(20 settembre 2012) - Sulle spalle gli cadono i codini rasta mentre ciuffi di barba incorniciano un volto tondo che sa trovare parole di chiarezza e buonsenso. Un look non d‘ordinanza, insomma, che non è fatto per rassicurare le nonne e sembra fare a pugni con la sensatezza, ma l‘abito, si sa, non fa il monaco e comunque lui, Giacomo Sferlazzo, anima e animatore dell‘Associazione lampedusana Askavusa, del monaco ha poco o nulla, pur condividendone la scelta di campo a favore dell‘umanità. La vocazione di Giacomo è il mondo e nel secolo ci sta da soldato del cambiamento, militante della giustizia e della verità. Per la sua guerra, però, non usa armi, al contrario queste sono bandite dall‘orizzonte di Askavusa, che di fronte al naufragio più recente denuncia, però, una vertigine nuova rispetto al 2011, quando l‘impegno sul campo per i migranti assorbiva ogni energia. «Ci troviamo, mi trovo a dover fare i conti con un senso di impotenza - racconta Giacomo - che in altri momenti non c‘era. Quando vicino a te muoiono delle persone, così tante e con così tanta facilità, ci guardiamo e non possiamo fare nulla, allora ti chiedi che senso ha il tuo impegno, e te lo chiedi anche se non hai intenzione di gettare la spugna, di rinunciare». Soluzioni in vista non sembra ce ne siano: «Anche il corridoio umanitario, che è stato proposto dalla Migrantes delle Chiese di Sicilia per evitare le tante tragedie che hanno fatto del Mediterraneo un cimitero d‘acqua, non arriverà tanto presto e dovrebbe essere accompagnato da altre cose. E comunque - prosegue il leader di Askavusa - bisogna dare una mano nei Paesi d‘origine. Aiutare i tunisini in Tunisia, ma sostenendo la gente comune, aiutando ciascuno a costruire il proprio destino». E sì, perché sicuramente uno dei fattori scatenanti della Primavera araba è proprio questo deficit di democrazia che nella sponda meridionale del Mare Nostrum è così diffusa. Nel considerare la situazione della sua Isola, porta d‘Europa per il Sud del mondo nel cuore del Mediterraneo, Giacomo apprezza con riserva l‘opera di Monti e dei suoi ministri: «Rispetto alle parole usate dai rappresentanti del precedente Governo, c‘è un abisso che ha contribuito a sedare tutti gli animi, anche quelli dei miei concittadini più esasperati, ma tante cose non sono cambiate. È vero, gli sbarchi vengono gestiti meglio di prima, ma rimpatriare così, senza nemmeno guardare in faccia chi hai di fronte, non è giusto. Si fanno ancora i respingimenti, i Cie ci sono sempre e sono sempre luoghi di detenzione e parcheggio, gli accordi con gli altri Paesi non sono cambiati. Bisogna lavorare, lavorare per cambiare». E il lavoro, nell‘estate appena trascorsa, non è mancato ai suoi concittadini: «È andata bene credo, certo i commercianti si lamenteranno, ma questa volta se ci sono pochi soldi in giro la colpa non è dei migranti, ma della crisi che ha fatto spendere meno ai turisti e quindi ha ridotto i guadagni di un‘Isola che vive essenzialmente di turismo. Le cose sono andate bene - spiega sempre Giacomo Sferlazzo - perché funziona il sistema di non far vedere la presenza dei migranti che arrivano e quasi sempre vengono agganciati quando sono lontani da Lampedusa. Ecco uno dei tanti paradossi di quest‘Isola: da qui transitano tanti migranti, ma non entrano in contatto con il tessuto sociale e quindi la questione dell‘integrazione neppure si pone. Qui c‘è stato il problema della convivenza con un fenomeno, a Roma, Milano, Palermo ci sono i problemi della convivenza tra persone con tradizioni diverse, i problemi che pone una società multietnica. Pochi, a Lampedusa, hanno coscienza di questo». Intanto, il Museo dell‘emigrazione, sostenuto anche dalla Fondazione Migrantes, in fase di progettazione e allestimento a cura dei giovani di Askavusa, procede. Hanno iniziato, una decina di anni fa, a raccogliere gli oggetti abbandonati sulle carrette del mare: lettere, lanterne, preghiere, foto, teiere... le tracce di un‘umanità in movimento che solo la presuntuosa illusione di un mondo insensibile può pretendere di governare. L‘operazione di Giacomo è diversa, come dimostra il suo ultimo progetto "La parola è bussola", l‘installazione che lo vede protagonista insieme con Costanza Ferrini, al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma, allinterno dellesposizione: "(S)oggetti migranti: dietro le cose le persone". «Attraverso gli oggetti - spiega sempre Sferlazzo - vogliamo recuperare quelle parole che orientano, è un momento per parlare in pubblico del Museo per il quale stiamo lavorando a Lampedusa, un modo per parlare della vita di persone reali, vere, come sono i migranti che mettono piede nella nostra Isola. A dicembre la mostra sarà anche in Germania, a dimostrazione dell‘attenzione che accompagna questo progetto e la nostra Isola». (Nino Arena - Ufficio Migrantes Messina) (Foto articolo)