera è stampata nel permesso di soggiorno, che ormai sogna ogni notte. Un permesso che gli permetterebbe di restare a Comiso per ricostruire una vita. Questa la sua missione e per concretizzarla bisogna partire da una casa che non è facile trovare. Una possibile risposta giunge proprio da Stefano, il nuovo amico italiano. È lui che vede su un sito internet alcune immagini di tipiche costruzioni abitative del Mali. «Gli ho chiesto - racconta Stefano - come vivesse in quel tipo di struttura e come si costruivano le case in Mali. La sua risposta è stata immediata ed è stata un regalo bellissimo».
Il ragazzo alto e forte si mette in azione. Fabbrica i mattoni ad uno ad uno.
«Ci vorrà una settimana - promette ai suoi nuovi amici il giovane maliano - e la casa sarà pronta».
Tatà rispetta i tempi della commissione. «Ho preparato uno stampo in legno per i mattoni - racconta - poi ho usato come materiale la terra, lacqua e la paglia. Li ho fatti seccare al sole e li ho posizionati per formare il muro della mia casa. Poi, ho preparato un lungo tappeto di paglia legata con i materiali trovati in giro. Con delle canne di bambù, ho fatto la struttura del tetto, lho coperta con la paglia e lho montata sul muro».
Un tetto che, simbolicamente, lo protegge dalla naturale paura di chi ha affrontato il viaggio. Un ricordo ancora vivo: «Ho lasciato il Mali - spiega - per via della guerra. Nel mio paese ci sono due gruppi belligeranti: Musjas e Mnila. Uno di questi due gruppi ha ucciso mia madre al gran mercato della mia città di origine. Ho abbandonato la scuola al nono anno, perché alcuni membri del gruppo militare vanno nelle scuole a sequestrare i ragazzi più forti per combattere il governo». Tatà non vuole combattere. Tatà vuole vivere e non uccidere. Dunque scappa.
Il racconto della sua migrazione parla di un primo ingresso in Algeria, dove resta quattro mesi. «Un giorno - afferma - ho incontrato un poliziotto algerino che mi ha chiesto il passaporto. Ho provato a spiegare che non avevo nulla di simile e che per via della guerra ho dovuto abbandonare il mio paese senza documenti, però il giudice mi obbliga a lasciare il paese entro 15 giorni». Inevitabile il passaggio in Libia, zona dombra nella quale si nascondono, in tragica evidenza, maltrattamenti di ogni genere.
«n Libia - spiega il giovane maliano - ho lavorato per 11 mesi per diverse persone. Un giorno, dopo aver lavorato, chiesi al datore di lavoro di essere pagato. Mi rispose chiamando la polizia e denunciando il fatto che non avevo documenti».
Le sbarre di un carcere chiudono ancora una volta lo spazio della speranza. «In prigione fui accoltellato e mi pugnalarono nel fianco. Ho trascorso sei mesi lì, sopportando violenze ogni mattina. In prigione i militari mi dicevano che tutti potevano partire verso lEuropa e che stavano preparando la barca, senza pagare niente. Quando siamo partiti, eravamo 115 persone nellimbarcazione e siamo rimasti per 3 giorni in mare aspettando la grande nave italiana».
La grande nave italiana, per fortuna, è arrivata. «Siamo arrivati a Pozzallo il 10 giugno 2014». È una frase pronunciata tutta dun fiato. È la rinascita che vivono tutti i migranti al momento dellapprodo. È un respiro, un pianto, un grido, che è gioia e dolore insieme. Dunque, il feudo di Canicarao è il luogo di prima accoglienza, per costruire una prima casa e piantare nuove radici.
Oggi Tatà è ospite presso il progetto del sistema per richiedenti asilo e rifugiati Farsi prossimo. Un progetto gestito sempre dalla Fondazione San Giovanni Battista. A pochi chilometri dalla sua casa si trova lattuale centro di accoglienza. Un sogno che si realizza in questa terra di frontiera, dove il suono delle campane dei Vespri incrocia le preghiere di chi verso La Mecca trova il proprio riferimento. Al crocevia di differenti afflati spirituali e culturali si trova oggi anche Tatà. Qui è la sua casa. Da qui i passi verso il suo prossimo destino.
(Antonio La Monica - Migrantes Ragusa)