Un articolo di don Stefano Nastasi, parroco di Lampedusa
(1 febbraio 2012) - Rileggere un avvenimento, un fatto che ha inciso nella storia di una comunità, un cambiamento di orizzonti e di considerazioni non è facile. Ciò che la terra lampedusana ha sperimentato dopo gli eventi della Primavera Araba è qualcosa che sconvolge il quotidiano di una comunità, di un popolo. I giorni dellemergenza vissuti sul territorio di Lampedusa hanno il sapore della grazia e dello sconvolgimento. Come comunità cristiana, la presenza massiccia di immigrati ci ha permesso di sperimentare la grazia dellincontro. La bellezza sta proprio li: nei nostri occhi che scrutavano i loro, nelle nostre mani che intrecciavano le loro, nei nostri sorrisi che invitavano alla serenità il cuore smarrito di chi cercava una via nuova, un nuovo orizzonte. È larte dellincontro e dellincontrarsi che esorcizza la paura ed invita allaccoglienza. E cosi, mentre altri li definivano rifugiati, clandestini, noi abbiamo preferito chiamarli semplicemente fratelli. Ma se da un lato lincontro con laltro si è manifestato come incontro di grazia, per il ritmo, il numero ed il lungo tempo dellemergenza, come lampedusani abbiamo sperimentato lo sconvolgimento del quotidiano vivere di unIsola costituita geograficamente frontiera naturale dellEuropa, ma che al tempo stesso è ponte e cuore del Mediterraneo per ogni vita disperata, porto salvo per ogni comune naufragio. Ritardi e mancanze di pianificazione ce ne sono stati parecchi, a diversi livelli ed in tutte le direzioni. Ma nonostante la dimensione dellisolamento, la popolazione ha sempre dato risposta di maturità umana che si è fatta carità cristiana, discreta e silenziosa, tale e tanta da colmare le lacune che le istituzioni da un lato, i governi regionali e nazionali dallaltro, avevano determinato nei giorni dellemergenza più acuta. Non può passare inosservata la vicenda della collina trasformata in una grande tendopoli a cielo aperto, collina che ha visto il passaggio veloce della quaresima esistenziale, mutandosi poi nel colle del Venerdì Santo per arrivare alla vittoria pasquale contemplata nelle carni di questi fratelli ripartiti per altri lidi, per altre mete. Se per loro era la Primavera Araba, per noi erano i giorni che precedevano la Pasqua; Pasqua che in modo consapevole ma al tempo stesso inconsapevole, abbiamo insieme sperimentato. Il passaggio di questi tanti fratelli dalla nostra terra è il passaggio dellantico popolo ebraico per una terra promessa, per una libertà sperata, per una pace fortemente desiderata. Noi siamo stati e continuiamo ad essere nostro malgrado, testimoni primi di questo passaggio epocale. In questo nostro sguardo, giorno per giorno, si intrecciano paura ed angoscia, sorrisi e speranze, sogni mai realizzati ed orizzonti appena germogliati. Il segno di un antico passaggio migratorio genera speranza, ma riempie anche di amarezza per una sperimentata impotenza che contrappone la nostra piccolezza dinanzi alla maestosità del fenomeno stesso. Alla luce di quanto è stato detto, è difficile convincersi che tutto possa ritornare come prima, poiché, come ho avuto già modo di dire, niente e nulla sarà più uguale. Questi passaggi di popoli hanno solcato ancora una volta la tranquillità quotidiana di questIsola, trasformandola per sempre. Se sono mancate le pianificazioni da parte di chi ci governava, sono state immediate le risposte da parte di chi tutto ciò lha vissuto in prima persona. Per ogni giorno nuove domande e nuove strategie venivano chieste. Ma la strategia vincente della comunità è stata quella di lasciarsi guidare dal cuore: è lì che ogni sentimento vero attinge forza. Di certo la comunità deve ora sedimentare questo passaggio epocale, perché non rimanga la sola vittima sacrificale di un sistema o un processo che al di là di tutto è stato capace di ridare vita a migliaia di uomini e donne, resi capaci al presente di vivere lontani dallo spettro di ogni violenza e di ogni persecuzione. Chi vivrà vedrà. Don Stefano Nastasi - parroco di Lampedusa (Foto:Don Stefano insieme agli immigrati)